Un racconto di Benigno
Quando Tonio morì, Paolo lo sognò. Gli disse che s’era
scordato di potare una vite e che lo facesse presto se voleva evitare grossi
guai. Gli intimò poi di ascoltare la predica. La sera il parroco commentò dal
pulpito un brano del Discorso della Montagna:
«Voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, e chi ucciderà merita
di essere sottoposto a giudizio. Io invece dico a voi: chiunque si adira contro
il suo fratello, merita di essere giudicato. Se dunque nel fare la tua offerta
sull’altare, ti sovvieni che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia
lì la tua offerta all’altare e prima riconciliati col tuo fratello, poi ritorna
a fare l’offerta».
Cosa c’entrasse tutto questo con la vite da potare, Paolo
non capì. Attribuì il sogno a un’altra stranezza del fratello che, anche da
morto, voleva prendersi giuoco di lui: tanto più che per cercare la vite non
potata, aveva percorso in lungo e in largo tutta la vigna senza trovarla.
Così non ci pensò più. Aveva ben altro da fare lui che dare
ascolto a chi se ne stava ormai in posizione orizzontale, cioè in permanente
riposo, beato lui! Pensò invece a rimettere in ordine quel po’ di terra che gli
era rimasta, ché negli ultimi anni Tonio s’era dato alla bella vita, e quelle
sue gite frequenti in città erano costate alla famiglia forti salassi in
liquidi e appezzamenti. Se la famiglia ancora numerosa non era caduta in
miseria si doveva proprio a lui, Paolo, che fu irremovibile quando si trattò di
vendere al confinante il brolo che dava i più bei frutti della contrada.
Ma compare Pietro se l’era legata al dito. Ogni volta che
capitava in fattoria non faceva che rimproverargli la vita che Tonio menava e
che era diventata scandalosa: se ne parlava per venti leghe intorno, né valeva
a compensarla la ferita di guerra, ché «quella» guerra il popolo non l’aveva
voluta.
Paolo era caparbio, di quella caparbietà che talvolta si
chiama «un carattere forte». Ne nacque una specie di sordo rancore, che, se non
era proprio odio, gli somigliava: ma di confessarlo non se ne parlava, tanto è
bendato l’uomo quando si tratta di giudicare se stesso, anche al cospetto di
Dio. Avrebbe lavorato magari fino all’ultimo respiro, e con lui i figli e i
nepoti, ma non gliel’avrebbe data per vinta a quell’usuraio che aveva preso
alla gola il povero Tonio ed ora voleva ricattarne la famiglia, che sapeva
sull’orlo della rovina.
Pane e cipolla per tre generazioni, se ci fosse stato
bisogno, ma il brolo più ricco di contrada Taverna non l’avrebbe avuto quel
cane!
Un mattino di marzo Paolo s’era accasciato sul solco,
stracco. La primavera scoppiava dappertutto in tenere gemme su per gli alberi e
le siepi inverdite. Pensava che se ci fosse stato Tonio, avrebbe dato sotto a
rivoltare la terra con quelle sue braccia nerborute che lo facevano
rassomigliare a un torello, ed egli non si sarebbe sfiancato così. Allegro e
generoso con tutti, Tonio lo era specialmente con la buona terra alla quale
dava con letizia sudore come aveva dato sangue alla guerra, da gran signore.
Ad un tratto s’accorse che dai tralci dell’ultima vite,
quasi addosso al muretto di cinta, colava un umore vermiglio che s’accendeva al
sole. S’accostò, protese una mano e la ritirò insanguinata. Trasalì, si ricordò
del sogno e della predica e si vergognò del rancore che sentiva per compare
Pietro.
Capì che l’anima è come la vite: bisogna potarne i rami
secchi, fra i quali, primo, è l’odio contro il prossimo.
È per quell’odio che la terra non dà più frutti per sfamare
gli uomini tutti.
Tonio, sempre generoso, gli aveva fatto in sogno un dono
immenso. Capì pure perché il parroco aveva detto che il cristiano si vendica
vincendo il male col bene.
Lo stesso giorno strinse la mano a compare Pietro. E la vite
potata non sanguinò più.
22 giugno 1947
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