lunedì, agosto 18, 2025

Newman, il Dottore della Chiesa che si è “arreso” alla verità

 Diventerà Doctor Ecclesiae il grande santo che, da anglicano, si convertì al cattolicesimo. Intervista al professore Angelo Bottone: «Il suo pensiero è straordinariamente attuale»

Di Valerio Pece

18 Agosto 2025


Manca ancora la data ufficiale ma la notizia c’è: il Dicastero delle cause dei Santi proclamerà san John Henry Newman trentottesimo Dottore della Chiesa. Prima nelle vesti di presbitero anglicano, poi in quelle di cardinale cattolico, i suoi coraggiosi confronti pubblici con i più influenti filosofi e teologi dell’epoca vittoriana hanno fatto di Newman una delle figure più affascinanti del cristianesimo moderno. Dopo il suo passaggio alla Chiesa di Roma, tormentato quanto lucido e coerente, difendendo la coscienza con il solo ausilio della «luce gentile» della verità, l’oratoriano londinese ha saputo infatti esaltare il rapporto tra fede e ragione come pochissimi altri. Angelo Bottone, docente di Filosofia presso lo University College Dublin e la Dublin Business School, traduttore di Newman nonché autore di originali saggi sul nuovo Doctor Ecclesiae, spiega a Tempi la raffinata visione del mondo e della Chiesa di colui che il monsignore cattolico George Talbot additava come «l’uomo più pericoloso d’Inghilterra».

Professore, che significato ha il titolo di Dottore della Chiesa attribuito a John Henry Newman da papa Leone XIV?

Si tratta di un riconoscimento che la Chiesa riserva a figure eccezionali, il cui insegnamento si distingue per universalità e profondità teologica. Prima dei meriti dottrinali di Newman, se mi è concesso, vorrei concentrare l’attenzione su un aspetto meno centrale sul piano strettamente teologico, eppure ricco di implicazioni pastorali: quello linguistico.

Prego.

È significativo che Newman sia il primo Dottore della Chiesa ad aver scritto in lingua inglese, la stessa lingua madre di papa Leone XIV. Questo elemento ha un valore non secondario: la figura di Newman parla in modo diretto a quelle regioni del mondo in cui l’inglese è lingua ufficiale o dominante, compresi molti Paesi africani e asiatici anglofoni, dove oggi il cattolicesimo è in espansione. A questi si aggiungono naturalmente il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Irlanda, e altri Paesi di matrice anglofona. Il pensiero di Newman, soprattutto sulla coscienza, sul dinamismo dello sviluppo dottrinale, e sul rapporto tra fede e ragione, offre strumenti preziosi per vivere la fede cristiana in ambienti religiosamente pluralisti o culturalmente complessi, nei quali il cattolicesimo non ha una posizione storicamente dominante. Newman stesso visse e pensò da cristiano in minoranza: fu un apologeta moderno, capace di difendere e proporre con rigore e finezza intellettuale la fede cattolica, in un contesto spesso ostile o indifferente, come quello dell’Inghilterra vittoriana. Proprio per questo, la sua voce risulta oggi tanto più attuale. In questo senso, la sua proclamazione a Dottore della Chiesa assume una portata autenticamente universale.

Anche alla luce di quella «felicità ininterrotta» che Newman scriveva di aver trovato nel cattolicesimo, c’è chi sostiene che la sua proclamazione a Doctor Ecclesiae potrà avere ricadute culturali e spirituali anche sui fedeli della Chiesa anglicana. Qual è il suo pensiero in proposito?

