Dal 1948, per oltre vent’anni, L’Osservatore della Domenica ospitò la rubrica “L’Appuntamento della Carità”, dedicata alla raccolta di aiuti per persone in difficoltà.
Nel dare notizia dell’improvvisa scomparsa del curatore della rubrica, avvenuta sessant’anni fa, il 15 aprile 1965, il direttore Enrico Zuppi rivelò ai lettori che dietro lo pseudonimo “Benigno” si celava il poeta Auro d’Alba. Un nome che, nella discrezione dell’anonimato, aveva fatto della carità una missione silenziosa ma concreta.
La rubrica era nata quasi per caso quando a Benigno, che già scriveva meditazioni religiose per il giornale, fu chiesto di presentare un caso particolarmente grave. In pochi giorni arrivarono, inaspettate, numerose offerte da parte di lettori colpiti dalla delicatezza delle sue parole. Da quel momento, l’appuntamento divenne fisso.
Erano gli anni difficili, quelli del dopoguerra. Benigno si occupava quotidianamente di selezionare fasci di lettere, verificarne l’autenticità, valutare il reale bisogno, e infine proporre ai lettori i casi più urgenti. L’assistenza non era soltanto economica: tramite la mediazione del giornale venivano distribuiti viveri, medicinali, indumenti, apparecchi ortopedici, protesi, persino mezzi di locomozione, sia ad individui che ad istituzioni.
Ma chi era Auro d’Alba? Nato a Roma nel 1888 da una famiglia di origini abruzzesi, pubblicò a soli 17 anni la sua prima raccolta di versi, Lumi d’argento, firmata con il suo vero nome, Umberto Bottone. Erano componimenti di ispirazione crepuscolare, recensiti con interesse dall’amico Sergio Corazzini.
Negli anni Dieci fu coinvolto da Filippo Tommaso Marinetti nell’esperienza futurista, pubblicando anche su Lacerba di Papini e Soffici, per poi avvicinarsi all’avanguardismo della rivista napoletana La Diana.
Militante politico, nel 1916 fu arrestato insieme ai futuristi Marinetti, Balla, Depero, Cangiullo e Jannelli in occasione di una manifestazione interventista. Coerente con le sue convinzioni, partecipò alla Prima guerra mondiale, combattendo tra i bersaglieri. L’esperienza al fronte gli valse una medaglia d’argento e una croce di guerra, ma anche materiale per i racconti e le poesie degli anni immediatamente successivi.
In quello stesso periodo scrisse versi per l’infanzia destinati al Giornalino della Domenica di Vamba, l’autore di Gian Burrasca.
Fascista della prima ora, fu responsabile dell’ufficio stampa e storico della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il culmine della sua notorietà letteraria coincise con una tragedia che lo riportò a una profonda fede cattolica.
Nel 1930 pubblicò Nostra famiglia, romanzo parzialmente autobiografico, in cui immaginava la famiglia ideale del nuovo regime. Ma pochi mesi dopo la pubblicazione, la figlia diciottenne Ofelia, si tolse la vita nella casa di famiglia. La tragedia cambiò radicalmente la sua esistenza e commosse il mondo letterario italiano.
In un volume commemorativo uscito un anno dopo, troviamo gli omaggi ad Ofelia d’Alba di Salvatore Quasimodo, Grazia Deledda, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi e molte altre firme illustri dell’epoca.
La produzione poetica di Auro d’Alba immediatamente successiva alla tragedia è tutta dedicata alla figlia perduta.
Negli anni seguenti, Auro d’Alba collaborò con Il Frontespizio, prestigiosa rivista fiorentina di ispirazione cattolica e punto di riferimento della cultura letteraria del tempo.
Affiancò nuovamente Marinetti durante la guerra d’Etiopia, distinguendosi in operazioni militari che gli valsero una medaglia d’argento al valor militare e due croci al merito di guerra. In quegli anni fu anche autore di testi di canzoni militari, tra cui Battaglioni M e Cantate di legionari.
Dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale partecipò in ruoli legati alla propaganda, e segnato dalla perdita della moglie, Auro d’Alba tornò alla scrittura. Scelse spesso però di firmare i suoi contributi su riviste con vari pseudonimi, forse nel tentativo di prendere le distanze da un passato politico ormai compromesso.
Collaborò alla terza pagina de Il Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, firmando con lo pseudonimo Benigno Assunti ritratti e profili letterari tratti dai suoi ricordi. Questi testi confluiranno più tardi nel volume di memorie Formato tessera (1956).
