lunedì, novembre 30, 2020


Trinity College Dublin

domenica, novembre 29, 2020

LBRY si è sdoppiato in Odysee e quindi ora sono sia su https://lbry.tv/@angelo.bottone:9 che su https://odysee.com/@angelo.bottone:9


Il contenuto è esattamente lo stesso. Odysee è graficamente più vivo ed è orientato sui video. Io preferisco LBRY perché produco pochi video ma molto testo, audio e foto. Iscrivendosi ad una piattaforma si accede automaticamente anche all'altra. La tecnologia blockchain è sempre la stessa. 



sabato, novembre 28, 2020


Cambridge, Inghilterra

martedì, novembre 24, 2020

Medici abortisti: "Uccidiamo i bambini con pratiche brutali"

L'articolo che segue si basa su uno studio che io ho scovato e di cui ho scritto per primo la scorsa settimana. La notizia ha avuto giustamente una risonanza internazionale, sono apparsi diversi articoli negli Stati Uniti, ed ora è arrivata anche in Italia. Le pratiche descritte nello studio sono barbariche ma questo è ciò che capita ogni giorno negli ospedali di mezzo mondo. Nessuno ne vuole parlare ma ogni tanto è bene ricordarselo.



  • IRLANDA POST REFERENDUM

Medici abortisti: "Uccidiamo i bambini con pratiche brutali"


Di Benedetta Frigerio.

Un'indagine irlandese fa parlare i medici di una procedura "terribile" che è come "pugnalare il bambino" e dopo "mi ricordo che stavo male". L'iniezione del cloruro di potassio nel cuore è molto dolorosa per il piccolo ma avviene senza sedazione (il che è vietato nel caso si eutanasizzi un animale). Non solo, quando i bimbi nascono vivi, i medici si rifiutano di curarli. Eppure, dopo il sì all'aborto, il Paese sarebbe dovuto entrare in un'era di progresso dovuta all'eliminazione del suo retaggio cattolico-oscurantista.

C’è una procedura per praticare l’eutanasia sugli animali che è così dolorosa e brutale che l’American Veterinary Association consiglia l’anestesia prima che sia effettuata. Questa stessa procedura viene usata, senza però alcuna sedazione, per praticare a stadio avanzato gli aborti in Irlanda. Ad ammetterlo sono gli stessi medici che, in uno studio condotto dai ricercatori della University College Cork e pubblicato sulla nota rivista internazionale Journal of Obstetrichs and Gynaecology, parlano di come uccidono i bambini in grembo.

Le parole che usano i dieci dottori intervistati in merito alla procedura usata sono: “Brutale”; “Terribile”; “Emotivamente difficile”. Perché “pugnalare il bambino nel cuore”, come dicono loro stessi, non può non lasciare tracce profonde anche in chi crede che l’aborto sia un diritto e quindi un dovere. Tanto che i medici parlano come se fossero costretti ad agire facendo morire la loro stessa professione che ha lo scopo di salvare e non di uccidere le persone. Tutto, infatti, viene giustificato con la necessità di "fornire piena assistenza alle donne", facendo emergere la contraddizione per cui pur di assecondare la volontà di un adulto, oggi vissuta come un idolo insindacabile, si è disposti ad eliminare una vita umana.

A parlarne è stato Life News con le parole di Eilís Mulroy della Pro Life Campaign: "I risultati di questo studio sono davvero strazianti". Tutto ciò "va ben oltre la conferma dei peggiori timori che gli attivisti pro-life hanno espresso prima del referendum del 2018 su ciò che sarebbe accaduto in caso di aborto legalizzato”.

In Irlanda, infatti, il referendum sull’aborto del maggio 2018 non solo ha portato all’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione nazionale, e quindi al via libera per l’omicidio dei figli in grembo fino a 12 settimane, ma addirittura all’omicidio fino al nono mese nel caso in cui vi siano anomalie fetali. Il che richiede che il medico inietti nel cuore del piccolo il cloruro di potassio in modo da provocargli un arresto cardiaco, per poi indurre il travaglio nella donna che partorirà il piccolo morto.

“L’ho ucciso”, ammette un medico, “mi ricordo che stavo male quando dopo (l’aborto, ndr) sono uscito nei corridoi perché pensavo fosse una procedura così terribile e così spaventosa”, ma “bisogna guardare al positivo altrimenti si impazzisce". Impressiona quanto l’ideologia abortista che si fonda sull’“aiuto” alla donna a togliere di mezzo il suo “problema” possa essere così forte da eliminare anche l’esperienza fortissima del male intrinseco a questa pratica abominevole che i medici ammettono di vivere. Tanto che alcuni di loro devono contraddirsi dicendo che la procedura “terribile” è “nel miglior interesse dei bambini”, i quali altrimenti nascerebbero malati: uccidere il malato sarebbe quindi meglio che curarlo.

Lifesitenews riporta poi quanto riferito dallo Iona Institute riguardo ad una coppia che aveva deciso di abortire il proprio bambino scoprendo dai dottori che aveva la sindrome di Edward. Peccato che lo screening finale non sia stato mostrato ai genitori fino a quando l'aborto non è stato praticato, rivelando che il bambino era sano.

Un articolo di David Mullins e Niamh Uí Bhriain del The Life Institute, oltre a ricordare che il cloruro di potassio viene iniettato nel cuore degli animali solo dopo essere stati sedati, spiega che ciò non avviene per i bambini che vengono uccisi in grembo perché “Simon Harris (ministro della salute irlandese) ha impedito anche questo piccolo briciolo di umanità”, insieme al rifiuto dell’emendamento che imponeva le cure dei bambini sopravvissuti.

Non a caso nell’indagine i medici ammettono anche che i piccoli sopravvissuti alla pratica non vengono assistiti ma lasciati morire (nelle interviste c’è anche chi ha espresso il timore di essere denunciato se un bambino vive al di fuori dell'utero più a lungo di quanto previsto). E qui viene la parte più truce della pubblicazione: i medici ammettono che non è chiaro “chi si prenderà cura di quei bambini se un bambino nasce vivo dopo TOP (interruzione della gravidanza) per induzione del travaglio... con il risultato che (i medici) supplicano le persone di aiutarli a fornire cure palliative (ai neonati, ndr)".

Peccato "il rifiuto dei neonatologi di fornire cure palliative perinatali al bambino a seguito di un TOP (aborto) senza feticidio (non riuscito, ndr), con alcuni FMS (medici specialisti dei feti) che descrivono la pressione dei neonatologi affinché pratichino il feticidio (cioè l’omicidio del bimbo nato vivo)". Eppure, oltre ad ammettere l’orrido, giustificandolo con il rispetto della donna, i medici chiedono norme legali ancor più larghe sull’aborto.

Tra il 2018 e la fine del 2019, 6.666 (notate il numero) bambini sono stati legalmente abortiti in Irlanda, in 126 casi oltre le 12 settimane di gravidanza con una pratica così atroce che non viene nemmeno eseguita sugli animali. I piccoli in grembo sono quindi eliminabili più facilmente che altri esseri viventi. Mentre i bimbi handicappati sono considerati meno che le bestie nella civilissima Irlanda che si vanta dei suoi progressi da quando ha eliminato il retaggio cattolico oscurantista.

«Uno spettro si aggira in Irlanda. Un spettro crudele del secolo scorso», spiegava uno spot del 2015 di Amnesty International contro l’ottavo emendamento a cui il noto attore cattolico, Liam Neeson, prestò la voce: «Ciecamente porta sofferenza, anche morte, alle donne di cui tocca le vite... È l’ombra del paese che abbiamo lasciato alle nostre spalle». Sullo sfondo apparivano le mura di una chiesa diroccata sotto un cielo di piombo.

