Eccolo, il giovane Mostro. L’antisardina, il marziano tricolore. Lo vedi che ti si avvicina con qualche timidezza, poi prende coraggio, non ti chiede un selfie ma la firma su un libro. E alla fine confessa il misfatto. Sono un ragazzo di destra. A volte indica una militanza, oppure no, richiama letture o esperienze. Ha la faccia pulita, è vestito come un contemporaneo, somiglia perfino ai suoi coetanei anche se ha un garbo che un po’ lo distingue, ha gli occhi sognanti e magari un lieve sorriso, mai troppo smaccato perché c’è poco da ridere per chi ha scelto di essere antagonista, ribelle contro il suo tempo. Capisci che viene da discussioni studentesche, polemiche coi professori, ha subito qualche discriminazione e qualche minaccia, è trattato come un appestato, ha visto calpestare la memoria storica, le foibe, la patria e i suoi eroi. Vive la sua “diversità”, traendo qualche motivo d’orgoglio dal suo non conformismo che ha imparato a chiamare scorrettezza.
Poi ti capita un giorno di febbraio che Walter Veltroni ricordi a sorpresa in un paginone sul Corriere della sera quel giovane mostro massacrato dai compagni negli anni di piombo. Si chiamava Sergio Ramelli e non aveva altro crimine alle sue spalle che essere di destra, militava a viso aperto per la gioventù nazionale, amava il suo Paese e la voglia di redenzione. Veltroni ne parla con rispetto e umanità, non riconosce valore e dignità alle sue idee, ma lo rispetta nonostante quelle; però è già qualcosa in questi tempi di iene e sciacalli.
E ti capita un altro giorno alla Sapienza, davanti al Capo dello Stato, che la Senatrice a vita Liliana Segre, l’altare vivente della nostra democrazia, portata come una madonna pellegrina nella campana di vetro in ogni luogo, con un gesto bello e materno, nonnesco, di vera umanità, ritrovi in un ragazzo di destra, Valerio Cerracchio, il ciuffo di suo nipote e lo abbracci e lo baci, nonostante sia stato tenuto lontano dal palco, classificato come mostro, razzista e fascista benché sia stato il più votato, in libere elezioni, a rappresentare gli studenti.
Dite quel che volete ma io li trovo due piccoli esempi di civiltà, due gesti incoraggianti in un clima sconfortante, due modi per riconoscere che esistono anche gli altri, i non allineati, quelli che non la pensano come voi comandate, che si sono seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati (citazione brechtiana, per ricambiare cavallerescamente l’atto cortese).
Non so se Veltroni avesse qualche altro scopo nel suo ricordo di Ramelli; ma a onor del vero gesti analoghi li fece già quando era sindaco di Roma. Del resto a Roma ci furono altri Ramelli, non pochi, che furono trucidati per il solo torto di essere ragazzi di destra, sognatori di un’Italia diversa che amava la sua civiltà e la sua tradizione. Non so se la Segre pensasse in quel momento a suo marito che si candidò col Msi di Almirante alla fine degli anni Settanta. Ma quel gesto fa onore a Veltroni come alla Segre, e rintraccia un segno di umanità in un momento bestiale di ottusa insofferenza che ha preso la mano, le parole, la testa. E per fortuna non ancora le mani…
Con tutti i suoi difetti, Veltroni è meglio di questa sinistra becera e ingrillita dei nostri giorni, viene da una storia, capisce le passioni politiche, ha umanità. E Liliana Segre è decisamente meglio di coloro che la innalzano, la usano, si fanno schermo di lei per seminare odio nel nome dell’amore; ha espresso in più occasioni equilibrio rispetto per quelli che altri giudicano mostri, ha persino dialogato con Salvini e con la Meloni, senza ritrosie e senza mascherina antivirus.
I due gesti mi hanno ricordato Cesare Pavese che una volta ne la Casa in collina parlò di un ragazzo fascista ucciso: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini, sono questi che mi hanno svegliato … anche vinto il nemico è qualcuno; dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue… ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. E PierPaolo Pasolini che dedicò la sua ultima poesia, Saluto e augurio, a lui, al ragazzo di destra. Lo chiama Fedro, gli rivolge “un discorso che sembra un testamento” e lo fu davvero per la sua morte sopraggiunta a breve. Gli dice di amare i suoi capelli corti, in polemica coi capelloni, e di condividere il suo amore per il latino e il greco. Lo esorta a difendere le vigne, i casali, la confidenza col sole e la pioggia, e sognare “la Destra divina che è dentro di noi nel sonno”. Lo invita a non essere borghese ma santo e soldato “Santo senza ignoranza e soldato senza violenza” e gli indica una sacra missione: “Difendi, conserva, prega. Prenditi tu questo fardello – gli dice – io non posso; nessuno ne capirebbe lo scandalo”. Parole che si conficcano dentro l’anima di un ragazzo, più di un coltello.
Torno infine a lui, al Ragazzo di Destra, a questa etnia negata e offesa, scambiato per un cretino di tredici anni che disegna svastiche sui muri o ai citofoni. Uno sport antico e demente, ricordo da ragazzo svastiche in tutti i cessi pubblici di scuole e ferrovie, era una variante del pisello, un altro segno osceno per trasgredire, per giunta facili da disegnare. Un segno di idiozia elementare, di puerile ignoranza, non certo di nazismo tornante…
Ma quelle svastiche non sono il lessico quotidiano del Ragazzo di Destra. Semmai sono la sua caricatura o quella del fratello scemo. Il Ragazzo di Destra pensa col cuore ma pensa; anzi rispetto allo standard delle sardine, dei grillini o dei centri sociali, sembra quasi un pensatore. Sta lì, ti vede come uno che potrebbe essere suo padre o suo precursore; tu lo guardi negli occhi e rivedi i tuoi diciott’anni di ragazzo di destra. E a differenza di Pasolini, dividi con lui il suo fardello. Difendi conserva prega.
Marcello Veneziani, La Verità 23 febbraio 2020
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