Oltre alla critica letteraria, continuò a pubblicare poesie e meditazioni, specialmente sulla rivista fiorentina Città di Vita e su L’Osservatore della Domenica. In quest’ultimo, curò come Benigno la rubrica “Voli”. Inizialmente solo letteraria, divenne in breve “L’Appuntamento della Carità”, dove i casi bisognosi venivano spesso introdotti da brevi, intense riflessioni spirituali.
Benigno dava voce agli indigenti con profonda delicatezza, lasciando molte volte che fossero le loro stesse parole a raccontare il bisogno. Presentava i casi attraverso le lettere ricevute, preservandone l’autenticità e il tono umano. Era come se chi scriveva trovasse finalmente uno spazio d’ascolto, una mano tesa attraverso la pagina.
Settimanalmente, Benigno offriva ai lettori dell’Osservatore della Domenica l’occasione concreta di compiere un gesto di carità. Quando la generosità non bastava a soddisfare il bisogno, interveniva personalmente, colmando le mancanze con discrezione. La sua penna dava voce al dolore, ma anche risposta silenziosa, spesso tangibile, alla sofferenza altrui.
Una delle prime lettere presentate da Benigno non proviene da un richiedente aiuto ma da un benefattore. È il gennaio del 1948 e a scrivere è un reduce dal campo di concentramento di Mauthausen. L’uomo chiede che la sua offerta, inviata in forma anonima, sia destinata attraverso il giornale a un tedesco in difficoltà, come segno di riconciliazione.
“In più del perdono voglio, in questo Natale, aiutare una persona forse che mi ha fatto del male, ma purtroppo è stata vittima di inganno. Le parole del Papa sono sempre accorate; possano ascoltarlo di più, e guadagnare così, coll’amore e non coll’odio questa pace alla quale il mondo aspira”, scrive il lettore.
Benigno riconosce in questo gesto non solo un atto di generosità ma l’espressione di una santità autentica.
In un commosso articolo di commiato, sessant’anni fa, il direttore Enrico Zuppi ricordava che Auro d’Alba, avendo dovuto affrontare tempeste dolorose, “trovava un particolare conforto nel fare del bene agli altri, con inesausta carità”.
Il poeta, in una delle sue meditazioni introduttive a L’Appuntamento della carità, scriveva: “Il dolore ci rende comprensivi, caritatevoli, ci è più facile tendere la mano al fratello, aprirgli le braccia, ascoltargli il cuore che batte col nostro; infine spartire il pane e la pena con lui. Quante volte invece mi sono accorto che la gioia è egoista, è crudele, come spesso è la giovinezza, che ha tutta la vita dinanzi e non vuol saperne di soffrire. E sapete perché è egoista? Perché vorrebbe non finir mai; è crudele perché l’altrui tristezza fa ombra, le dà noia, la disturba, la richiama a un dovere che preferisce trascurare, ignorare, disdegnare forse … E dimentichiamo la più alta verità della nostra Fede: «Un bicchiere d’acqua dato con amore è meritevole di vita eterna».”
Enrico Zuppi, nel suo articolo celebrativo, aggiungeva: “Non lo vedremo più tra noi, con quel suo sorriso apparentemente scettico, di uomo di mondo, col quale credeva di poter difendere la sua immensa bontà, il suo altruismo, la sua squisita sensibilità.”
L’Appuntamento della Carità proseguì anche dopo la morte di Auro d’Alba, grazie all’impegno della seconda moglie, Maria Antonietta Pozzi, sua collaboratrice nella vita e nell’opera.
Auro d’Alba è oggi un autore dimenticato. I suoi libri sopravvivono tra le pagine ingiallite di vecchie edizioni, reperibili solo nei negozi di antiquariato o nelle biblioteche. Il suo nome, un tempo noto, è stato oscurato anche da un legame troppo evidente con il Ventennio fascista, che ne ha segnato il destino culturale più di quanto abbia segnato la sua voce interiore. Eppure, l’invisibilità che scelse negli ultimi venti anni della sua vita fu tutt’altro che un rifugio imposto dalla storia. Era, piuttosto, una forma di pudore, di volontaria discrezione. Una rinuncia al riconoscimento personale per lasciare spazio all’urgenza dell’altro, al dolore che chiedeva ascolto. Non si nascose per paura ma per promuovere la carità silenziosa. Dietro Benigno, più che un autore in ritirata, c’era un uomo che aveva imparato a scrivere non più di sé, ma per gli altri.
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