Napoli, la violenza sconvolse la sua vita. Le ultime ore su una sedia del pronto soccorso
di DANIELA D´ANTONIO
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NAPOLI - Jenet è morta qualche giorno fa, aveva 32 anni. Se n´è andata dopo aver trascorso 24 ore su una seggiola davanti al pronto soccorso dell´ospedale Ascalesi. E gli ultimi sei anni di vita in strada, attaccata alla bottiglia.
«Vergogna, io mi vergogno, faccio schifo, sporca», rispondeva a chi le offriva aiuto. Poi cominciava a strapparsi gli stracci che aveva indosso: «Guarda, guarda...».
Jenet in realtà si chiamava Hassan Kalif Hodan, era somala, e la sua vita era già finita una volta, ai primi di giugno del ´96: una gita a Pompei, lontana da Roma dove faceva la colf, la conoscenza con un paio di giovani dall´aspetto rassicurante e si era ritrovata in un casolare abbandonato dalle parti di Sant´Antonio Abate, zona vesuviana, violentata a turno da ventisette ragazzi per due giorni.
«E che non si dica che sono cattivi», furono subito assolti dal paese, «sono bravi ragazzi, sono i nostri figli. La colpa è stata sua, li ha provocati».
Nera, giovane, sola e dunque prostituta, sentenziò la piazza. Da quel giorno Hassan aveva cominciato a scappare dal ricordo di quelle 48 ore di violenza e dagli assurdi pregiudizi di quella gente. Era diventata matta per il dolore, aveva deciso di chiamarsi Jenet. Da quel giorno viveva per strada, nel centro storico di Napoli, e solo quando era veramente ubriaca sorrideva.
Poi si tirava giù, sugli occhi, il cappello di lana che portava sempre piantato in testa.
Perché non torni a Roma da tua sorella, Jenet?«Vergogna, io sporca, guarda», e ricominciava a mostrare un corpo smagrito e sporco.
Mercoledì 4 dicembre Jenet, alle 11 di sera, si è presentata al pronto soccorso dell´Ascalesi con una ferita al volto e una alla nuca. Secondo alcuni testimoni e secondo la sorella, che ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica, non sarebbe stata soccorsa adeguatamente. Di sicuro, e lo ammette anche la direzione sanitaria dell´ospedale, ricevute le prime cure è rimasta su quella sedia, davanti al pronto soccorso, al freddo, per tutta la notte («era ubriaca, ma è stata seguita», la giustificazione dei medici). Fino al pomeriggio del giorno successivo quando un paio di volontari del Forum per il diritto alla salute - che in quell´ospedale gestiscono un ambulatorio per gli immigrati - l´hanno riaccompagnata in medicheria insistendo affinché fosse visitata.
Altra lunga attesa sulla solita sedia, al freddo, in stato confusionale. Poi la donna ha cominciato a sputare sangue ed è stata portata in chirurgia d´urgenza dove è morta. Un´altra volta, sei anni dopo la violenza, sei anni dopo lo stupro di gruppo per il quale nessuno ha pagato con la galera: solo pochi giorni di carcere per due tra i ventisette giovani. Tutti solo denunciati gli altri.
Nessuno tranne lei, Hassan, che per il dolore era diventata Jenet e che quando si spogliava mostrava ferite che non si vedevano più: «Guarda, guarda». Non si vedevano i segni che le avevano lasciato quei «bravi ragazzi» di Sant´Antonio Abate. Ma lei non riusciva a rassegnarsi.
Continuava a pensare di essere lei, quella che doveva vergognarsi.
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