Il 12 dicembre Massimo Adinolfi proseguiva la discussione con un suo lunghissimo intervento:
Severino scrive sul Corriere Aristotele e l’embrione. Più o meno tutti gli danno addosso, perché: o la premessa del suo ragionamento è sbagliata, oppure c’è un vizio logico nel suo argomento. Io scrivo il mio bravo articoletto, in cui svuoto del tutto l’argomento, con l’intenzione di mostrare (fra l’altro) che non è la logica la sede in cui si possa decidere la questione. Poi aggiungo: e non è nemmeno la natura, naturalisticamente intesa (che non è l’unico modo di intenderla). Poiché la cosa riesce a taluni elusiva, mi produco in un lungo autocommento in cui preciso ed esplicito ed aggiungo. Tra le altre cose, aggiungo pure che il concetto di uomo è un concetto ‘vago’ (il che non vuol dire necessariamente confuso), che ha componenti diverse le quali provengono, direbbe Wittgenstein, da giochi linguistici (e forme di vita) differenti. A questo punto, propongo il “mio argomento decisivo” (è bello dar sfoggio di sano orgoglio intellettuale). Formalmente corretto (e banale, ovviamente: perché il problema non è lì), l’argomento contiene due premesse. E sulla praemissa secunda si appuntano le vostre attenzioni: quando è che qualcosa è come un uomo?
Ora, prima di soffermarmi su questa domanda, vorrei far osservare che la praemissa prima è molto più interessante, ed è tutt’altro che ovvia e banale. Dire che qualcosa è uomo quando è come un uomo significa infatti accettare una prospettiva anti-essenzialistica (in senso classico). La domanda non è più: che cos’è un uomo, ma come si è quando si è come uomini? Che cosa significa o cosa comporta o come si manifesta l’essere uomini? Dal was al wie, dunque.
Ora potremo dividerci sulla risposta a questa domanda, ma avremo già fatto un bel passo insieme. Il passo è così grande, che la consueta osservazione (fatta propria, en passant, da Giulio Mozzi) secondo la quale la questione di principio uomo/non-uomo non può essere composta in alcuna sede, non ha più motivo di sbarrarci in principio la strada. Chi condivide la praemissa prima accetta di impegnarsi in una analitica descrittiva del ‘come’ dell’uomo
A causa di qualche fraintendimento nei commenti devo far notare ancora dell’altro. Primo. Il ‘come’ in questione non è ancora pregiudicato in alcun senso: non si è già deciso che per essere come un uomo è rilevante la somiglianza fisica o il patrimonio genetico. Non si è ancora stabilito proprio nulla, al riguardo. Secondo. Poiché il ‘come’ ha natura disposizionale, chi accetta la praemissa prima deve accettare non l’idea che l’embrione sia, a differenza dell’uomo fatto e finito, uomo in potenza, ma ben più radicalmente, l’idea che anche l’uomo fatto e finito sia uomo in potenza = sia come un uomo. Deve accettare cioè l’idea che un uomo (come qualunque altra cosa) ‘tutto in atto’ non vi sia (che non vi sia un’ousia uomo). Forse ora si vede meglio che la mia praemissa prima, passata praticamente sotto silenzio, era tutta meno che innocente, e che conviene che qualcuno si affretti a rifiutarla (oppure a continuare così: solo un uomo è come un uomo: ma un uomo è, ecc., con conseguente rientro nei ranghi di una definizione essenzialistica, metafisica o scientifica – dogmatiche entrambe – di ciò che è un uomo)
Se ad esempio, essere come un uomo è essere capace di parlare, non credo che nessuno intenda negare l’umanità dell’uomo muto, o del comportamento autistico, o di individui cerebrolesi. Non solo: ma non credo che nessuno voglia ora includere tra gli uomini computers dotati di sintetizzatori vocali, ecc. Dunque, quando scendiamo sul terreno della descrizione del wie, del come, dobbiamo accettare in principio l’idea che l’uomo adegui sempre imperfettamente il suo concetto. Anzi, a dir meglio: non che l’uomo adegui imperfettamente il suo concetto, ma che quel concetto è aperto, vago, in qualche punto indeterminato (e, in punti, che ancora non conosciamo – come un tempo ignoravano il punto sul quale siamo oggi, per decidere ‘se questo è un uomo’). Con un’immagine merlo-pontiana: quel concetto presenta una stoffa temporale, e dunque cambia. (Ancora un esempio: un tempo si sarebbe potuto considerare se non altro come criterio dell’umanità dell’uomo - e come indice del possesso di determinati requisiti intellettuali - la capacità di giocare a scacchi; oggi, quest’idea s’è fatta ahimé insostenibile).
Ora, a me pare che da questa conseguenza non ci si possa sottrarre neanche sulla base di considerazioni puramente biologiche. Si dica infatti che x,y,z...n sono le proprietà che l’uomo possiede dal punto di vista biologico. Cosa succede se modifico tramite manipolazione quel set di proprietà, sia pure in minima parte? Non credo che dobbiamo concludere che quest’uomo, geneticamente modificato, non sia più uomo (o sia un altro uomo). E che facciamo con i poli-trapiantati?
Si aggiunga a ciò che nessuno ci costringe a considerare che quello biologico sia il concetto di uomo meglio fondato. Né credo che, sul punto, stiamo messi meglio di Platone o Aristotele, che di simili conoscenze biologiche ne avevano pochine. Penso invece che il ‘fondamentalismo biologico’ sia solo una conseguenza di ritorno della possibilità di intervenire geneticamente sull’uomo, e che la questione embrione uomo/non-uomo sia in realtà superata (e cioè condizionata) dal timore che interventi tecnici ‘facciano’ a piacimento gli uomini, preselezionando le loro caratteristiche (fisiche, e non solo). Considero questa preoccupazione legittima, ma non ritengo che una simile preoccupazione possa costringermi a giudicare uomo l’embrione. Potrei benissimo non considerare l’embrione uomo, e ritenere di dover proibire qualunque genere di intervento di ingegneria genetica, per rispetto dell’uomo che sarà, e non dell’uomo che l’embrione è.