Quel che restava delle mura è stato distrutto insieme all’emendamento che proteggeva le vite innocenti. E le interviste ai medici abortisti sono il seguito del nuovo mondo che si sognava. Un palese

lunedì, novembre 23, 2020

IFPA annual report

 The Irish Family Planning Association performed more than 250 abortions in 2019 and 4.5pc of women experienced complications.

The Irish Family Planning Association (IFPA) is the biggest private provider of abortions in Ireland and it has just published a report on their activities in 2019.

Even if it is unofficial and it cannot be verified, this report is the only source of information about abortions taking place in Ireland.

The official annual report from the Minister for Health says nothing about the women who have abortion, besides their county of residence. We know absolutely nothing about their age, marital status, gestation weeks, previous pregnancies or abortions, etc. In other countries, those details are commonly gathered for policy planning and for international comparison but, when the abortion legislation was approved in December 2018, all the attempts to have this significant information included in the annual report from the Minister were rejected.

The IFPA report tells us that they had 1,015 “early medical abortion” appointments, which are appointments for abortions within 9 weeks and administered by pills. (After 9 weeks the service is provided only in hospitals, through pills or surgically.)

1,015 is the number of appointments but only some of them ended with an abortion.

The precise number of abortions performed by the IFPA is not specified in the report. However, the statistics presented are based on a sample of 177 of their clients and, the IFPA says, this sample comprises approximately half of their clients. So, one can gather that about 255 women had an abortion through the IFPA in 2019.

The majority of them (52pc) were in their 20s. This is in line with the demographic characteristics of the Irish residents who had an abortion in England in 2018. About 49pc of them were in their 20s.

Irish women who went to England in 2019, after the legislation came into effect in Ireland, were generally older. Only about 34pc were in their 20s.

The most significant difference is with the 35-39 age cohort. They represent 24pc of those who went to England in 2019 (17pc in 2018) but they were only 14pc of the IFPA clients.

The over 40 age cohort is also smaller among the IFPA clients (7pc), compared to Irish women who had abortion in England in 2019 (15pc), but almost the same as in 2018.

With regard to previous pregnancies resulting in live births, there was no difference between those who travelled to England and those who availed of the IFPA abortion services. 49pc of them were already mothers in both cases.

About 32pc were using contraceptives when they became pregnant.

Roughly half of IFPA clients were referred for ultrasound scanning to confirm the gestational age, which is not required by law. Those who had passed 9 weeks were referred for the hospital or for the English clinics if they were outside the legal gestational limit of 12 weeks.

4.5pc of women who were given the abortion pills by the IFPA experienced complications and were referred to hospital for treatment.

In 10pc of cases the pills failed and the pregnancy tests showed positive. (Some could be false positive) This rate is quite high. One-third of them was then referred to hospital.

The IFPA report notes there is no mechanism in place at present for the collection by the State of data which are essential to monitor and evaluate abortion in Ireland.

This omission was deliberate at the time the legislation was written. There was a clear attempt to keep the provision of abortion as secretive as possible.

It is a shame that the most informative report about abortion in Ireland comes from a private clinic, which has clear vested interests, rather than an independent public agency.

Hopefully, this will be changed next year, when the legislation will be reviewed.

venerdì, novembre 20, 2020

giovedì, novembre 19, 2020

A new campaign to expand the grounds for abortion in Ireland

 The Irish abortion law is to be reviewed next year and the campaign to expand its grounds has already started.

A recent newspaper article presented the tragic story of an unborn baby who had received a diagnosis of a chromosome abnormality. As this diagnosis fell outside the terms of the Irish abortion law, the parents of the baby went to England to have a termination. 

The tone of the article and the comments that it received from pro-abortion activists, indicate that they desire to include, as grounds for abortion, also cases of serious but not-fatal disabilities. Two more articles, written by three medical researchers based in Cork, go into the same directions. 

Before the abortion referendum, cases of what are improperly called “fatal foetal abnormalities” (FFA) were often presented during public debates, even if these cases count as a tiny percentage of the overall number abortions. (1.5pc according to the official Irish 2019 report)

What is considered a FFA is not clear, as it is not a medical definition, and so the strategy of the pro-choice side has been to constantly enlarged this concept.

In December 2017, the Oireachtas Committee on the Eighth Amendment recommended abortion “without gestational limit where the unborn child has a foetal abnormality that is likely to result in death before or shortly after birth.” (2.13)

In February 2018, Minister Simon Harris presented a drafted legislation that would allow abortion without any time limit if “there is present a condition affecting the foetus that is likely to lead to the death of the foetus either before birth or shortly after birth”.

It should be noted the first change from “result to death”, as per the Committee report, to “lead to death”, as per the drafted legislation. 

As we will see, at every step the concept of what condition should be considered “fatal” expands and becomes more flexible. 

Many believed that that drafted legislation would become the law and they voted accordingly. 

But, Together for Yes, the umbrella organization that campaigned to remove the constitutional protection of the unborn, supported abortion also for [abnormalities that are not fatal](https://ionainstitute.ie/together-for-yes-appears-to-support-abortion-for-non-fatal-abnormalities/),and this continues to be their target.

After the referendum, Minister Simon Harris changed the definition of FFA once again.

In the legislation approved in December 2018, abortion is permitted even when the foetus can survive up to 28 days. “Fatal condition”, which in the draft legislation meant a death expected “before or shortly after birth”, now applies also to a death expected to occur within 28 days from birth.

Nonetheless, the pro-choice side was not satisfied with this limit at the time and now they are trying to change it again

In February this year, three medical researchers from UCC published a paper lamenting the fact that the current legislation does not include a list of fatal conditions, and sometimes there is a combination of anomalies that could have fatal outcomes, even if they when considered individually would not qualify for an abortion.

The same researchers published a paper in September in which they interviewed ten doctors who perform abortions in Ireland. Those doctors said that they are afraid of being prosecuted if the FFA diagnosis is incorrect. (This happened, for instance, in the Holles Street Maternity Hospital).

A diagnosis being fatal “depends on an individual definition of what is fatal. Relating to prognosis, participants identified that ‘there is never any certainty’ when death will occur, that there is always an ‘outliner’ (a baby that will live longer than expected). A couple of doctors commented on the relief experienced when the baby dies, confirming their diagnosis was ‘right’.”

This is shocking and disturbing, even if limited to a small number of abortionist doctors. Those doctors, and also the authors of the study, want to remove the 28-day time limit of the current legislation, so that abortion would be permitted for a broader series of conditions that are serious but not always fatal. 

As there is no gestational limit in the legislation for those abortions, they could take place quite late in the pregnancy, with the concrete possibility that the baby survives the termination and is born alive. Then, what should be done if this happens?  Should the baby be killed after birth or should it be cared until natural death occur? Bear in mind that they could survive way beyond 28 days.

This is a dilemma that the abortionist doctors are already facing, according to the UCC study. Half of them experienced conflict with neonatologists as it is “unclear as to who will look after those babies if a baby is born alive following a termination by induction and without feticide, resulting them (the abortionists) begging people to help them in providing palliative care.  …. Some expressed that feticide needed to be mandatory for late gestations because it was in the best interest of the baby not to be born alive. A couple of doctors advocated that feticide should be a parental choice.”

