“Dodici anni d’illegalità e di violenza, fondati su un’ideologia allucinante e retti da uomini eticamente abietti e spiritualmente malati”: a parlare così del nazismo è Romano Guardini (Etica, 99), il sacerdote italo-tedesco, filosofo e teologo, che con le sue opere era stato ispiratore delle scelte dei giovani della Rosa Bianca, condannati a morte per la loro opposizione coraggiosa al regime. Non a caso Guardini consacrerà ai temi dell’etica i corsi degli ultimi anni del suo insegnamento universitario a Monaco, quelli della ricostruzione post-bellica (1950-1962), non solo obbedendo alla sua forte sensibilità alla questione del bene, ma anche per rispondere a ciò che gli sembrava un bisogno epocale, tanto più grande, quanto più tragici erano stati gli effetti della violenza prodotta dall’ideologia e dai suoi presupposti morali. Si trattava di assolvere a un debito etico nei confronti dell’intera umanità: la rimozione della tragedia vissuta non poteva bastare a superarne le cause ultime. Ciò che occorreva era riflettere “in modo giusto”, andare alla radice dei processi avvenuti, per motivare con una profonda svolta morale la costruzione del nuovo futuro cui l’Europa stava mirando nel fervore seguito alla tragedia della guerra. La crisi - Guardini ne era ben consapevole - non era solo della cultura tedesca, era anzi in generale europea, ma aveva trovato nel “caso tedesco” la “punta dell’iceberg” del suo dramma: “Un’azione violenta, senza uguali nella storia europea, ha sottomesso l’uomo tedesco alla propria volontà - ma ciò non sarebbe stato possibile, se egli non fosse stato condiscendente nei suoi confronti. Chi davvero può farlo, ha naturalmente il diritto di affermare di fronte a sé e di fronte agli altri di non aver avuto nulla a che fare con questa storia di violenza. Dovrà però provare a se stesso di essere andato abbastanza a fondo nell’esame su se stesso. Il punto decisivo di questo esame non sta infatti nella domanda: ne sono stato espressamente complice, oppure ho ricavato un utile dall’azione di chi operava? - bensì: ho risposto al dovere dell’esistenza personale, così come avrei dovuto fare?” (ib., 841).
Guardini era legittimato a porre queste domande non solo dalla sua straordinaria preparazione culturale, ma anche e in special modo dalla dignità della resistenza morale che aveva opposto al nazismo e che gli era costata la cattedra: esempio purtroppo non comune fra gli accademici tedeschi (e non solo!). Non senza ragione uno dei pochissimi movimenti di opposizione al regime, la “Rosa Bianca” appunto, promosso da uno sparuto gruppo di studenti universitari di Monaco, aveva potuto ispirarsi alle sue idee: e, per l’autorità morale che gli era riconosciuta da tutti, fu chiamato lui a commemorarli a guerra finita dapprima a Tübingen e poi nella stessa Monaco davanti all’intero corpo accademico. Quei giovani - di cui si torna finalmente a parlare proprio a partire dalla Germania grazie al recentissimo film di un giovane regista tedesco, Marc Rothemund, La Rosa Bianca – Sophie Scholl - avevano pagato con la vita l’obbedienza alla verità: proprio perciò essi rappresentano per Guardini la misura di ciò che la barbarie del totalitarismo aveva voluto negare, e cioè la responsabilità etica personale davanti alla trascendenza del bene e la libertà della coscienza. Questa è stata la vera posta in gioco su cui si è giocato il destino del Novecento: ecco perché ciò che è avvenuto non può in alcun modo essere considerato un incidente di percorso nel processo di sviluppo dell’ideologia moderna. Si tratta invece della manifestazione evidente del potenziale devastante di male e di violenza che gli assoluti ideologici sono in grado di produrre, mettendo l’uomo al posto di Dio. Scrive Guardini: “In larga misura l’uomo non capisce più per quale ragione dovrebbe rinunciare, per amore del bene, a cose che gli sembrano utili o farne altre che esigono sacrificio; ne consegue il nichilismo etico: grazie ad esso ... la motivazione etica vera e propria, cioè quella della suprema altezza di senso del bene, svanisce e viene sostituita da quella derivante dalla motivazione legata all’incremento della vita, all’utilità e infine al godimento” (467).
Alla base della crisi della modernità - esplosa in piena evidenza nella parabola tragica dell’ideologia in tutte le sue espressioni, di destra come di sinistra - sta insomma la perdita del senso della verità e il conseguente oblio del valore infinito della persona e della sua libertà. Per uscire dalla crisi non c’è per Guardini che una sola via: aprire gli occhi di fronte alla verità, precisamente come hanno fatto Sophie Scholl e i giovani della Rosa Bianca. Bisogna uscire dall’io, guardare coraggiosamente fuori di sé, obbedire alla verità, misurarsi con l’altro prossimo e immediato e con l’Altro trascendente e sovrano. E bisogna farlo – nonostante ogni umanissima paura e incertezza – anche a costo della vita, come quei giovani che in pieno trionfo della belva nazista osarono diffondere fra i loro colleghi, nell’atrio dell’edificio universitario oggi a loro intitolato (dove io stesso ho avuto l’onore di parlare di etica e verità a partire da Cristo!), volantini ciclostilati su cui era scritto senza mezzi termini o giri di parole: “Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler è una menzogna…”. Un esempio che – fatte le debite analogie – deve valere per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Anche per noi, oggi, in un’Italia che tutti vorremmo migliore.
Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
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