Ci son di quelli che non dicon nulla ma lo dicono bene - ce n'è altri che dicon molto ma lo dicon male. I peggio son quelli che non dicon nulla e lo dicon male.
Mordace come spesso gli accadeva di essere, così Giovanni Papini (1881-1956) bollava la comunicazione del suo tempo in un articolo apparso sul "Corriere della sera" e poi raccolto nel volume Schegge. La sua classificazione è sacrosanta. Tutti hanno avuto, infatti, la ventura di ascoltare emeriti ciarlatani pontificare in modo così suadente da attirare folle di «mosche bipedi come verso il miele» per usare un'altra locuzione di Papini. Similmente tutti hanno talvolta assistito alla conferenza di un grande specialista o di un vero esperto, piombando quasi a terra, stremati da una noia mortale.
Ma non è finita: c'è anche chi non sa e non dice nulla e lo dice anche male e qui la tentazione forte è quella di evocare certi politici (ma non solo: azzarderei anche l'idea di riferirmi a qualche predicatore…). Dire bene cose sostanziose è, comunque, un'impresa tutt'altro che facile ed è frutto di un impegno severo e non solo di un dono di natura. Ma io, rimanendo sempre nel seminato, vorrei far riflettere su un'altra verità che tocca tutti, anche quelli che non parlano davanti alle platee. È ciò che in modo folgorante esprime un detto rabbinico: «Il sapiente sa quel che dice; lo stolto dice quel che sa». Anche il Salmista confessa: «Veglierò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua, porrò un freno alla mia bocca» (39, 2). Impariamo, allora, tutti questo autocontrollo.
Gianfranco Ravasi
Avvenire, 24 gennaio 2003
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