This is the grim reality of late term abortions. It is unbelievable that some want to expand the current statutory limits but, as we have seen, the slippery slope is real. The next step, after removing the 28-day time limit, will be euthanasia for the newborns.

When the legislation will be revised next year, will politicians have the courage to resist the endless requests of the pro-choice lobby and stop this deadly barbarity? 


mercoledì, novembre 18, 2020

La desolazione di una tomba profanata


Circola un video in rete, una testimonianza spontanea, di alcuni uomini in uniforme azeri che, esaltati dalla loro vittoria, si divertono ad abbattere e profanare una tomba monumentale in Armenia. In questa testimonianza visiva, che si accosta in maniera stridente a quella delle colonne di cittadini armeni che si recano per l’ultima volta a visitare gli antichi monasteri della regione prima di abbandonare, forse per sempre, la terra dei loro avi, si può delineare brevemente tutto lo squallore del mondo che stiamo costruendo. Si faccia però attenzione, perché il conflitto in Armenia non può essere banalizzato in una contesa religiosa tra due fedi: profanare luoghi di culto e soprattutto tombe, poco a che fare con la tradizione islamica, basata invece sul rispetto della fede delle altre “genti del libro”, mentre ben più si presta ad essere il segno di un neo-ottomanesimo, nato dalla volontà di potenza di Recepp Tayyp Erdoğan, il presidente della Turchia, e dalle ambizioni regionali di Ilham Aliev, capo di stato assoluto dell’Azerbaijan. Non di fede, di valori o di identità si parla quando ci si accanisce così barbaramente contro la testimonianza fisica della memoria di un morto, ma bensì di una modernità liquida fatta di status symbol e di apparenza, per cui regimi come quello in Azerbaijan prosperano indisturbati con “l’amicizia” dell’Europa, comprata al prezzo di lucrose esportazioni di gas e sponsorizzazioni mirate a squadre di calcio e formula uno, mentre la resistenza disperata dei soldati armeni, che stavano difendendo il loro paese da un’aggressione esterna, viene messa a margine dalla cronaca e obnubilata dalla memoria ufficiale dell’opulento vecchio continente. Certo, gli azeri e i turchi sono stati, al di là di ogni dubbio, estremamente capaci nel condurre una campagna militare in un periodo in cui tutte le grandi potenze e i grandi attori internazionali erano, e sono, impegnati a farei conti con il coronavirus 19, ma sta di fatto che ciò non può costituire una giustificazione alla scandalosa passività mostrata dai paesi europei nei confronti della vicenda. Non può esserlo perché l’Armenia, un’ area geografica che di fatto rappresenta la culla della civiltà europea, aveva cercato di costruire un’identità geopolitica genuinamente euroasiatica, quindi in equilibrio tra la Federazione russa e l’Unione europea, cercando attivamente un avvicinamento a quest’ultima; non può esserlo perché l’Armenia è di fatto, per motivi geografici, politici e culturali, alle porte dell’Europa, e non è sano un mondo in cui ci si “abbraccia da soli” pensando al presunto risultato delle elezioni negli Stati uniti, e si ignora la colata di lava che preme contro l’uscio di casa; Non può esserlo perché noi, in quanto europei, dovremmo lasciare che a guidarci siano dei valori, non delle semplici considerazioni utilitaristiche, e dovremmo scegliere con cognizione di causa di tracciare una linea definita e identitaria nella nostra politica estera e interna, piuttosto che chinare il capo alle decisioni del capo guerriero di turno. Eppure, così e stato. In questa nuova dei pochi coraggiosi contro i molti, noi abbiamo preferito lasciar fare, distrarci ammirando l’esibizione del giullare di turno. I campi di battaglia insanguinati risuonano della vergogna del silenzio di un Europa che evidentemente non ha altri valori cari che non siano i conti e le cifre dei libri contabili; una comunità di stati che rifiuta categoricamente di spingere la propria visione a più di qualche anno nel futuro e di costruire un’identità nuova, che colleziona fallimenti su fallimenti laddove gli egoismi dei suoi stati più influenti inevitabilmente condizionano il consolidamento del futuro. Le valli delle montagne del Nagorno-karabakh si agitano tra le colonne di profughi armeni in fuga e quelle dei nuovi padroni azeri in attesa di ricevere il loro bottino, ma a noi qui poco importa. E la nostra vergogna resta silenziosa e desolante, come quella tomba profanata.

Andrea Giumetti

 

da www.domus_europa.eu

lunedì, novembre 16, 2020

Dalle illusioni sovraniste di Trump alle illusioni della sinista sul "nuovo corso americano"


Gladden Pappin, professore all’Università di Dallas e cofondatore della prestigiosa rivista American Affairs, intervistato da Il Giornale del 12 novembre scorso ha spiegato le trasformazioni intervenute nel mondo politico americano con l’avvento sulla scena di Donald Trump. A suo giudizio il trumpismo ha modificato l’Old Party, ossia il partito repubblicano, in una forza a tendenza populista e sovranista con forti attenzioni al sociale nell’ottica di una politica economica protezionista e quindi antiglobalista.