La proclamazione di Newman a Dottore della Chiesa è certamente un evento rilevante non solo per i cattolici, ma anche per il mondo anglicano. Newman è una figura che, pur approdando alla piena comunione con Roma, ha lasciato un’impronta profonda nella tradizione intellettuale e spirituale anglicana. La sua statura morale e teologica è riconosciuta anche da molti al di fuori della Chiesa cattolica. Detto questo, non mi aspetto ricadute immediate o clamorose in termini ecclesiali. I rapporti tra la Chiesa cattolica e quella anglicana oggi sono improntati al dialogo e alla stima reciproca, e Newman non è mai stato minimamente percepito come figura divisiva in questo contesto. Anzi, è sempre più letto e apprezzato anche in ambito anglicano per la sua integrità, la sua profondità e il suo amore per la verità. Quella «felicità ininterrotta» che egli dichiarava di aver trovato nel cattolicesimo ha senz’altro un valore testimoniale forte, ma si tratta di una felicità radicata nella fedeltà alla propria coscienza e nella certezza di aver risposto a una chiamata personale.

Al di là del non trascurabile fatto che il “Papa dei protestanti” è stato convertito da un passionista viterbese trasferitosi in Inghilterra, tutti gli studiosi di Newman sottolineano l’enorme debito di questi verso la cultura italiana. A cosa si deve un innamoramento che ha spinto l’oratoriano a cercare di bussare finanche alla porta di Manzoni?

Newman si era formato sui classici greci e latini e questo lo rendeva naturalmente attratto dalla cultura italiana. Da giovane, durante un tour del Mediterraneo, visitò l’Italia, e proprio qui, in Sicilia, si ammalò gravemente di tifo. Fu un momento drammatico, da cui uscì miracolosamente salvo: proprio in quei giorni compose una delle sue poesie più note, Lead, Kindly Light (“Guidami, luce gentile”), che testimonia la sua profonda fiducia nella guida provvidenziale di Dio. Dopo la conversione al cattolicesimo, fu mandato a Roma a studiare teologia. Qui approfondì la conoscenza di san Filippo Neri, figura chiave per la sua spiritualità, tanto da decidere di entrare nella Congregazione dell’Oratorio e poi “esportarla” in Inghilterra, su indicazione di Pio IX. I suoi legami con l’Italia, insomma, furono profondi e continui: sia spirituali che culturali. Oltre a Manzoni, Newman si interessò anche a Rosmini. Già in vita fu letto, tradotto e apprezzato nel nostro Paese. Un dialogo, quindi, mai interrotto.

È un fatto che per l’Inghilterra del tempo la conversione di Newman fu uno shock. Cosa può insegnare al mondo contemporaneo il suo passaggio da una visione del Papa come “anticristo”, come pensava la Chiesa anglicana del tempo, all’essere prima canonizzato e poi addirittura proclamato Dottore della stessa Chiesa cattolica?

La conversione di Newman fu senza dubbio uno shock. Era un intellettuale di primo piano, stimato per la sua profondità teologica, e la sua scelta fu vissuta come una sorta di “tradimento” da parte del mondo anglicano. Ma è proprio qui che risiede la lezione per il nostro tempo: Newman non si è convertito per reazione, per delusione o per spirito polemico. Si è convertito per fedeltà alla verità. Il suo passaggio da una visione fortemente anticattolica del papato alla piena comunione con Roma è il frutto di una lunga e faticosa ricerca interiore, condotta nella preghiera e nello studio. In un’epoca segnata dal sospetto verso ogni forma di autorità, il suo percorso mostra che l’autorità autentica, come quella del Papa, può essere riconosciuta e accolta non come imposizione, ma come garanzia della verità ricevuta e trasmessa nella Chiesa.

Con il Movimento di Oxford, con cui cercò di riportare la Chiesa d’Inghilterra nel solco di una più autentica tradizione cristiana, Newman sviluppò la teoria della “Via media”. La sua tenace ricerca della verità, però, fece sì che l’allora pastore anglicano dovette gradualmente ammetterne l’inconsistenza, perché «la verità non si trova sempre nel mezzo». Nel tempo dei “cattolici adulti” o, come nell’attuale dibattito sull’eutanasia, quelli chiamati “del male minore”, non le pare che la conclusione a cui giunse il santo oratoriano sia ancora poco condivisa anche in casa cattolica?

