IN MEMORIAM
RICORDO DI FABRIZIO FABBRINI
E’ mancato, il 23 gennaio scorso, a
Firenze, il professor Fabrizio Fabbrini, storico e giurista, già
assistente del professor La Pira, docente di diritto romano e di storia
romana: uno dei primi obiettori di coscienza cattolici, che a
testimoniare la sua buona fede obiettò solo pochi giorni prima della
fine del servizio militare. Fra i fondatori del Movimento Internazionale
della Riconciliazione, ne fu il presidente negli anni ’70, quando venne
firmata la convenzione col Ministero della Difesa per avviare
l’esperienza del servizio civile nelle sedi del movimento.
Sempre fedele alla ricerca della verità,
anche controcorrente, Fabbrini ha aperto nuove strade in vari campi: ha
pubblicato molti libri, tra cui particolarmente importanti quelli su
Augusto e l’impero romano; l’ultimo di essi, uscito quest’anno per i
tipi della Libreria Editrice Fiorentina, è intitolato Il re alla sbarra. Riguarda la morte di Luigi XVI ed è corredato di una bibliografia immensa.
Con Fabbrini, prematuramente scomparso
nel pieno della sua attività intellettuale e professionale, il mondo
cattolico, la Chiesa e la cultura italiana perdono un grande interprete
che avrebbe avuto ancora molto da dire e da dare.
Nel maggio scorso era caduto per strada
ad Arezzo, dove abitava, procurandosi una lesione cervicale che lo rese
tetraplegico. Ha vissuto sette mesi in preghiera, senza poter muovere
altro che un po’ la testa, pur rimanendo pieno di speranza cristiana
attinta alla sua fede incrollabile.
Pubblico qui di seguito una memoria a lui dedicata nel numero di “Azione Nonviolenta” del 24 gennaio 2019.
Lo ricordiamo ripubblicando una sua
intervista nella quale ripercorre la sua scelta giovanile come obiettore
di coscienza al servizio militare. L’obiezione di coscienza al servizio
militare gli causò la condanna a Forte Boccea. Peraltro,
quell’obiezione di coscienza (che diede poi luogo al suo riconoscimento
nella legislazione italiana) fu affermata da Fabbrini a poche ore dal
termine del suo servizio militare (compiuto fino in fondo) con la
dichiarazione di essere stato fedele alle istituzioni della Repubblica
Italiana e che l’obiezione di coscienza al servizio militare era
motivata anche dall’essere obbediente al dettato dei Padri della Chiesa.
L’incontro con Giorgio La Pira fu
per lui determinante perché la nonviolenza fosse incanalata nel pensiero
lapiriano di cui è stato il massimo conoscitore e diffusore all’interno
del progetto cristiano della pace universale dei popoli.
Claudio Turini
La storia di Fabbrini, che a 10 giorni dal congedo rifiutò di rivestire la divisa
Era il 6 dicembre 1965, il giorno prima
della fine del Concilio Vaticano II. A Fabrizio Fabbrinimancavano solo
dieci giorni al congedo. Era aviere in una caserma di Roma. I suoi
ufficiali lo tenevano d’occhio. Sapevano che voleva obiettare e gli
avevano già fatto capire che se ci avesse provato lo avrebbero spedito a
casa con un congedo anticipato. L’importante era non creare precedenti.
Il suo colonnello glielo aveva detto chiaramente. «Avevano una paura
terribile che qualcuno del mondo cattolico facesse obiezione, perché con
il Concilio in corso c’era una cassa di risonanza enorme. E il Concilio
si era espresso favorevolmente sull’obiezione di coscienza». Fabbrini
ci racconta così quella mattina di dicembre. «Pensai di uscire dalla
caserma, portandomi dietro la divisa in un sacco, come se andassi a casa
e in presenza di alcuni amici cattolici che mi facevano da testimoni,
sono andato alla Tenenza dei Carabinieri e ho consegnato la divisa
militare e un manifestino dove esprimevo le mie motivazioni. Mi arresti,
ho detto all’ufficiale. No, la rimando in caserma. No: mi deve
arrestare perché sono in flagranza di reato, replicai io, che da
giurista conoscevo la legge. Allora l’ufficiale dovette telefonare al
mio colonnello il quale venne di corsa, tutto disperato: Ma cosa fai
figliolo? Perché mi metti di mezzo?, mi chiese. Si rientrò in caserma e
il colonnello mi consegnò all’ufficiale di picchetto che mi diede il
triplice ordine di vestire la divisa, dopodiché mi reclusero. Il giorno
dopo fui trasferito nel carcere militare di Forte Boccea».
