La logica, questa sconosciuta
Vittorio Possenti
Con l’approssimarsi del referendum gli animi si scaldano e le argomentazioni si semplificano, con qualche danno per la logica che pur si vorrebbe difendere. Un editorialista del calibro di Giovanni Sartori («La vita umana secondo ragione», Corriere di ieri) parte col piede giusto quando ricorda che vita e vita umana non coincidono (lo sappiamo tutti, tranne forse qualche raro biologo che se lo dimentica; comunque repetita iuvant), ma rischia di confondersi presto appena si domanda quando comincia la vita umana.
Da un lato Sartori riconosce che la «vita comincia nell’attimo della fecondazione, della congiunzione dello spermatozoo maschile con un gamete femminile», ma poi non accetta che il prodotto della fecondazione sia vita umana. Sbagliando, perché l’embrione nato dalla congiunzione tra un seme maschile umano e un gamete femminile umano non può che essere embrione umano, dotato di vita umana. Lo è certo per il Dna, che non è quello dei topi o dei pesci: l’embrione è in possesso di un patrimonio genetico assolutamente individualizzato e appartenente in modo esclusivo alla specie umana, ed è dotato di un’attività immanente, autonoma, autoprogrammata e teleologica, che non manifesta discontinuità nel processo formativo. Secondo il rapporto Warnock, «una volta che il processo è cominciato, non c’è una particolare fase del suo sviluppo che sia più importante di un’altra: tutte sono parte di un processo continuo». Si può temere che l’editoriale in questione faccia confusione tra l’umanità dell’embrione e la domanda sul momento in cui questo diventa persona: problema notevolissimo, certo, ma non identico al precedente. Comunque là dove vi è vita umana, a essa spetta cura e rispetto.
Anche se dovessimo nutrire dubbi sul fatto che già al concepimento vi sia la persona, dovremmo astenerci dal sopprimere l’embrione. L’esemplificazione dell’editoriale («se uccido un girino, non uccido una rana») è fallace, perché introduce surrettiziamente l’indistinzione tra vita generica e vita umana di un embrione umano, ossia identificando proprio quanto poco sopra aveva reclamato dovessi distinguere.
Rimane la domanda: quando la vita umana è diversa da quella animale? Quando comincia la persona? Risponde Sartori: «La vita umana comincia a diventare diversa, radicalmente diversa da quella di ogni altro animale superiore quando comincia a "rendersi conto". Non certo da quando sta ancora nell’utero della madre» (il corsivo è mio). Ho letto e riletto, sfregandomi gli occhi: sì, c’è scritto così; un’enormità. Il criterio suddetto renderebbe possibile la soppressione di ogni feto, compresi quelli che sono lì lì per nascere e che l’ecografia mostra in tutto e per tutto uguali ai già nati.
Veramente la vita umana cambia radicalmente rispetto a ogni altra vita quando essa è dotata di autoconsapevolezza? Mi pare una semplificazione, dipendente dal fare centro sul pensiero e l’autocoscienza che sono atti secondi, e non sull’atto primo di esistenza. Ciò che fa la vita umana è l’atto d’essere sostanziale proprio dell’embrione umano, e che inizia col concepimento: l’autocoscienza è un attributo che segnala normalmente la presenza della persona, senza che la sua assenza sia perciò stesso indice di non-persona.
Vorrei rassicurare Sartori. Non è che i credenti ritengano che l’embrione sia vita umana perché «la fede, se così le viene imposto dalle sue autorità, può rispondere di sì», ma in base ad argomenti razionali, ossia scientifici e filosofici. Anzi, su molte questioni bioetiche non esiste affatto una bioetica cattolica, ma razionale e basata sul principio-persona. Solo che la ragione cui guarda Sartori è molto anemica e si spaventa facilmente. Scrive: «Se Dio esiste, è materia di fede», mentre occorrerebbe sostenere che il tema dell’esistenza di Dio è questione tanto di ragione quanto di fede, e che la prima può fare un buon cammino in merito. La separazione o l’opposizione che l’editoriale crea tra ragione e fede non regge.
Ps: Intervenendo su questioni analoghe Gian Enrico Rusconi (la Stampa di ieri) sostiene che la democrazia «deve rispettare tutte le visioni della vita», e che lo Stato laico deve regolare «in modo ragionevolmente consensuale» l’ethos civile. Il riferimento al consenso è congruo in vari casi, non in quello dell’embrione. Infatti, perché si possa parlare di società civile e non di una giungla non è possibile derogare dal criterio cardinale del neminem laedere. Nelle società umane si può forse fare a meno per qualche tempo di un criterio di giustizia distributiva, ma non della garanzia del neminem laedere che non trae la sua validità dal consenso, sia pure democratico, e tolta la quale non vi è più società. Ora è ben evidente che l’embrione umano non è un «signor nessuno», e che perciò occorre rigettare come eversiva di ogni convivenza l’espressione di coloro che sostengono che l’embrione è esattamente un nessuno, di cui si può disporre a piacimento.
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