L’esperienza della Via media è uno degli snodi più significativi della vita intellettuale e spirituale di Newman. Inizialmente, nel contesto del Movimento di Oxford, egli pensava che la Chiesa anglicana potesse mantenere una sorta di equilibrio tra protestantesimo e cattolicesimo romano. Ma con il tempo, particolarmente attraverso lo studio dei Padri della Chiesa, la riflessione teologica e l’onestà interiore, si rese conto che la verità non è una questione di compromesso o equilibri. Questa intuizione rimane attualissima. Newman ci ricorda che la coscienza deve obbedire alla verità, non alla convenienza. Certo, la verità va cercata con delicatezza e accompagnata con misericordia, ma non negoziata al ribasso. La sua conversione, d’altronde, è l’esempio di chi ha scelto la verità anche a costo della fama, delle amicizie e della posizione sociale. Una lezione scomoda ma necessaria. Detto ciò, è bene essere cauti nell’accostare dibattiti di alta teologia a problemi di natura politica che sono per loro natura segnati da compromessi, mediazioni e valutazioni pratiche. Il rigore dottrinale non sempre si traduce in una posizione politica univoca.

«Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro […] Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso». Come far convivere l’attacco newmaniano al liberalismo religioso, così chiaramente esposto in questa sua citazione, con l’indispensabile dialogo interreligioso?

Newman parlava realmente di uno “sviluppo della dottrina”, ma in un senso ben preciso: non come mutamento, ma come maturazione organica di una verità già presente nella Rivelazione. In questo senso, è fuorviante utilizzare Newman per giustificare cambiamenti dottrinali arbitrari o rotture con la tradizione. Chi lo ha letto con serietà, sa che Newman era profondamente ortodosso, e tutt’altro che relativista. Quanto alla sua critica al liberalismo religioso, va compresa nel contesto del suo tempo ma resta sorprendentemente attuale. Newman temeva una religione ridotta a sentimento individuale, senza riferimento a una verità oggettiva. E su questo punto troviamo un’affinità forte con ciò che Benedetto XVI ha chiamato “dittatura del relativismo” e con l’“indifferentismo” denunciato da papa Francesco. Detto questo, dialogare non significa relativizzare. Newman non era contrario al dialogo con altri credenti, ma era convinto che il dialogo autentico parte dalla propria identità, non dal suo annacquamento. È solo chi crede davvero in ciò che professa che può incontrare l’altro con rispetto, ma anche con chiarezza. In altre parole, Newman ci aiuta a vedere che il pluralismo non si fonda sullo svuotamento della verità, ma su una convivenza tra persone che cercano secondo coscienza.

Il cardinal Newman, su incarico della Santa Sede, fu promotore e primo rettore dell’Università Cattolica di Dublino, con idee che segneranno buona parte dello sviluppo delle Università Cattoliche nei decenni successivi. Per citare il titolo dell’opera di Newman da lei tradotta, su cosa si fonda L’idea di Università del Dottore della Chiesa oratoriano?

Si fonda su alcuni principi chiave, ancora oggi straordinariamente attuali. Primo fra tutti, il rifiuto della separazione tra fede e ragione. Per Newman, l’università cattolica deve essere un luogo in cui tutte le discipline possono essere insegnate in dialogo con la visione cristiana del mondo, perché tutta la conoscenza è unitaria e ha origine in Dio. Non si tratta di imporre la teologia ovunque ma di evitare che il sapere diventi frammentato o ideologico. In secondo luogo, Newman insiste sulla formazione integrale della persona. L’università non è solo un luogo di trasmissione di competenze, ma di maturazione della coscienza, dello spirito critico, della responsabilità morale. Infine, c’è in Newman una grande attenzione alla libertà dell’intelligenza. Non una libertà anarchica ma una libertà ordinata alla verità, dove lo studente viene accompagnato a cercare, con rigore e apertura, ciò che ha valore permanente. In questo senso, Newman non ha pensato un’università clericale o “confessionale” nel senso più ristretto del termine, ma un’istituzione cattolica nel senso pieno e universale del termine: capace di parlare a tutti e di formare persone capaci di pensare profondamente e vivere rettamente.

