venerdì, aprile 18, 2025

La vite

 

Un racconto di Benigno


Quando Tonio morì, Paolo lo sognò. Gli disse che s’era scordato di potare una vite e che lo facesse presto se voleva evitare grossi guai. Gli intimò poi di ascoltare la predica. La sera il parroco commentò dal pulpito un brano del Discorso della Montagna:
«Voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, e chi ucciderà merita di essere sottoposto a giudizio. Io invece dico a voi: chiunque si adira contro il suo fratello, merita di essere giudicato. Se dunque nel fare la tua offerta sull’altare, ti sovvieni che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta all’altare e prima riconciliati col tuo fratello, poi ritorna a fare l’offerta».

Cosa c’entrasse tutto questo con la vite da potare, Paolo non capì. Attribuì il sogno a un’altra stranezza del fratello che, anche da morto, voleva prendersi giuoco di lui: tanto più che per cercare la vite non potata, aveva percorso in lungo e in largo tutta la vigna senza trovarla.

Così non ci pensò più. Aveva ben altro da fare lui che dare ascolto a chi se ne stava ormai in posizione orizzontale, cioè in permanente riposo, beato lui! Pensò invece a rimettere in ordine quel po’ di terra che gli era rimasta, ché negli ultimi anni Tonio s’era dato alla bella vita, e quelle sue gite frequenti in città erano costate alla famiglia forti salassi in liquidi e appezzamenti. Se la famiglia ancora numerosa non era caduta in miseria si doveva proprio a lui, Paolo, che fu irremovibile quando si trattò di vendere al confinante il brolo che dava i più bei frutti della contrada.

Ma compare Pietro se l’era legata al dito. Ogni volta che capitava in fattoria non faceva che rimproverargli la vita che Tonio menava e che era diventata scandalosa: se ne parlava per venti leghe intorno, né valeva a compensarla la ferita di guerra, ché «quella» guerra il popolo non l’aveva voluta.

Paolo era caparbio, di quella caparbietà che talvolta si chiama «un carattere forte». Ne nacque una specie di sordo rancore, che, se non era proprio odio, gli somigliava: ma di confessarlo non se ne parlava, tanto è bendato l’uomo quando si tratta di giudicare se stesso, anche al cospetto di Dio. Avrebbe lavorato magari fino all’ultimo respiro, e con lui i figli e i nepoti, ma non gliel’avrebbe data per vinta a quell’usuraio che aveva preso alla gola il povero Tonio ed ora voleva ricattarne la famiglia, che sapeva sull’orlo della rovina.

Pane e cipolla per tre generazioni, se ci fosse stato bisogno, ma il brolo più ricco di contrada Taverna non l’avrebbe avuto quel cane!

Un mattino di marzo Paolo s’era accasciato sul solco, stracco. La primavera scoppiava dappertutto in tenere gemme su per gli alberi e le siepi inverdite. Pensava che se ci fosse stato Tonio, avrebbe dato sotto a rivoltare la terra con quelle sue braccia nerborute che lo facevano rassomigliare a un torello, ed egli non si sarebbe sfiancato così. Allegro e generoso con tutti, Tonio lo era specialmente con la buona terra alla quale dava con letizia sudore come aveva dato sangue alla guerra, da gran signore.

Ad un tratto s’accorse che dai tralci dell’ultima vite, quasi addosso al muretto di cinta, colava un umore vermiglio che s’accendeva al sole. S’accostò, protese una mano e la ritirò insanguinata. Trasalì, si ricordò del sogno e della predica e si vergognò del rancore che sentiva per compare Pietro.

Capì che l’anima è come la vite: bisogna potarne i rami secchi, fra i quali, primo, è l’odio contro il prossimo.

È per quell’odio che la terra non dà più frutti per sfamare gli uomini tutti.

Tonio, sempre generoso, gli aveva fatto in sogno un dono immenso. Capì pure perché il parroco aveva detto che il cristiano si vendica vincendo il male col bene.

Lo stesso giorno strinse la mano a compare Pietro. E la vite potata non sanguinò più.

 

22 giugno 1947

 

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