Un poeta, in nome di tutti i poeti — che per umano e divino privilegio sono i più vicini alla fanciullezza, perché non v’è fanciullo che non sia poeta, né poeta che non conservi un’anima dolce e mite da fanciullo — ha detto di recente che la più terribile, l’inespiabile colpa frutto di questa guerra è lo scempio dell’infanzia, il martirio dell’innocenza.
Ed è vero. Noi li abbiamo visti, durante le tremende
incursioni, i nostri bambini stringersi terrorizzati al petto dei grandi, con
una invocazione suprema negli occhi smarriti: un’invocazione che era già
condanna per chi aveva scatenato il flagello. Anche quando la morte non li
ghermiva, quei piccoli cuori ne uscivano così sgomenti da restarne intimamente
feriti. Ci è toccato, proprio in questi giorni, assistere — in una corsia
d’ospedale — all’agonia lenta e disumana di una bimba ridotta a pelle e ossa.
Il cuore, malato per i troppi spaventi, le batteva forte in gola; si fermava,
riprendeva la corsa fino a sgranarle gli occhi — due fiamme — in un visino
terreo, dove già soffiava l’alito della morte.
A quella, a tutte le creaturine vittime dell’odio degli
uomini, abbiamo pensato giorni fa, quando la piccola Luciana Sisti è caduta
sotto il tallone del proprio genitore. Padre? O belva in sembianze umane? Belva?
E perché riabilitare così la specie animale, se la belva difende i suoi piccoli
fino a immolarsi?
La cronaca è un rigurgito d’innominabili delitti contro
l’infanzia. L’uomo, che ha perduto ogni senso di bontà e pudore, sembra volersi
vendicare di se stesso, della propria follia, accanendosi contro chi ancora gli
parla di bontà e d’innocenza. Contro i teneri virgulti della sua stessa carne,
che gli ricordano un tempo beato, quando i cavalieri erano prodi perché
conoscevano e facevano rispettare le leggi dell’onore e del focolare domestico,
dove accanto al talamo dondolava la culla avita, candida come un altare.
La piccola Luciana Sisti era di carattere dolce e
affettuoso. Abbandonata dalla madre, aspettava che suo padre rincasasse per
sentire un po’ di tepore, il calore di casa. Tremava, forse, perché temeva
l’orco della favola — che nessuno sapeva più raccontarle. Così gli andò
incontro fiduciosa, senza immaginare che l’orco si fosse rifugiato proprio in
quel petto villoso, in quelle zanne rapaci.
«Senza mandare un piccolo grido, la bambina fu sbattuta a
terra e colpita ciecamente a calci e a pugni. Ben presto, dal viso
dell’innocente il sangue sgorgò copioso. Il padre, alla vista del sangue,
infierì con maggior furore sul corpicino…».
Assisteva al martirio, forse complice, un’altra donna, e non è
difficile intuire chi fosse.
È un brano di cronaca, disadorna cronaca, di un atto
abominevole che — Dio non voglia! — si ripeterà, finché l’umanità non torni sui
propri passi, non risalga l’abisso in cui è caduta, non ricostituisca atomo per
atomo la cellula della famiglia, disintegrata da questa ventata di follia che
minaccia di abbattere gli ultimi pilastri del ponte.
Dall’alto della Croce, con gli estremi aneliti del suo
passaggio terreno, una voce eterna risuona, a esaltazione degli innocenti e
condanna degli orbi: «In verità vi dico: se non vi farete umili come questi
fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli!»
Benigno
8 giugno 1947
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