Il “Partito Repubblicano è diventa(to)”, ha affermato Pappin, “la voce di un conservatorismo sociale, delle varie etnie, della classe operaia rimasta, contro le pressioni dei media, al fianco di Trump negli ultimi quattro anni. Diversi senatori repubblicani, soprattutto Marco Rubio (Florida) e Josh Hawley (Missouri), nonché personalità televisive come Tucker Carlson di Fox News, hanno abbracciato la nuova direzione del conservatorismo sociale. Una visione conservatrice di successo dovrebbe garantire il bene comune con una forte politica industriale e per le famiglie”.
Il sito gliStatiGenerali ha pubblicato l’8 novembre scorso uno studio, a firma di Paolo Natale, sulle scelte dell’elettorato statunitense. Da questa indagine è venuto fuori che mentre le città e l’alta borghesia colta, quella cosmopolita e liberal, hanno votato per Biden, le periferie, le zone rurali, quindi il ceto più povero e la piccola e media borghesia, hanno votato per Trump. Lo scenario così delineatosi è quello di un’America divisa nello scontro tra l’élite radical-chic e la popolazione più esposta alla destabilizzazione sociale causata dalla globalizzazione.
Non si tratta, dunque, soltanto dell’“ignoranza” del popolo meno istruito, come scrivono i commentatori di sinistra allineati alla narrazione mainstream. Infatti, Federico Rampini, inviato negli Stati Uniti per Repubblica, uno degli opinionisti di sinistra più onesti ed intelligenti ma fuori dal coro, profondo conoscitore della società americana e delle sue dinamiche, autore di un libro La notte delle sinistra che ha demolito i miti globalisti ed “arcobaleno” dei liberal americani ed europei dimostrando ad essi la deriva verso la quale naviga una sinistra strumentalizzata dal grande capitale finanziario transnazionale, ha criticato, in una recente puntata del talk show televisivo “Piazza Pulita”, sul canale La7, l’atteggiamento di chi, nei riguardi dell’elettorato di Trump, parla di “volgare plebe sanfedista”. Rampini ha fatto osservare che Joe Biden è un neoliberista il quale sia con Clinton sia con Obama ha appoggiato le peggiori politiche liberoscambiste, che hanno prodotto le delocalizzazioni industriali e l’impoverimento dei ceti popolari, sicché se ora il voto dei ceti più deboli è diretto in America a Trump ed in Europa a sovranisti come la Le Pen o la Meloni è perché essi, contestando, in nome delle identità nazionali, la globalizzazione, difendono anche gli interessi popolari contrari a quelli del capitalismo apolide.
C’è del vero in questo genere di analisi. Il trumpismo non è il reaganismo né il bushismo. Trump ha fatto appello ai ceti indeboliti dalla globalizzazione, alla middle class defraudata del “sogno americano”, ossia del posto sicuro e della villetta con entrata separata e garage, ma anche alla working class destabilizzata dalle delocalizzazioni industriali e dalla finanziarizzazione dell’economia intervenuta nel trentennio dei Clinton, dei Bush e degli Obama. Un trentennio del quale un film di qualche anno fa – che raccontava la storia di un quadro intermedio di una azienda americana costretto per non perdere il lavoro a tentare di vendere oggetti quasi fuori mercato trascinandosi dietro il figlioletto e dormendo nei dormitori pubblici avendo perso la casa – rappresentò lo spaccato. Indubbiamente la globalizzazione – quasi offrendo una postuma rivincita a Karl Marx – ha distrutto il ceto medio ed ha aumentato la forbice tra ricchi e poveri anche in Occidente e non solo quella tra primo e terzo mondo.
Il trascorso successo di Trump e la sua rimonta elettorale, che ha dimostrato come il populismo trumpiano non è affatto morto – infatti non c’è stata l’ondata blu pronosticata dai sondaggisti e dai media –, hanno acceso l’entusiasmo dei sovranisti nostrani che interpretano il trumpismo alla stregua di qualcosa di simile a ciò che da noi si chiamerebbe “destra sociale”. Una esegesi, però, in parte erronea, soprattutto nei riguardi della politica estera praticata da Trump, perché l’analogia tra il trumpismo ed il sovranismo sociale, in certi casi come in quello del francese Melenchon addirittura socialista, è molto vaga dato che il fenomeno Trump, pur provenendo da una antica radice populista presente sin dal XIX secolo nella cultura politica statunitense e della quale fu in qualche modo espressione anche il grande Ezra Pound, non ha alle sue spalle la stessa storia politica, così fortemente intrisa di socialismo a-marxista, degli ascendenti “fascisti” del nostro sovranismo.
Di sicuro, la politica estera mediorientale di Trump – ma sarebbe meglio dire di sua figlia Ivanka e soprattutto di suo genero Jared Kushner, vicino alla destra religiosa evangelica americana ed a quella fondamentalista ebraica nonché lui stesso di origini ebraiche – è del tutto lontana dal milieu culturale nel quale affonda, o dovrebbe affondare, il sovranismo italiano ed europeo ed è assolutamente contraria ai nostri interessi geopolitici quali italiani ed europei mediterranei. Un aspetto della questione che tuttavia non viene quasi mai preso in considerazione dal nostro sovranismo al quale piace cercare sponde oltreatlantico invece che guardare alle sponde, per storia nazionale e cultura politica più confacenti, della Russia e dei Paesi che nel vicino oriente non accettano l’egemonia atomica di Tel Aviv. Il riconoscimento trumpiano di Gerusalemme quale esclusiva capitale dello Stato di Israele è stato uno schiaffo in faccia non solo all’islam, sunnita quanto sciita, ma anche a milioni di cristiani, di tutte le confessioni, senza che nessuno tra i nostri sovranisti, in particolare tra quelli catto-sovranisti, abbia avuto alcunché da ridire.
L’unico aspetto della politica estera di Trump, e non lo diciamo per incensarlo, sovranisticamente ed europeisticamente interessante era piuttosto la sua tendenza verso l’isolazionismo. Una tendenza storicamente tipica dei repubblicani laddove i democratici sono sempre stati, al contrario, molto imperialisti ed interventisti. Se l’Europa fosse stata qualcosa di più di un coacervo di interessi bancari avrebbe dovuto caldeggiare la sua rielezione nella prospettiva, però, dell’indipendenza degli Stati europei dalla Nato, che Trump ha dato mostra di porre in secondo piano, e del rafforzamento di una realtà europea di natura primariamente politica. Purtroppo l’UE è solo aria fritta. L’unica preoccupazione della Germania, ossia della nazione leader nell’UE, durante la presidenza Trump è stata quella di contrastare la politica daziaria americana che metteva in crisi un’economia, quella tedesca, costruita intorno ad un aggressivo mercantilismo volto alle esportazioni.
Ma se quelle sopra esaminate sono state le ragioni del successo politico di Trump, chi ora applaude alla sua sconfitta elettorale credendo che siamo agli inizi di un New Deal, di un nuovo corso, tutto dedito alla costruzione di un mondo multiculturale, pacificato nella giustizia sociale ed internazionale, attento verso i poveri e gli ultimi, che abbia cura del clima e della terra, è soltanto un illuso che ha abboccato alla canonizzazione mediatica, su scala globale, che è stata fatta della coppia Joe Biden-Kamala Harris.
I commentatori, gli opinionisti, la gente in piazza festeggiante la vittoria (che tuttavia non è stata ancora ufficialmente acclarata) di Biden hanno dimenticato chi è veramente Joe Biden. Qualcuno tra i guastafeste ha scritto che chi ha festeggiato la vittoria di Biden, credendo al successo di un difensore dei deboli, è come quel marito cornuto che ringrazia l’amante della moglie. Tuttavia la pressione mediatica è talmente forte che persino Papa Francesco, non mostrando alcuno scrupolo nei riguardi del dichiarato filo-abortismo del candidato che ha vinto le elezioni statunitensi, sembra aver dato per scontato un Biden tutto per i poveri e gli ultimi della terra.
Orbene, il Biden reale è molto diverso da quello ideale. La sua campagna elettorale è stata finanziata dalle maggiori multinazionali mondiali perché la politica protezionista di Trump contrastava con i loro interessi globali. I poveri, ossia i ceti deboli impoveriti dalla globalizzazione, non hanno votato Biden. Le sue linee di politica estera, inoltre, prevedono un rafforzamento del globalismo a trazione americana senza escludere guerre umanitarie contro i violatori del Nuovo Ordine Mondiale Capitalistico.
Sotto questo profilo, ed in linea con il tradizionale espansionismo democratico in politica estera, Biden rappresenta il volto interventista e “missionario” dello spirito puritano degli Stati Uniti. Questi sono nati all’insegna del puritanesimo per il quale l’America era la terra promessa del nuovo popolo eletto, l’unica terra di purezza incontaminata in un mondo sotto il dominio del diavolo (“papista” o “falso protestante”). Una purezza che doveva essere preservata dagli influssi esterni. Da qui l’isolazionismo dei conservatori americani. Ma nella teologia politica puritana esiste anche un rovescio della medaglia. Se l’America era la terra incontaminata della giustizia essa aveva l’obbligo missionario di purificare il resto del mondo esportando il suo primato. Qui è il nocciolo duro della “dottrina Monroe” e dell’interventismo democratico.
Il banditore forse più noto dello spirito missionario statunitense è stato Thomas Jefferson, terzo presidente democratico degli Stati Uniti dal 1801 al 1809. Egli vinse le elezioni con il partito democratico-repubblicano, come si chiamava all’epoca, contro i federalisti di Adams. Jefferson era solito riferirsi ai neonati Stati Uniti come l’Empire of Liberty. Può a ragione ritenersi tra i padri nobili del cosiddetto “internazionalismo liberale” per il quale gli Stati Uniti hanno il diritto-dovere di espandere il loro sistema sociale ed il loro modello politico nel resto del mondo. Nel pensiero jeffersoniano, il sistema americano in quanto benedetto da Dio è superiore a tutti gli altri.
Da Jefferson in poi la politica americana, salvo alcune fasi di ritorno all’isolazionismo, ha sempre seguito la dottrina dell’internazionalismo liberale nutrita dalla concezione messianica degli Stati Uniti quale, appunto, impero della libertà in lotta senza quartiere contro le forze del male. Tutti gli interventi politici e militari americani sono stati giustificati da tale spirito missionario, anche quando le iniziali motivazioni religiose vennero meno secolarizzandosi. A pagarne le conseguenze fu per prima l’America Latina, il “giardino di casa degli Stati Uniti”, e poi il resto del mondo. Da Woodrow Wilson, che propagandava l’intervento statunitense nella prima guerra mondiale come la crociata della libertà contro i residui medioevali in Europa, a Ronald Reagan che chiamava l’Unione Sovietica impero del male, fino alle guerre umanitarie per esportare la democrazia di G.W. Bush agli inizi di questo millennio, la politica estera americana ha sempre espresso l’originario spirito conquistatore e missionario ispirato dai Padri fondatori.
Joe Biden appartiene in pieno a questa storia ed a questa cultura, benché sia cattolico, ma progressista, e non protestante. Tutti gli atti della sua lunga carriera politica stanno lì a dimostrarlo. Durante la presidenza Obama, del quale era vicepresidente, ebbe un ruolo fondamentale nelle guerre intraprese dagli Stati Uniti. Ma decisivo fu il suo ruolo anche nell’era Clinton. Fu lui a convincere Clinton, inizialmente più prudente, ad intervenire nello scenario iugoslavo, come ha ricordato il sito Eurasia Review che lo ha definito “uno dei principali architetti della guerra di Bosnia dell’amministrazione Clinton negli anni ’90”. Nell’era di George W. Bush, pur essendo fuori dal governo, il senatore Biden fu un fervente sostenitore della guerra al terrore per l’abbattimento del regime di Saddam Hussein contribuendo anche a dare credito pubblico alle fake news sulle “armi di distruzione di massa” possedute dall’Iraq.
Quale vicepresidente di Obama, Biden ha seguito da vicino la politica estera statunitense concorrendo con Hilary Clinton a rafforzare l’egemonia mondiale americana attraverso le cosiddette “rivoluzioni colorate”, finanziate e foraggiate dal governo americano dal 2008 al 2016. Il risultato di tale politica lo abbiamo sotto i nostri occhi, a partire dalle conseguenze nefaste delle “primavere arabe”, che hanno sconvolto il Medio Oriente ed il Nord Africa, fino all’appoggio al terrorismo salafita in Siria per rovesciare Bashar al Assad aprendo uno spazio per l’Isis creatura dell’alleato saudita. Per non parlare, poi, della rivoluzione ucraina di piazza Maidan, della nuova guerra fredda con la Russia di Putin, della prosecuzione delle guerre occidentaliste in Yemen, Pakistan e Afghanistan o della guerra commerciale dei gasdotti per far naufragare il progetto del South Stream.
Biden, però, è un ottantenne che governerà in diarchia con Kamala Harris, sua prossima vicepresidente, nominata a tale incarico per accontentare l’estrema sinistra dei democratici e che il mediasystem globale ha già beatificato. La nuova “santa”, tale non perché vergine né perché martire ma addirittura – udite, udite! – perché “prima donna a diventare vicepresidente degli Stati Uniti”, sarà in effetti, vista l’età avanzata di Biden, il vero occulto presidente del nuovo corso democratico.
Il sito Geopolitical News ha fornito una summa delle idee alquanto belliciste della Harris che come la Clinton, e più di lei, interpreta il ruolo politico degli Stati Uniti nel mondo nei termini della crociata del bene contro il male. Veniamo così a sapere che le idee di politica estera della Harris, condivise da Biden, prevedono i seguenti scenari:
– rafforzamento del contenimento della Russia, dato che quello impostato da Trump viene ritenuto dalla Kamala troppo morbido;
– contenimento dell’espansionismo economico della Cina mediante azioni diverse dalla guerra commerciale di Trump, dannosa per l’economia americana, ma volte allo stesso scopo di riduzione delle pretese di Pechino;
– linea dura con la Corea del Nord, ponendo fine ai tentativi di Trump per un dialogo con Kim Jong Un;
– linea dura con il Venezuela per il cambio di regime detronizzando Nicolas Maduro, anche intervenendo direttamente dato che la politica delle sanzioni di Trump non si è dimostrata efficace;
– potenziamento dell’Alleanza Atlantica proseguendo nella linea di spostamento della cortina di ferro da Berlino a Varsavia;
– prosecuzione dell’agenda per Israele di Donald Trump;
– non esclusione del ricorso, se necessario, a bombardamenti preventivi contro le strutture nucleari tanto di Teheran che di Pyongyang, benché Biden sembra voglia riannodare le fila dell’accordo sul nucleare dal quale si ritirò Trump;
– abbattimento definitivo del regime di Assad in Siria anche per porre rimedio alla politica di Trump che ha permesso alla Russia ed all’Iran di invertire le sorti del conflitto;
– pressione sulla Turchia per un cambio di schieramento;
– rafforzamento del tradizionale sodalizio tra Partito Democratico e certe organizzazioni islamiche come quella dei Fratelli mussulmani, che non a caso hanno già fatto gli auguri a Biden, per utilizzarle come arma di pressione in Medioriente contro i governi scomodi.
Insomma, dopo i festeggiamenti per l’elezione di Joe Biden, aspettiamo nel prossimo futuro i botti. E non saranno certo quelli dei fuochi d’artificio.