Ne seguì nel mese di febbraio un
processo clamoroso «che anziché durare 15 minuti come accadeva in genere
in questi casi, durò 10 giorni. Tanta era la gente – continua Fabbrini –
che dovettero aprire la sala in cui era stato processato il generale
Reider e che non veniva aperta da allora. Ricordo che era il martedì di
Carnevale. Il dibattimento finì alle 10 di mattina e si ritirarono in
camera di consiglio. Ricomparvero alle 11,30 di sera». Fu condannato ad
un anno e 8 mesi di reclusione. Ma il 6 giugno del 1966, a sei mesi
dall’arresto, fu rimesso in libertà. Per il ventennale della Repubblica
il Parlamento votò amnistia e indulto. Fabbrini rifiutò l’amnistia e
ancora oggi si vanta di avere quella condanna sulla fedina penale. Ma
non poté dire di «no» all’indulto che serviva a svuotare le carceri.
«Quattro giorni dopo la condanna –
racconta ancora Fabbrini – mi arrivò il telegramma che mi diceva che non
ero più assistente ordinario all’Università di Roma. Allora La Pira mi
spedì un telegramma dicendo: Se da Roma la cacciano, a Firenze c’è posto
per lei. A giugno venni a Firenze, per ringraziare La Pira. In realtà
il posto non c’era e dovetti fare il concorso per insegnare storia e
filosofia alle superiori. Poi nel 1969 si liberò un posto di assistente
ordinario. Vinsi quel concorso e divenni assistente ordinario di Giorgio
La Pira».
Fabbrini era nato a Forlì il 28 luglio
del 1938. Cresciuto a Udine, si era poi trasferito a Roma, seguendo il
padre, funzionario della Banca d’Italia. Nel 1964, quando a 26 anni
ricevette la cartolina precetto, era già un pacifista cattolico,
fondatore in Italia del Mir, il Movimento internazionale per la
riconciliazione. L’anno prima aveva partecipato al grande raduno
oceanico a Roma, con Lanza Del Vasto: «Vennero dal tutto il mondo.
Invocavamo una presa di posizione del Concilio sull’obiezione di
coscienza che in effetti poi ci fu».
Al Car a Cosenza aveva subito provato ad
obiettare, ma la cosa era fallita, perché i vertici militari avevano
messo a tacere la cosa. Gli era però costato uno scontro con il
cappellano militare, che lo aveva «scomunicato», proibendogli di
accostarsi alla Comunione. Allora Fabbrini chiese di parlare con il
vescovo, che però era a Roma per il Concilio. «Mi ricevette un dotto
vicario – racconta – il quale mi disse: Guardi io sono con lei e capisco
la sua posizione, però la norma morale della Chiesa è questa: chi
disobbedisce allo Stato disobbedisce a Dio». Su questo tema scrisse
anche all’allora arcivescovo di Firenze, il card. Ermenegildo Florit,
che si era pronunciato pubblicamente sull’obbligo per un cattolico di
obbedire all’autorità dello Stato. «Gli scrissi: Scusi, possiamo anche
ammettere che sia così. Però esiste una differenza tra uno Stato normale
e uno ateo? Anche in un paese dittatoriale e ateo come l’Urss, un
cattolico deve sempre obbedire? Mi rispose: Sì anche in quel caso, a
meno che non sia la Chiesa stessa a comandare di disobbedire. Era questo
il vero problema. Era una cosa seria da un punto di visto teologico.
Che poi risentiva di una visione luterana dell’autorità dello Stato».
Sempre da militare, Fabbrini insiste sul
tema dell’obiezione. Scrive una lettera aperta a Paolo VI e la invia a
sette quotidiani. Fu pubblicata in prima pagina, anche dall’«Unità». E a
Fabbrini costò 15 giorni di cella di rigore.
Il suo «caso», come quello pochi anni
prima di Giuseppe Gozzini, fece clamore. Gli attirò consensi ma anche
contestazioni. «Quando passeggiavo per le vie di Roma – ricorda – mi
insultavano, mi sputavano, mi tiravano le uova marce. Ovunque mi recassi
a parlare – e capitava spesso – c’erano gruppetti che venivano a
contestarmi». Nel giugno del 1966, appena uscito di prigione, dette alle
stampe un libro che gli era stato commissionato da Danilo Zolo, una
sorta di documentario giornalistico sull’obiezione di coscienza: Tu non ucciderai: i cattolici e l’obiezione di coscienza in Italia (Cultura
editore). «Venne presentato a Roma alla fine di giugno ’66 da La Pira e
da altri parlamentari. Allora era il momento di maggiore tensione sul
problema. C’era il Vietnam… E nel mio libro il primo caso di cui mi
occupavo era quello di La Pira e della proiezione che fece a Firenze nel
novembre del 1961 del film di Autan-Lara Tu ne tueras pas».
