giovedì, luglio 20, 2006

Israele

Nei giorni scorsi, presso gli uffici dell’Ambasciata israeliana, la Presidenza Nazionale della FUCI ha incontrato l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, dott. Oded Ben-Hur.

L’incontro è nato dal desiderio di avviare un percorso di educazione tra le giovani generazioni, innescando un processo di conoscenza reciproca tra la comunità ebraica e la comunità cattolica italiana.

Come dichiarato in un comunicato stampa pubblicato all’indomani dell’incontro, tale iniziativa “ha rappresentato una prima occasione di riflessione ed ha gettato le basi di un progetto che si prefigge di instaurare un dialogo e una comunione in grado di andare oltre i luoghi comuni, concentrandosi sull’educazione dei singoli, agendo sulle coscienze, curando la formazione personale verso un radicale cambiamento di vita e di prospettiva, (…) in continuità con il proprio credo e le proprie radici culturali”.

È una scelta, questa, che si colloca nella tradizione fucina, esperienza forte di dialogo ed incontro, di prossimità vissuta tra ricerca e fraternità.


A proposito di Israele, mi pare opportuno riprendere quanto scriveva il mio vescovo nel 2002.

Per amore di Israele non posso tacere
di Bruno Forte

Amo Israele: nella sua storia plurimillenaria, nella sua fede monoteistica, nei testi della Torah - la Legge santa rivelata -, riconosco le radici della mia cultura e della mia fede di cristiano. Considero l'antisemitismo una delle forme più crudeli e sofisticate di barbarie, una violenza che nega anzitutto chi la esercita, perché rinnega i fondamenti stessi della convivenza umana che Israele ha offerto alla storia attraverso il dono - ricevuto e trasmesso - dei dieci comandamenti, le Dieci Parole osservando le quali l'uomo è e si vuole veramente umano, chiamato a un destino superiore al mero gioco dei fattori fisici e biologici.
Da uomo di pensiero e da credente non posso che rallegrarmi della netta condanna dell'antisemitismo venuta in questi decenni dalla Chiesa, ed in particolare della storica richiesta di perdono che Giovanni Paolo II ha voluto per tutte le colpe che i cristiani possono aver commesso nel tempo contro gli ebrei.
È proprio questo profondo amore a Israele e la convinzione che ho riguardo al suo diritto ad esistere come nazione libera fra le nazioni del mondo nella terra dei Padri, che mi spinge a sottolineare una distinzione che in questi giorni mi sembra sia stata oscurata da parte di molti. È la distinzione fra Israele, come radice santa di fede ed ethos costitutivi del Cristianesimo e dell'Occidente, e la politica del governo democraticamente eletto nello Stato ebraico. Questa politica si esprime oggi in una linea precisa, che ha determinato una svolta tragica nel cammino da anni avviato del processo di pace in Terra Santa: è la linea della guerra senza risparmio di colpi, la linea di Ariel Sharon. Per amore a Israele e al patrimonio di fede e civiltà che dal popolo ebraico viene a tutti noi, ritengo che sia dovere di tutti rigettare con la più ferma convinzione la spirale di odio e di violenza che questa linea ha prodotto sin dal giorno in cui _ non ancora al potere _ l´attuale Premier inscenò la sua provocazione sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme. Da allora l'«escalation» della violenza è cominciata: se fermissima deve essere la condanna del barbaro terrorismo di alcuni palestinesi e chiaro il richiamo ad Arafat perché ad essa si unisca senza cedimenti, non meno ferma deve essere la condanna nei confronti della violenza esercitata dall'esercito israeliano su un popolo oppresso da decenni, violenza che ha raggiunto in questi giorni i volti più efferati, dall'uccisione di civili innocenti, di donne e di bambini inermi, alla negazione del soccorso medico e umanitario, alla profanazione dei luoghi sacri su cui si è sparato, al serio rischio di compromettere lo «status quo» che vige da secoli fra le religioni in Terra Santa.
Per amore di Israele, della sua dignità, della sua immagine nel mondo mi unisco a ogni coscienza civile che grida: fermate questa guerra! È quanto perfino il grande alleato di Israele, l'America, ha cominciato a fare, forse troppo tardi. Questo grido non ha nulla dell'antisemitismo, con buona pace di chi vorrebbe bloccarlo come presunta prova di come l'Occidente abbia tradito gli Ebrei. Si tratta anzi di un grido d'amore per Israele e per lo Stato ebraico: se non si ferma la violenza del più forte, neanche la violenza terroristica si fermerà. Lo Stato ebraico deve essere all'altezza delle esigenze etiche di cui la fede d'Israele è portatrice: guai a chi colpirà Caino, afferma la Torah dopo l'efferato assassinio del giusto Abele da questi commesso; «non uccidere», ordinano le Dieci Parole! Israele deve questa testimonianza al mondo: perciò non può non pretendere da chi lo rappresenta sulla scena del potere politico di attenersi ai dettati fondamentali della Legge del Dio unico, cui oggi si unisce il grido unanime di tutte le potenze della terra. E un primo esempio significativo di questa svolta deve essere il ritiro incondizionato e immediato da Betlemme, perché la Basilica della Natività torni ad essere ciò che da sempre è stata: un luogo di pace e di perdono, di vita e non di morte, di speranza e non di violenza cieca e senza futuro. In nome del Dio d'Israele, in nome del Padre di tutti, dobbiamo tutti fare nostro il grido dei Patriarchi cristiani di Gerusalemme: fermate le armi! Si fermi il più forte, perché anche gli altri, i terroristi accecati dalla sete di vendetta, si ritrovino spuntata l'arma più terribile di cui dispongono, quella dell'odio fatto germinare nel cuore degli innocenti, dei poveri, dei senza speranza. Per amore d'Israele non tacerò, chiedendo pace e giustizia per i Palestinesi, fratelli nostri nell'unica discendenza dei figli di Abramo.

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