LUIGI COPERTINO

domenica, novembre 15, 2020

 Il secondo movimento del piano concerto in Fa diesis minore di Scriabin è qualcosa di sublime.




martedì, novembre 10, 2020

Difference between men and women in moral judgements


Women and men are different in their moral judgements, a new study found, and they are more different in gender-egalitarian societies than in less egalitarian ones. 

Women and men are different, not only physically, but also psychologically, in terms of moral concerns and social preferences. Those differences vary across cultures. 

A new study, involving more than 330,000 participants from 67 countries, focused on five values (i.e. care, fairness, loyalty, authority and purity), and investigated how sociocultural development and gender equality affect the differences between the two sexes with regard to moral judgements.

The study, from the University of Southern California in Los Angeles, found that women score higher on care, fairness and purity, while men score higher in loyalty and authority. 

This is in line with previous similar studies and confirmed that men are more worried about social order and the maintenance of group bonds, while women are more focused in the well-being of individuals. 

There are two basic theories that explain those differences across cultures. Social Role Theory claims that “gender stereotypes and norms follow from people’s observations of women and men in their social roles”. This theory predicts smaller sex differences in gender-equal societies, where individuals are less constrained by social expectations and can act according to their true nature. 

The alternative theory, called Evolutionary Psychology, claims that during evolution humans, similarly to other animals, have developed different adaptive characteristics so that “women endorse, more strongly than men, moral values that promote parental care and compassion towards offspring (care) and moral values that prohibit unrestricted sociosexual orientation (purity)”. 

The recent study from California is the first cross-cultural investigation of such a large scale. It found that everywhere women score higher on care, fairness and purity, while “sex differences in loyalty and authority are quite variable across cultures”. 

Moreover, in cultures that are more collectivist, with more men than women, and are less WEIRD (Western, Educated, Industrialised, Rich and Democratic), the sex difference in care becomes smaller. This is another way to say that in more egalitarian Western cultures, men are less concerned with care and morality while in traditional cultures with fewer women, “men are more likely to focus on family values, long-term relationships, parenting, and caring for offspring since opportunities for short-term mating is scarce”. 

