mercoledì, febbraio 12, 2020

Vittorio Bachelet

- «Non ho dimenticato nulla di quella mattina. Non soltanto la sequenza dei fatti, non ho dimenticato le sensazioni. Conservo addirittura il ricordo dell’odore della polvere da sparo», racconta Rosy Bindi, oggi deputata della Margherita e 25 anni fa assistente di Vittorio Bachelet nella sua cattedra di diritto amministrativo all’Università «La Sapienza» di Roma. «Se non l’avessero ucciso, il 20 febbraio avrebbe compiuto 79 anni. Nel tempo trascorso da allora, avrebbe potuto dare molto al Paese», aggiunge la donna che accompagnava la vittima senza sapere che erano in agguato i macellai delle Brigate rosse. Che cos’altro le è rimasto impresso?
«Tutto, le dico. Potrei cominciare dal deserto che ci trovammo intorno uscendo dall’aula della lezione».
Ossia prima dell’attentato. Perché un deserto?
«I corridoi del pianterreno di Scienze politiche erano stati sgombrati. Al piano superiore Luciano Lama teneva una conferenza contro il terrorismo. Qualcuno sparse la voce che c’era una bomba e noi non fummo avvertiti. Esclusivamente la nostra aula: chi si incaricò di avvisarci non lo fece. Proprio perché la voce era falsa e serviva a ridurre il numero dei testimoni».
Lei e Bachelet andaste al primo piano, diretti verso le stanze dei docenti. Saliste due, tre scalini.
«Io ero alla sua sinistra. Anna Laura Braghetti, con la testa coperta da un cappellino di lana e il volto sorridente, lo chiamò: "Professore"».
Come reagì?
«Vidi la faccia di lui che si era reso immediatamente conto: era una persona sempre sorridente, accogliente, e gli si scolpì in volto la paura. Poi...».
Poi?
«Poi i brigatisti lo allontanarono e gli spararono. Al petto. Alla nuca».
E lei?
«Io chiamai a lungo. Però non arrivò nessuno, fin quando non se ne accorsero dai piani superiori. Uno degli aspetti più terribili è che in quei momenti la paura è l’istinto più forte che ti prende. Perfino la pietà arriva dopo. Prevale il senso di impotenza, la ricerca di aiuto. Che coraggio ci voleva a far fuori un uomo così?».
Bachelet aveva rifiutato la scorta. Perché?
«Glielo avevo chiesto. Pensava ad Aldo Moro, che aveva insegnato nella stessa aula. Gli studenti erano talmente tanti, con Moro, che se dovevamo rivolgerci a lui facevamo prima a parlare con Oreste Leonardi, il capo della scorta poi massacrata. Bachelet mi rispose: "Meglio morire da soli che in cinque"».
Il perdono offerto agli assassini da Giovanni, il figlio di Bachelet, colpì l’Italia. Per lei, cattolica e testimone dell’agguato, quale significato ha?
«Anni dopo, alcuni brigatisti visitati in carcere dai due fratelli di Bachelet, Adolfo e Paolo, gesuiti, dissero: "La nostra vera sconfitta non è stata da parte dello Stato. C’è stata con quella preghiera del figlio a San Bellarmino"».
Non le pare che Anna Laura Braghetti, nel libro «Il Prigioniero», sia stata molto indulgente con se stessa?
«Molto. E non mi è piaciuto il film che ne ha tratto Marco Bellocchio».
Oggi si ridiscute di quel passato, si rievocano morti precedenti come il rogo di Primavalle. Se ne parla nel modo giusto, a suo avviso?
«So che non sono disponibile ai colpi di spugna. Le persone vanno sempre riscattate. Nulla in contrario ai permessi della legge Gozzini, alle misure del caso. Ma no a un’amnistia politica».
Per quale ragione?
«Perché il terrorismo, oltre a uccidere padri di famiglia, ha tolto all’Italia gli uomini migliori. Uomini che si prefiggevano di realizzare la Costituzione: Bachelet, Moro, Emilio Alessandrini... Ci hanno privato di una classe dirigente, ne abbiamo pagato la mancanza. Benché molto diverse, la corruzione di Tangentopoli e il terrorismo sono ferite del nostro Paese. E le Br non hanno mai detto tutta la verità. La regìa era altrove».
Maurizio Caprara, Corriere della Sera, 12 febbraio 2005.

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