Torno così alla questione principale: essere come un uomo. Per corroborare la praemissa secunda dovrei ora fornire una mia ‘tipica’ dell’essere uomo. Mi piacerebbe esserne dispensato, se non altro per il carattere inevitabilmente aperto di una simile lista di predicati.. Potrei però dire, en gros, perlomeno qualcosa del genere: che è uomo chi è capace di parlare, o chi ha avuto questa capacità o chi può acquisirla, e chi prova affetti, o chi ne ha provati o potrà provarli; che uomo è chi ha un volto e può guardami negli occhi, o ha potuto farlo o potrà farlo. Potrei dire qualcosa del genere, potrei ovviamente affinare la mia descrizione, ma non per questa essa basterebbe (per principio). Non sto nemmeno a cercare contro-esempi, o a immaginare come, sulla base di una simile descrizione, possa mai discriminare uomini e computer (e cadaveri, visto che il mio abbozzo di descrizione li includerebbe, e non vi è dubbio che per i non-più uomini l’uomo ha sempre cercato di stabilire una forma di rispetto se non di venerazione che il taglio con l’accetta di uomo e non-uomo renderebbe incomprensibile). (Col che non si dice che l’embrione ha lo stesso valore etico di un cadavere, ma si dice che le cose sono complicate assai). Vorrei invece che si badasse al fatto che al fondo di quella descrizione sta insomma la considerazione, che è uomo ciò che la comunità degli uomini ‘decide’ che sia, e in cui ritiene di potersi riconoscere. Ho posto ‘decide’ tra virgolette perché non penso a una decisione arbitraria, positiva, legislativa, ma penso invece a una decisione che si modifica storicamente, socialmente, culturalmente, religiosamente, e che non è dunque imputabile a singoli individui. E che, la storia me ne rende ragione, non è e non può essere definitiva. (Torno ancora su un punto già considerato: di questo slittamento storico del concetto di uomo si ha di solito paura perché, allora, si può fare dell’uomo quel che si vuole. Di nuovo: capisco la paura, e in parte posso nutrirla anch’io, ma faccio notare che ad essa non c’è rimedio, se non con un salto fuori dalla storia – e tale è anche un salto nella natura. Aggiungo pure che decidendo cos’è un uomo, l’uomo decide su di sé: la qual cosa è ciò che si avvicina maggiormente ad una ‘definizione’ filosofica dell’uomo).
Tutto ciò posto, si tratta solo di valutare la capacità della ‘circonferenza’ uomo di accogliere anche l’embrione, di farlo oggetto degli stessi investimenti emotivi di cui è oggetto un bambino, delle stesse premure, o degli stessi interventi legislativi. Anche qui, mi ripeto: non mi pare che essere cattolici o cristiani o credenti possa esser fatto dipendere da valutazioni di questo tipo, e durerei fatica a trovare nel Vangelo la tesi che l’embrione è un uomo (o che la vita va difesa sin dal suo concepimento), e non mi pare dunque che ci sia qui un punto sul quale non si possa discutere. Io credo (ecco la certezza minore di cui parlo su Leftwing) che dare all’embrione la stessa protezione giuridica che è riconosciuta a un bambino non adegui il loro diverso modo di essere; che la vita al suo concepimento non ‘entri’ nella comunità degli uomini al modo in cui vi entra un bambino (ma già, ovviamente, un feto che scalcia) oppure un altro uomo; che intervenire sull’embrione non procuri sofferenza all’embrione; che intervenire sull’embrione o sulla procreazione può, al presente o in futuro, lenire altre sofferenze, eccetera. Lasciatemi questo eccetera.
È un eccetera pericoloso, lo so. So che il discorso che son venuto svolgendo può essere letto così: ma allora non può essere fissato alcun limite alla tracotanza tecnica dell’uomo. (Prego gli esprits philosophiques che mi hanno letto sin qui, di fare molta attenzione al punto). Io direi così: no, non può essere fissato IN ANTICIPO alcun limite alla tracotanza tecnica dell’uomo, il che non significa che l’uomo possa ora o domani fare qualunque cosa. Significa che bisognerà vedere, che gli uomini che saranno vedranno, di volta in volta: la mai troppo benedetta distinzione kantiana fra totalità distributiva e totalità collettiva deve sempre essere tenuta presente.
Coloro che dipingono scenari da fine del mondo sappiamo che alla fine del mondo non siamo ancora arrivati, e che il fatto che ci si possa arrivare in principio o in idea, e che una tal fine qualcuno pensi di potersela fin d’ora immaginare, non significa affatto che noi dobbiamo decidere ora sotto un tal schiacciamento e accorciamento di prospettive temporali. Di più: coloro che propongono di questi scenari sono le prime vittime di quell’ipertecnicismo nichilistico che dicono di voler scongiurare, se non altro perché ha colonizzato in maniera univoca la loro immaginazione. Sono loro che immaginano il tempo già interamente asservito ad un solo possibile corso, che intendono arrestare. Ed è solo loro la contrapposizione ‘mitica’ fra artificialismo non umano, e naturalismo umano (che è cosa abbastanza ossimorica, al mio orecchio). Non ci tocca di scongiurare ora quel che può accadere domani. Domani sarà troppo tardi? Vedremo domani.
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