Previous studies had found that females score higher in empathy (ability to recognise another person’s mental state) while men are better in systemizing (drive to analyze or build a rule-based system). 

The novelty of this study is that it claims that the magnitude of sex differences, in the whole world, is larger than previously thought. Men and women are naturally different, no matter what cultures they live in, and this difference appears in their moral values and judgements. 

Also, the new study claims that in countries where men and women have equal access to health and education, the difference in the moral judgements of the two sexes increases. “Women and men are more different in their moral judgements in gender-egalitarian societies compared with less egalitarian ones”, the authors write. This is in contrast with the prediction of the Social Role Theory. 

In other words, gender is also a social construct but when individuals are less constrained by society, the differences between men and women, with regard to their moral values, intensify. Cultural institutions coevolved with innate psychological characteristics that are common accross cultures. 


lunedì, novembre 09, 2020

8 NOVEMBRE 1620: “LA BATTAGLIA DELLA MONTAGNA BIANCA”

 8 NOVEMBRE 1620: “LA BATTAGLIA DELLA MONTAGNA BIANCA”

(liberamente tratto dal libro di F. Cardini, Praga. Capitale segreta d’Europa, Bologna, il Mulino, 2020, in libreria dal 5 novembre u.s.)

Tante cose, nella nostra storia europea, hanno trovato inizio proprio qui, sulle rive della Vltava, a Praga: dalla riforma del Sacro Romano Impero nel 1356 al magistero il Jan Hus che fu tutt’altro che un “anticipo” della Riforma protestante ma che al contrario, se il grande predicatore boemo fosse stato più e meglio ascoltato, avrebbe potuto evitarla, al presentarsi della forma forse più prestigiosa – insieme a quella spagnola – del barocco europeo, alla scrittura di alcuni dei capolavori della musica mozartiana e di quella romantica, alle versioni più affascinanti dello Jugendstyl, ad alcuni fra i più begli esempi di letteratura e di musica del nostro Otto e Novecento. Saremmo tutti europeisti migliori, se conoscessimo un po’ meglio la storia di Praga. Non ci sono stati solo il Golem e il buon soldato Švejk.
Ma lì sono accadute anche terribili tragedie. È a Praga che ha avuto inizio quell’infame carneficina fratricida che fu la “guerra dei Trent’Anni” fra 1618 e 1620.
Dopo la dieta generale degli “stati” dell’impero a Linz indetta nel 1614, che avrebbe dovuto ridefinire la compagine del Reich messa a dura prova dagli ultimi, disastrosi anni del governo di Rodolfo II d’Asburgo e da quelli del fratello Mattia, dalla tensione crescente tra la maggioranza protestante e la minoranza cattolica emerse nel 1619 l’elezione a re di Boemia e d’Ungheria del quarantenne Ferdinando duca di Stiria, nipote di Ferdinando I, allievo della Compagnia di Gesù ed esponente di un cattolicesimo restìo ai compromessi con protestanti e Fratelli Boemi.
Il nuovo deciso indirizzo, sostenuto dal gran cancelliere Zdanek von Lobkowicz, si scontrò con i leaders più radicali dello schieramento opposto: Václav Budova della Chiesa dei Fratelli Boemi e il luterano conte Mathias Thurn. La decisione delle autorità cittadine di far radere al suolo due cappelle protestanti abusivamente sorte su terre appartenenti alla comunità cattolica scatenò un incidente memorabile.
Fu la grande “Defenestrazione di Praga”. Il 23 maggio del 1618 i membri degli “stati” invasero il Hrad, il Castello alto sulla riva sinistra del fiume, e gettarono letteralmente fuori da una delle sue grandi finestre rinascimentali i due governatori cittadini, Vilem Slavata di Chlum e Jaroslav Borita di Martinic insieme con un segretario, Johannes Fabricius. Pare che un mucchio di letame, “accidentalmente” collocato proprio sotto la fatale finestra, attutisse la caduta dei tre che dovettero cavarsela con molta paura, moltissima umiliazione e magari qualche osso rotto. I cattolici si affrettarono a far circolare la voce che ad aver salvato la vita dei tre malcapitati fosse stato l’intervento miracoloso della Vergine Maria: idea involontariamente poco felice, vista la causa materiale della loro sopravvivenza che finiva con l’assimilare il suo mantello a una carrettata di rifiuti. Su tutto l’evento germogliò un florilegio di leggende metropolitane e di battute salaci e crudeli. La coincidenza del letame proprio in quel momento e in quel punto farebbe quasi pensare a una messinscena accuratamente preparata. Il fatto che i defenestratori fossero prevalentemente nobili tedeschi rappresentanti degli “stati” e i defenestrati fossero cechi determinò l’affermarsi, specie in età romantica, che alla base dell’episodio vi fosse l’odio o quanto meno la tensione fra le due comunità: ma sembra molto anacronistico l’affermarlo. Si trattò di una rivolta degli “stati”, sostenuti dalla plebe praghese, contro l’autorità regia. Scoppiò immediatamente in città un tumulto culminato in assalti ad alcuni edifici religiosi, in massacri di religiosi soprattutto francescani, in un attacco contro il ghetto dal momento che agli ebrei, oltre l’usura – una pratica ch’essi condividevano con i loro colleghi banchieri cristiani –, si rimproverava la costante protezione da parte della monarchia.
Quando il 25 maggio gli scabini della città dovettero dichiarare, molti di loro a denti stretti, la loro adesione alla rivolta, il carattere confessionale ch’essa aveva assunto fin dall’inizio andò definendosi e strutturandosi in progetto politico. Gli “stati” espressero un direttorio di trenta loro esponenti – dieci per ciascuno di loro: gli alti aristocratici, la piccola nobiltà, le città – e dettero vita a una “Confederazione boema” che oltre alla Boemia vera e propria comprendeva la Moravia, la Slesia, la bassa e l’Alta Lusazia. Il modello era costituito ovviamente dalle province Unite dei Paesi Bassi, un partner molto presente anche a livello socioeconomico, e l’indirizzo che andava emergendo insistente era sempre più quello calvinista. La Compagnia di Gesù, il cui istituto Clementinum era stato da poco insignito del rango di Studium generale, fu cacciata alla città.
Quando nell’estate 1619, morto Mattia, Ferdinando II di Boemia e Ungheria divenne anche re di Germania e dei romani, cioè “imperatore eletto”, gli “stati” ribelli risposero eleggendo a loro volta un antiré nella persona di un giovane principe calvinista, Federico del Palatinato, leader dell’Unione Evangelica dell’impero. Era stata una mossa – contrariamente a quel che immediatamente sostennero i cattolici – ispirata a prudente moderazione: l’ala più radicale degli “stati” avrebbe preteso una repubblica guidata collegialmente dal direttorio. E d’altronde, a garanzia della moderazione della scelta, c’era il fatto che Elisabetta Stuart, consorte di Federico, era figlia di Giacomo I d’Inghilterra che non avrebbe mai appoggiato un movimento repubblicano.
L’antiré fu incoronato nella cattedrale di San Vito il 4 novembre 1619; ma poco tempo dopo i suoi seguaci calvinisti s’impadronirono nella cattedrale profanandola, saccheggiandola, distruggendo immagini e reliquie e perfino organizzando all’interno dell’edificio sconsacrato una specie di banchetto che a loro modo di vedere sanciva la fine di un diabolico culto pagano, mentre secondo non solo i cattolici ma perfino i Fratelli Boemi e i luterani costituiva uno spettacolo desolante che umiliava un tempio sacro alle più gloriose memorie boeme. Non paghi di tutto ciò, i calvinisti cercarono anche di distruggere il calvario eretto sul Ponte di Pietra. Era troppo per i praghesi che, indignati, rifiutarono a Federico un prestito che gli avrebbe consentito di pagare i suoi mercenari.
La risposta fu pronta. Attorno all’imperatore si costituì una lega protagonisti della quale erano non solo i suoi parenti Asburgo di Spagna ma altresì il papa, i cattolici del Reich, un contingente francese nel quale militava anche un giovane destinato alla gloria filosofica, René Descartes; comandava l’armata Massimiliano duca di Baviera. Lo scontro avvenne l’8 novembre 1620 poco a ovest di Praga, quasi alle porte della città, presso una collina ch’era anche una cava di marna di color chiaro e ch’era perciò detta Bilá Hora, la “Montagna Bianca”. I protestanti non erano più di 21.000 ma occupavano una posizione vantaggiosa, tra il culmine della collina e il padiglione di caccia detto dalla sua forma geometrica Hvězda, “la Stella”; i 27.000 cattolici dovettero ascendere il colle combattendo, ma in un paio d’ore sbaragliarono il nemico ricacciandolo in rotta disordinata sulla via di Praga. Là asserragliati, gli evangelici guidati dall’animoso conte Thurn avrebbero potuto ben resistere entro la nuova, ben munita cinta muraria della riva destra. Ma la ferita della profanazione di San Vito dell’anno precedente non era ancora rimarginata, né i praghesi avevano voglia di combattere per un sovrano che non sentivano come il loro. Né il sire del Palatinato si dimostrò all’altezza della situazione: se la dette precipitosamente a gambe, trascinandosi dietro tutto quello ch’era riuscito ad arraffare nel Hrad. Da allora in poi, lo chiamarono “il Re d’un solo Inverno”. E non era un appellativo glorioso.
D’altronde, se i mercenari dell’Elettore Palatino si erano comportati male, non è che le truppe del duca di Baviera furono da meno (o da meglio). Entrati in Praga forse non proprio accorti con entusiasmo, tuttavia senza colpo ferire, si abbandonarono a un saccheggio durato cinque giorni e sottoposero a riscatto l’intera cittadinanza senza badar a distinzioni etniche o religiose. Tedeschi e cechi, cattolici ed evangelici, tutti furono spremuti e umiliati. Quel che non aveva potuto portar via Federico, se lo portò Massimiliano a Monaco. Intatto e indenne restò solo il quartiere ebraico, tutelato da una speciale ordinanza imperiale che fu accompagnata dalla conferma a due riprese, nel ’23 e nel ’27, dei privilegi accordati alla comunità. Il che spiega il lealismo degli ebrei di Praga nei confronti della casa d’Asburgo, ma anche la crescente animosità dei praghesi contro di loro. Del resto, non è che la generosa protezione imperiale fosse stata proprio gratuita.
A questo puto l’imperatore Ferdinando avrebbe potuto, forse dovuto, comportarsi almeno formalmente come “padre” del suo popolo. Il maldestro, incauto Rodolfo lo avrebbe fatto; e magari anche Mattia. Ferdinando però non amava Praga, che ormai aveva cessato di essere capitale dell’impero e che secondo lui, dopo il conato indipendentista e addirittura semirepubblicano, andava solo umiliata e punita. D’altronde, questo era lo spirito del tempo: il vento dell’assolutismo spirava ormai sull’Europa; e in Francia il cardinale di Richelieu si comportava nello stesso modo, stroncando qualunque conato d’indipendenza sia degli ugonotti, sia della nobiltà (quelle colombaie fatte distruggere di cui parla Alexandre Dumas…).
Punizione esemplare, quindi. Al termine di sette mesi di umiliazioni, la città intera fu chiamata ad assistere al suo Auto de Fé penitenziale. Tutto avvenne secondo un rito minuzioso. Il governatore militare Karl von Liechtenstein aveva fatto arrestare tutti i capi della rivolta e ventisette di loro vennero esemplarmente giustiziati il 21 giugno del 1621 in piena Staroměstské Máměstï, nel cuore della Città Vecchia, tra la torre del carillon e la chiesa del Týn. Con spirito di quasi ineccepibile imparzialità sia etnica, sia sociale, furono uccisi dieci tedeschi e diciassette cechi. Tutti gli “stati” socio-giuridici erano rappresentati: tre membri dell’alta nobiltà, sette cavalieri, dieci borghesi, il resto minutaglia popolana. Tutti, ovviamente, protestanti di varia estrazione: fra loro anche il nobile Budovec di Budova, capo dei Fratelli Boemi, e il conte Jachim Ondrej Slik. Aristocratici e cavalieri ebbero comunque l’onore e il privilegio di morire cum effusione sanguinis, nobilmente decapitati; gli altri furono impiccati. Tra loro v’era un “borghese” illustre, Jan Jesenius, ex rettore dell’università praghese e pioniere dell’anatomia. Siccome aveva giocato durante la “rivolta” un ruolo politico e diplomatico notevole, prima di giustiziarlo gli venne tagliata la lingua e il suo corpo venne squartato; i suoi resti, insieme con le teste di undici altri condannati, furono esposti entro gabbie di ferro sulla torre del Ponte di Pietra: vi sarebbero rimasti 10 anni, fino all’ingresso dei sassoni in città nel ’31. A evitare che la giustizia fatta potesse parere una vendetta confessionale, si era provveduto a scegliere un boia professionista, Jan Mydlar, che non era cattolico. Oggi, una targa in bronzo dorato sotto la loggia della cappella della torre del palazzo municipale, a destra guardando dell’orologio astronomico, ne ricorda i nomi; un mosaico pavimentale, poco lontano, disegna 27 croci; e 27 croci commemorative si ergono sulla “Montagna Bianca”.

