Sul manifesto dei cattolici e laici per il sì
Un documento/manifesto di laici e cattolici nel centrosinistra «per un confronto leale» sulla materia referendaria e «contro il bipolarismo etico» nella società civile merita rispetto ed è con questo sentimento (cui si aggiunge la stima per amici presenti tra i firmatari) che stendo le osservazioni che seguono. Osservazioni severe, però, perché il documento contiene troppe affermazioni affrettate un tono liquidatorio davvero mal riposto su questioni d’importanza per passare senza vaglio.
Già le “premesse” (i primi tre capoversi) suonano incoerenti con l'assunto etico dei suoi estensori, per. Mi pare errato (oltre che grossolanamente formulato) condannare come "dottrinario e astorico", "semplicistico di tipo ideologico", "sconnesso da una lettura della realtà sociale" l’atteggiamento di chi assume la propria impostazione etica come "bene massimo" su cui valutare margini possibili di scostamento e soglie di non negoziabilità. Anzitutto una prospettiva etica non pone se stessa come bene massimo ma coglie un bene massimo come proprio fondamento e riferimento. Così non è per proteggere se stessa che definisce dei beni assiologici non negoziabili ma per affermare coerentemente quei beni.
La coerenza in questo non è dottrinarismo; e appare comunque ingenuo parlare di “astoricità” riguardo agli enunciati del dover-essere. Nessun dover-essere (dai minimi ai massimi) che impegni assenso e decisione conforme si presenta con correttivi relativistici o nella forma di una "storia". Né “non uccidere” né “vietato calpestare le aiuole” mi riguardano eticamente nella forma non prescrittiva: “in un antico testo si comanda: Non uccidere”, o “in qualche cartello è scritto Vietato ecc.”. Né la "concreta realtà sociale" ha (né potrebbe avere) in se stessa funzione e valore di norma; quando questo avviene è perché il concreto si trasforma in modello e attira a sé (o contro di sé) come un assoluto. È proprio la concreta realtà sociale che rende forte la "presa di posizione"; quanto più è "concretamente" conosciuta tanto più essa urge il giudizio.
Non per questo un (necessariamente) “assoluto” dover-essere considera il pluralismo delle tesi o delle tavole di valore come un vincolo, anche se non è tenuto a riconoscerlo sempre e comunque come "ricchezza". Ma non assegna al "pluralismo" alcuna decisione sovrana sul proprio valore; è semplice osservare che se un ordine pluralistico riducesse gli assoluti morali ad opinioni non-regolative non avremmo alcun pluralismo, ma solo un pulviscolo indifferente di atteggiamenti personali e contingenti. Un pluralismo, poi, che imponesse di "evitare" di promuovere norme "pur moralmente fondate" diventerebbe (e diviene frequentemente) un apparato di neutralizzazione forzata di ogni dover-essere.
Lo spazio pubblico plurale sussiste come spazio di confronto e di regolato conflitto; e non vi è motivo di pensare che questo "laceri la società". Il “bipolarismo etico” paventato dal documento (per analogia, negativa evidentemente, col bipolarismo del sistema politico), per cui una diversa maggioranza politica favorirebbe ogni volta una opposta norma, non produce per sé effetti relativistici; al contrario, eventualmente definisce l'immagine dell'altro.
Nel documento risultano manierate (su questa falsariga) molte altre osservazioni di metodo, come quando esso oppone al negoziato tra «appartenenze separate» una specie di destinazione del civis al bilanciamento. O quando rifiuta «gli unilateralismi ideologici e confessionali» o sottolinea che «libertà della coscienza significa che è in definitiva la persona a scegliere, ascoltate tutte le posizioni emergenti nello spazio della discussione». Gli estensori sollecitano dai lettori un facile consenso, chiedendo però di connotare negativamente le appartenenze (le quali come potrebbero esistere se non “separate”?); sembrano pensare che la persona che in definitiva “sceglie” sia moralmente superiore a quella che “appartiene” poiché, pare ci dicano, chi “appartiene” non può scegliere. Sfugge agli estensori che chi “appartiene” spesso (forse sempre, perché cosciente appartenenza vuole liberi atti di assenso) appartiene in virtù di una scelta, ha già scelto. E ciò che si è scelto ha tanto più forza e irrevocabilità (data la nostra finitezza) quanto più è seria la materia della scelta.
Quante volte il dibattito filosofico ha, nella sua storia, sancito che la scelta di scegliere di scegliere è vuota? Perché essere costretti a ricordare a dei cattolici questo; forse perché tra loro vi sono dei laici?
