Parla Marta di Magdala:
Di
Gesù Nazareno avevo sentito raccontare meraviglie. S’era appena al secondo anno
della sua vita pubblica e il suo nome correva su tutte le bocche, dall’un capo
all’altro della terra di Galilea, dall’un capo all’altro della terra di Samaria
e della Giudea che gli aveva dato i natali.
Si
diceva ch’era nato in una stalla — lui, il Re dei re! — che a Gerusalemme
Simeone, ripieno dello Spirito Santo, aveva rivelato che non sarebbe morto
prima di vederlo, come poi avvenne; che a dodici anni i genitori, proprio in
occasione della solennità della Pasqua, lo ritrovarono fra i dottori che li
ascoltava e li interrogava.
Passarono
molti anni, e tutto ciò che avevo saputo di lui s’era quasi sbiadito nella
memoria, come una bella fiaba.
Intanto,
mentr’Egli cresceva in sapienza e si fortificava, io mi perdevo per le strade
della sua terra. Del mio povero corpo gli uomini fecero oggetto di lusso. Non
dico questo a mia discolpa, ma la miseria era tanta in casa che non mi bastò il
cuore; non seppi resistere alle dure privazioni che maceravano i volti e
facevano battere i denti. Avrei dovuto servire, offrirmi serva di un desco
onesto, piuttosto che signora di un attimo di amor profano: serva di pochi, non
mai di tutti. Non lo feci, ma pensavo spesso a Lui. E non avevo pace.
Ed
ecco che il suo nome ritorna, la sua fama dilaga. Si raccontava che a Cana —
durante un banchetto nuziale cui aveva partecipato con la Madre e i discepoli,
venuto a mancare il vino — fece empire d’acqua sei pile e le convertì in
nettare squisito; che aveva scacciato a sferzate dal Tempio i venditori di buoi
e pecore e i cambiavalute; che aveva guarito i moribondi, gl’indemoniati, i
lebbrosi, ridata la vista ai ciechi, sedato bufere, risuscitato persino i
morti, come avvenne della figlia di Giairo e del giovinetto di Naim. Infine,
che s’era dichiarato Figlio di Dio, anzi, uguale al Padre.
Tante
volte l’avevo seguito, ma giungevo sempre tardi, non ebbi mai fortuna. E non
trovavo pace.
Quando
quel giorno mi dissero ch’era arrivato a Magdala e si trovava a desinare in
casa di Simone il fariseo, sentii dentro di me una smania che non riuscii a
frenare; tremavo tutta e il pianto mi s’era annodato in gola. Di Simone, sebben
lo conoscessi di nome soltanto, non avevo gran timore ed ero decisa a forzare
la consegna. Temevo invece che Gesù di Nazaret mi respingesse, consapevole
certo delle mie colpe, anche delle più occulte...
Sciolsi
alfine i miei lunghi capelli, presi con me l’alabastro che conteneva i più rari
profumi e m’avviai. Con qualche moneta mi feci largo fra i servi di Simone e
giunta nella sala mi gettai ai piedi di Colui che avrei riconosciuto fra mille.
Un mormorio si levò dalla mensa cui subentrò un profondo silenzio rotto dai
miei singhiozzi: qualcosa di più dei singhiozzi mi si era sciolto in gola. Era
l’anima che adesso inondava di lacrime i piedi di Gesù: io li baciavo e
odoravano di colomba.
I
miei capelli immensi, neri come la notte, che prima sentivo come serpi intorno
alla gola, quei capelli che odiavo per quanto furono amati erano diventati
morbidi come sciarpe di seta, ed io ci asciugavo i piedi del mio Signore,
spargendoli di tutto il profumo contenuto nel vaso d’alabastro. Un olezzo da
stordire riempì la sala.
Intanto
Gesù conversava con Simone e qua e là riprendeva il mormorio. M’assalì il
terrore d’essere scacciata, ma ebbi gran fede nella misericordia del Padre. Non
era Padre anche Lui, il Figlio?
Il
mio cuore batteva con violenza, ma i singhiozzi erano così forti che non
riuscivo ad afferrare quel che dicevano Simone, i discepoli, il Maestro. Ci fu
un attimo che disperai, ma la voce di Gesù fu più alta e forte di tutte: «...io
ti dico, o Simone, che le son rimessi i suoi molti peccati perché molto ha
amato. Colui che meno ama, meno gli è perdonato».
Sentii
una mano dolce come ala di colomba sollevarmi, e la stessa voce, fatta suadente
dall’amore, sussurrarmi: «Donna, la tua fede ti ha salvata, va’ in pace».
Da
quel momento mi sento più felice del lebbroso risanato.
BENIGNO
28
marzo 1948