venerdì, novembre 06, 2020

Ban on public worship challenged in court

 

The ban on public worship in Ireland has been challenged in court. Today, businessman Declan Ganley initiated proceedings against the Minister of Health, claiming that the current restrictions breach the constitutional right to religious freedom. This morning the judge postponed the matter until December 8.

Under the current restrictions, passed on October 22, attending a religious public act of worship could attract penal sanction because it would not be seen as a ‘reasonable excuse’ to leave home. The penal sanctions may be lifted by December 8 because Ireland may be out of Level 5 by then but if we go back to Level 3, public worship will still be against public health advice, meaning it could be months because it resumes.

This is a unique and unprecedented situation. Archbishop Eamon Martin, Catholic Primate of All Ireland, has encouraged all Catholics to make contact with their TDs to express their pain at being separated from mass and the sacraments.

In the vast majority of European countries, religious services are still permitted, with some restrictions. This includes Northern Ireland. Besides the Republic of Ireland, in Western Europe, only France, Belgium and England and Wales have completely halted public worship.

In France public worship has been suspended from November 2 to December 1. This is a relatively short period when compared to Ireland, where the ban started October 7 under level 3. (In Dublin it began in September). Still, the French Bishops’ Conference announced that it will file an urgent appeal with the Council of State, the highest administrative court, as they believe that the Government’s ban on public masses is out of proportion and “violates the freedom of worship which is one of the fundamental freedoms in our country.”

In Belgium, which is in lockdown, there will be no religious celebrations from the November 1 until December 13.