La tematica (la realtà) disciplinata dalla Legge 40 non è in sé materia su cui fare esercitazioni di pluralismo, quasi in corpore vili. Scelgano gli amici altri terreni. Sono in gioco, come molte intelligenze scientifiche riconoscono, il significato e la dignità dell’uomo. Chi lo avverte non può collocarsi in medio per tutelare il metodo democratico a scapito del merito antropologico, la tutela del nascituro, ad esempio, che è conquista civile e giuridica non negoziabile.
La sequenza delle indicazioni che il manifesto del sì ci propone (e le sue ragioni) è sintomatica di questa “perdita del centro”. Non a caso l’indicazione di voto procede dal quesito sulla fecondazione eterologa. Certo, la portata (la rischiosità, l’indesiderabilità) socio-antropologica della generalizzazione di quella tecnica è enorme, e anche lo scrivente ha preso posizione. Ma non è per questioni di antropologia familiare che l’eterologa è in gioco nel referendum. Il perno di tutto è altrove, ed è là dove il documento esibisce invece scetticismo. Polemico («la mera equiparazione ecc. rispecchia solo una parte limitata ecc.») sulla protezione giuridica dell’embrione, esso mostra disponibilità ad accogliere un suo surrogato come generica tutela della “dignità umana di tutti i soggetti” (gli estensori, che negherebbero polemicamente di sapere cos’è “persona”, sanno invece cos’è “soggetto”!), retorica perché applicabile o non applicabile ad libitum. Sfugge agli estensori l’affermazione che l’inizio della vita è “progetto (!) di vita” (da quando un inizio è un progetto, se non in linguaggi omiletici?), illogicità che la più consapevole cultura bioetica laica non lascerebbe passare. Tutto converge, contro le premesse e le ambizioni, in un sottrarsi, nell’oggi, alla responsabilità intellettuale e civile-religiosa della cultura cattolica. E non consola che si rinvii alla benevolente “garanzia” di qualcuno (ancora la dipendenza cattolica dagli altri, come nel recente passato!).
Sugli altri quesiti, da un lato, il “metodo pluralistico” degli estensori neutralizza, naturalmente, il pure «astrattamente condivisibile obiettivo di evitare selezioni eugenetiche»; dall’altro teorizza come scelta «doverosa» il sì all’utilizzo degli embrioni sovrannumerari (tutti, a quanto pare, passati e futuri, quelli prodotti e quelli che produrremo), motivato con la necessità di non apparire «rigidi», di «non concepire in modo statico la vita» (!) e con la analogia - che pare, ad alcuni, praticabile con enorme cautela solo per una parte degli embrioni congelati - tra uso sperimentale dell’embrione disponibile e espianto di organi dal cadavere.
I costi di questa esibita “liquidità” (non solo metodologica, ma di ragioni e convinzioni) sono obiettivi: si chiede al partito del sì dato per vincente (ma con quale realismo quel vincitore appare capace di “generosità”?) che il concepito resti sì “protetto” ma non lo si protegge dai «buoni motivi» per manipolarlo entro limiti «certi e definiti». L’amico Ceccanti non troverà chi affermerà di non avere buoni motivi, né chi definirà dei limiti senza disporre di veri criteri. Gli estensori (e Giuliano Amato, al cui progetto si rinvia) conoscono il momento maturativo in cui inizia la “dignità umana” o affideranno l’onere di stabilirlo di volta in volta alla “coppia”, ai medici, ai comitati etici?
Ma vi sono anche costi culturali. Ancora all’inizio del Terzo millennio cristiano, dopo che il Signore ha scaraventato in mare cavallo e cavaliere (Esodo 15. 1,19), una cultura cattolica si propone informe su un terreno in cui solo la Weltanschauung cristiana ha strumenti, criteri e forma; e si propone per farsi formare (“la forma dell’acqua”) e dignificare proprio dall’approvazione di chi criteri e strumenti non ha. Mi si dice che il “mondo cattolico” rappresentato dai firmatari sia ormai piccolo e ininfluente. Non lo credo; ovvero, è forse così ma le alleanze naturali sono molte. Troppo solo abbiamo lasciato l’alto magistero di Roma; troppo grande è stata la nostra inazione rivestita di piccole (e sante) buone opere e di non santa enfasi. Per questo anche l’astensione cattolica e non cattolica sarà una scelta non conformistica, difficile da ottenere. E un banco di prova della nostra dignità.
Pietro De Marco
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