Se è vero che negli spesso infuocati dibattiti pubblici gli “avversari” di Newman erano pensatori quali Locke, Hume, Gibbon, Bentham, John Stuart Mill, non dovremmo forse ammettere che dopo i casi di Charlie Gard, Alfie Evans, Indy Gregory, uccisi dalle leggi e dalla sanità inglesi, la mentalità “utilitarista”, coi suoi corollari eugenetici, nell’Inghilterra di Newman abbia finito per stravincere?

Newman ha affrontato con straordinaria lucidità le radici filosofiche della modernità, opponendosi apertamente al pensiero di autori come Locke, Hume, Bentham, Mill, i grandi rappresentanti dell’empirismo e dell’utilitarismo britannico. In particolare, contestava l’idea che la bontà di un’azione potesse essere misurata solo dalle sue conseguenze, come vuole l’etica utilitarista. Per Newman, il bene è legato alla verità, non all’efficienza o al risultato. A questa visione ha contrapposto una concezione morale centrata sulla coscienza retta e sul dovere oggettivo, dove la dignità della persona non può essere ridotta a un calcolo di costi e benefici. «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri», scrive nella Lettera al Duca di Norfolk (1875). La coscienza non è un’autonomia soggettiva arbitraria, ma è un dovere interiore verso la verità: ascoltarla e seguirla significa rispondere a un appello oggettivo, non semplicemente rivendicare libertà individuale. È evidente che il modo di sentire e ragionare oggi dominante, anche in ambito bioetico, è erede proprio di quei principi che Newman ha criticato. Penso, oltre all’utilitarismo, al principio di autonomia e autodeterminazione, che oggi è spesso considerato come assoluto, svincolato da ogni riferimento al bene comune, alla verità, o alla dipendenza relazionale. I casi drammatici da lei citati non sono incidenti ma frutti coerenti di una visione antropologica che ha smarrito il senso della persona come fine, non come mezzo. In questo senso, il pensiero di Newman è di straordinaria attualità: ci aiuta a leggere criticamente la cultura contemporanea, a riconoscerne le radici filosofiche, e a riscoprire il valore di una coscienza formata, capace di dire “no” anche quando il mondo dice “sì”.

«Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I santi non sono letterati, essi non amano i classici, non scrivono romanzi», così parlava di sé Newman, che continuava così: «Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe». Se è vero che anche James Joyce di lui scrisse che era «il più grande prosatore inglese», è possibile azzardare l’idea che Newman abbia tracciato una quantomeno inconsueta via alla santità?

Newman aveva una concezione profonda e umile della santità. Non si pensava “portato” alla vita dei santi canonici, quelli dei grandi gesti, dei miracoli, della rinuncia spettacolare, ma a una santità nascosta, quotidiana, intellettuale, fatta di fedeltà alla coscienza e di amore alla verità. In questo senso, sì, possiamo dire che ha tracciato una via originale alla santità: quella del pensatore credente, dell’uomo che riflette, che dubita, che cerca ma che infine si arrende alla verità con lucidità e coraggio. La sua vita mostra che anche l’intelligenza può diventare luogo di santificazione, che la letteratura può esprimere la ricerca del divino, e che lo studio, se vissuto come servizio, diventa forma di carità. È significativo che uno scrittore come James Joyce, che pure si era allontanato dalla Chiesa, abbia riconosciuto in Newman «il più grande prosatore inglese». Significa che la sua scrittura, espressa non solo in trattati teologici ma anche in romanzi e poesie, ha lasciato un segno pure nella cultura laica, non solo in quella ecclesiale. La frase sul lucidare le scarpe ai santi è emblematica: non è falsa modestia ma l’ironia di chi sa che la santità vera non ha bisogno di essere vistosa. Newman ci insegna che si può essere santi anche nelle biblioteche, nei seminari, nei corridoi delle università. Una santità intellettuale, ma non intellettualistica.


Tempi.it

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