Due anni fa moriva Benetto Calati, un monaco che mi ha profondamente impressionato.
Quando l'ho conosciuto parlava poco e camminava a stento, a causa dell'ictus che l'aveva colpito.
Aveva degli occhi vispissimi, veramente profondi.
L'aspetto era quello di un uomo che travalica i secoli eppure era profondamente immerso nella vita del suo tempo.
Era l'immagine della bontà ma sapeva essere deciso e franco.
Mi ha insegnato una grande cosa, che l'amore di Dio è un bacio.
David Maria Turoldo gli dedicò una poesia per i suoi 70 anni.
«Benedetto, monaco dal volto d’argento,
fratello mio, tempi malvagi ci sono toccati in sorte...
È notte, fratello! ...
gli uomini della pace sono subito uccisi: tutta la terra è un arsenale di morte...
Almeno tu, l’Anziano dei secoli, quale tuo pastorale più vero,
brandisci il cero della pasqua e innalzalo sul tuo monastero a rompere la notte:
che anche da lontano guidi i molti amici che risalgono le antiche vie dei monaci nel cuore della foresta che pur tramanda ancora la eco di salmodie mai interrotte.
E lassù, insieme, da cella a cella componiamo nuovi cantici: perché la Terra torni a sperare».
Così lo ha ricordava Enrico Peyretti sul mensile torinese "il foglio", nel
n. 276 del dicembre 2000.
Il 21 novembre, alla notizia della sua morte, che da qualche giorno sapevamo di dover attendere, apro la raccolta dei suoi principali scritti, Sapienza
monastica (Studia Anselmiana, Roma 1994), e da una delle prime pagine mi viene incontro la sua immagine della maturita': un volto felice, che regala
serenita', e ti guarda negli occhi, con intelligente bonta'.
Era veramente cosi'. Glielo dissi quando festeggiammo i suoi ottant'anni, a Camaldoli, nell'ottobre del '94: sei un uomo felice, e scaldi il cuore.
Aveva pur avuto da soffrire, e soffriva di molte cose della chiesa, ma era felice. Accoglieva gli amici con vera festa ed abbracci.
Chi conosce il lavoro di padre Calati vi riconosce uno dei migliori e piu' profondi contributi al rinnovamento evangelico conciliare, attinto alla piu'
solida tradizione originaria, e alla spiritualita' piu' pura, al di la' della secolare decadenza del Vangelo caratterizzata dalla potenza
ecclesiastica. L'arcivescovo Pellegrino andava da lui e da lui accoglieva ispirazioni esemplari, nel comune riferimento all'eta' dei Padri.
Nell'ultima decina d'anni, un gruppo di amici suoi di varia provenienza e attivita', si ritrovava con lui, a Camaldoli, una o due volte l'anno. Era
una di quella gioie rare e profonde, che la vita amministra con parsimonia.
Le ultime volte, ripresosi da una prima malattia, ci diceva solo poche parole, seguendo la nostra conversazione, o entrandovi d'impeto. Poche
parole sempre essenziali, succo di vangelo. Ricordo ora per prime alcune sue parole di congedo: "Ottimismo, ottimismo, ricordatevi l'ottimismo". Diceva
ottimismo, per dire intelligenza evangelica, come la sua.
Altri diranno dei suoi contributi di studio sulla storia e la spiritualita' monastica, specialmente sul "suo" Gregorio Magno e su cio' che quel grande
dice anche oggi alla chiesa e all'umanita'. Io ricordo dom Benedetto, fino dalle settimane teologiche della Fuci a Camaldoli, attorno al '60, e a Roma,
a san Gregorio, negli anni del Concilio: parlare con lui, ascoltarlo, era bere acqua di monte, fresca e sana. Vivace come un fringuello, anche da
vecchio, franco ed aperto nell'esprimersi, era l'opposto del monaco chiuso sotto cappucci e dentro mura, ma ti portava frutti maturati in silenziosi
chiostri interiori. Erano frutti di liberta' evangelica.
Raffaele Luise ha appena raccolto per la Cittadella una sua lunga intervista, suo testamento spirituale, La visione di un monaco, su cui
bisognera' ritornare.
I suoi fratelli monaci ci hanno detto che, alla fine, diceva ogni tanto: "Andiamo in pace". Cosi' e' andato. Un'alta e profonda pace, che egli ora
trasmette a chi gli ha voluto bene.
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