«Tutta la mia azione – ci tiene a
ribadire Fabbrini – era diretta a portare su queste posizioni la Chiesa.
Non l’ho fatto per una mia particolare avversione ai fatti di sangue,
ma perché da cattolico avevo in mente le parole di Pietro: “È meglio
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. E poi c’era don Sturzo – lo
riportavo nel mio libro – che aveva detto che oggi il cattolico deve
disubbidire e disertare». E qualcosa si mosse anche nella Chiesa
«ufficiale». «Alla fine del 1967 ci fu una marcia con 300 sacerdoti,
guidata dal vescovo di Ivrea Bettazzi da Verona a Peschiera del Garda,
dove c’era il carcere militare, per chiedere la liberazione di tutti gli
obiettori di coscienza. Che progressi aveva fatto questa nostra idea!».
Che la sua testimonianza avesse smosso le coscienze e raccolto insospettate simpatie lo dimostrano due fatti inediti che Fabbrini ci racconta.
Che la sua testimonianza avesse smosso le coscienze e raccolto insospettate simpatie lo dimostrano due fatti inediti che Fabbrini ci racconta.
«In carcere, il cappellano mi disse:
Senti io ti do la comunione. Io gli risposi: Non posso. E lui di
rimando: Non farmi dire…. Insomma, mi fece capire che aveva il permesso
dal Papa…».
L’altro episodio risale al febbraio
1965, alla vigilia della condanna. «La sera prima i miei genitori
sentirono suonare e videro in strada una di quelle grandi auto del
Vaticano. Scende uno di quei laici che lavorano presso la Santa Sede e
consegna quattro pacchetti: una lettera di vicinanza del Papa, una
medaglia d’oro per mio padre, una per mio fratello e un rosario per mia
mamma da parte di Paolo VI. Io questa cosa non la rivelai. Se l’avessi
detta nel processo sarebbe stato come un coprirmi di forza. Poi quando
uscii, nell’estate, volevo ringraziare il Papa e seppi che era stato
mons. Capovilla, già segretario di Giovanni XXIII e ancora in Vaticano,
prima di diventare vescovo di Chieti. Mi ricevette e mi disse: Ho
pregato io il Santo Padre di fare questo gesto, perché responsabili ne
siamo noi…».
A Fabbrini restava però un rammarico.
Che questa battaglia fosse stata poi monopolizzata dai radicali e avesse
preso percorsi diversi. E si sentiva un po’ in colpa. «Nel ’68 – ci
raccontò – l’amico Aldo Capitini mi scrisse pregandomi di entrare
nell’arena politica: Fatti eleggere nella Dc, così avremo un deputato
non violento. In effetti la Dc di Milano, soprattutto il movimento
giovanile, mi offrì una candidatura sicura (che poi andò a Granelli). E
io cretino, la rifiutai. Perché il mio accusatore che era il generale
Stellacci, un grandissimo oratore, aveva detto: Noi rivedremo Fabbrini
tra qualche mese alle elezioni…. Sbagliai. Mi dispiace di aver fatto
allora questo atto di superbia, perché avrei potuto fare da parlamentare
qualcosa cosa che magari altri non hanno fatto».
(Tratto da un’intervista su “Toscana Oggi” del 5 dicembre 2012).
Personalmente ammiravo la coerenza
della testimonianza di Fabbrini, per quanto non fossi d’accordo con lui.
Negli anni successivi ci capitò spesso di parlare e di collaborare: e
le nostre rispettive visioni del mondo, entrambe impiantate sulla fede
cattolica e sulla fedeltà alla Chiesa, si andarono avvicinando fino a
quasi coincidere. Ne fa fede il suo ultimo libro. Le sofferenze degli
ultimi mesi su questa terra lo hanno condotto, forse, a un livello
spirituale sul quale chi può testimoniare di esso dovrà meditare ed
attrarre l’attenzione della gerarchia ecclesiale. Fabbrini ha dato prova
di esercizio in grado eroico della fede cristiana: il che coincide
appunto con la corretta definizione di santità.
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