In England and Wales, public worship will cease for four weeks. Religious leaders there have asked the Government to offer the evidence to justify the decision to ban religious ceremonies during the lockdown. Numerous MPs have voiced opposition to the measures and former Prime Minister, Theresa May said it set a dangerous precedent which could be misused by a future Government. Following the debate in the House of Commons, Health Secretary Matt Hancock has hinted that the current ban on public worship would be reviewed.

In Austria, after the Government met religious leaders to discuss new restrictions, the Minister for Culture, Susanne Raab, said that: “It is important that joint practice of religion in the form of public church services will continue to be possible”.

In Germany, Chancellor Angela Merkel and the Prime Ministers of the different federal states underlined that religious liberty is a fundamental human right. Public worship will continue.

In Italy, new restrictions began today but there is been no change regarding church attendance.

Religious services are permitted in the Scandinavian countries, in Poland, Portugal, Hungary, Greece, as well as in countries currently in lockdown such as Slovenia, certain regions of Spain, Switzerland, and Ukraine.

It should be noted that in other countries, the ban on public worship was introduced with the highest level of restrictions, and for a shorter period, while in Ireland this has happened at level 3, which is the middle level. No evidence has ever been produced either by NPHET or the Government to justify this wholly disproportionate measure.

giovedì, novembre 05, 2020

All that you can leave behind




Venti anni fa usciva All that you can leave behind, uno dei miei album preferiti degli U2.

Una delle prime cose che feci quando arrivai a Dublino, nel 2002, fu visitare Windmill Lane ed il pub Docker's, ovviamente. I Windmill Lane Recording Studios si erano trasferiti a Ringsend già nel 1990 me i vecchi edifici erano lì, pieni di graffiti. 





L'intera area è ora cambiata totalmente. Gli edifici più vecchi sono stati demoliti nel 2015, sostituiti da nuovi appartementi, il pub è scomparso. Non è stato conservato nulla legato agli U2. Sono spariti i graffiti dei fan.

Sir John Rogerston's Quay è una zona che ho frequentato poco fino a quando, a settembre, ho smesso di utilizzare i mezzi di trasporto pubblici. Da allora, cammino moltissimo e per accorciare, ogni volta che vado da North Strand fino a Merrion Square, taglio lungo il Royal Canal, attraverso il Samuel Beckett bridge e passo proprio a fianco a Windmill Lane, che è molto molto diversa rispetto ad allora. Questo edificio, dietro l'angolo, è forse uno dei pochi rimasti di quelli più vecchi. Insomma, nothing has been left behind.


Home - I can't say where it is, but I know I'm going

Home - that's where the hurt is

And I know it aches
And your heart it breaks
You can only take so much
Walk on


lunedì, novembre 02, 2020

How ‘science’ was used to victimise unmarried mothers

 

In Ireland in the past, unmarried mothers and their children were harshly treated as a result of a potent brew of Victorian values and a strict application of Catholic morality. But as we will see, in other countries such as Britain and Sweden, the ‘science’ of eugenics was often applied instead, with fearsome results.

This emerges, for instance, when we consider the debate around the Mental Deficiency Act that in 1913 created the legal categories of “feeble-minded person” and “moral imbecile” in the UK. Those categories related more to the ability to behave according to social expectations, particularly with regard to sexuality, than to abnormal psychological traits. This law was not repealed until 1959.

Alfred Frank Tredgold was the most influential ‘mental deficiency’ specialist of the time. A leading member of the Eugenics Society, he wrote the ‘Text-book of Mental Deficiency (Amentia)’, the “generally accepted standard work”, according to the British Medical Journal.

In this book Tredgold presents a number of working-class young women as case studies for the diagnosis of mental deficiency. This diagnosis is clearly related, in most of the case studies, to sex and pregnancy outside marriage.

Under the Mental Deficiency Act, thousands of young women who had children outside marriage were incarcerated or put in institutions because of fears that they would otherwise become pregnant again.

As Carolyn Oldfield explains in her PhD thesis entitled, ‘Growing up Good? Medical, Social Hygiene and Youth Work Perspectives on Young Women, 1918-1939’: “While this incarceration could extend throughout women’s fertile years and after, authorities directed their efforts towards identifying and segregating adolescent and young adult women, in order to prevent what was expected to be a cycle of repeated pregnancies and short-term recourse to the workhouse”.

Josiah Wedgwood, the main opponent of the Act in the British Parliament, maintained that the legislation purposely targeted women who went into workhouses to have children. (The workhouses were often the alternative to mother and baby homes in Britain as well as Ireland).

Outside the Parliament, one of the few opponents was G. K. Chesterton, who also fought eugenics (human selection) throughout his life. He seized on the subjectivity and almost infinite elasticity of terms like ‘defective’ or ‘lunacy’.

He called the Bill “a scheme to impose all the segregation, ‘control,’ and loss of citizenship which are the tragic consequences of lunacy on a very large class of people who are not lunatics.  … the new Bill will enable officials to treat as defective infants a vast and vague multitude of grown-up people who have suffered from any one of a million unnamed accidents of daily life; a number not only indefinite but infinite. They can be seized upon any excuse or none.”

In early twentieth century, proponents of eugenics were particularly focused in identifying the “defectives” as they believed that mental deficiency could be passed from one generation to another, and consequently deteriorate the quality of the overall population.

In the UK, the eugenicists failed to secure the sterilisation of mental defectives – which Winston Churchill had advocated – due to the opposition coming from sectors of the medical profession, the Catholic Church, and the labour movement.

They succeeded instead in the Nordic countries, particularly in Sweden, and in some American states. About 170,000 forced sterilisations were performed between the 1920s and the late 1970s in Scandinavian countries. For this purpose, the Swedish Institute for Racial Biology was set up at Uppsala University in 1922. Together with sterilisation, the Nordic governments enacted marriage limitation, castration and abortion laws.

Cambridge historian Professor Véronique Mottier writes that among the victims of these policies were “socially deviant groups such as unmarried mothers”.

Tellingly, she says that while “feminists were to be found on both sides of the debate – supporting and opposing eugenics – most opposition came from liberals, who rejected state intervention in private life, and Churches, particularly the Catholic Church.”

She points out: “Social democrat reformers were amongst the pioneers of eugenic ‘science’ as well as policy practices in Europe. A number of eugenic policies such as forced sterilisation of ‘degenerates’ were strongly promoted by the Left and were first applied in countries such as Switzerland and Sweden.”

Eugenic policies also included “education programmes, non-voluntary incarceration in psychiatric clinics, removal of children from parental homes, prohibition to marry, as well as measures that specifically targeted vagrants, ‘gypsies’, and, more generally, socially deviant groups such as unmarried mothers, ‘sexual deviants’, or people with physical or mental impairments”, Prof. Mottier says.

In Canada, in 1928 the province of Alberta created a Eugenic Board that approved more than 5,000 procedures of involuntary sterilisations on people classified as “mentally deficient”, mostly women. This happened with the participation of leading scientists of the time.

In the United States, compulsory sterilisation laws were adopted by over 30 states and affected more than 60,000 individuals who were mentally disabled or belonged to socially disadvantaged groups. (See here for a comprehensive account.)

The most famous of them was Carrie Buck, a teenager who became a test case for Virginia’s new eugenics legislation, in 1924. Carrie was raped by a member of her foster family, then declared feebleminded and “probable potential parent of socially inadequate offspring”. The request for her sterilization went up to the Supreme Court of the US. Justice Oliver Holmes famously said that “three generations of imbeciles are enough”, and Buck’s case opened the floodgates of eugenics and led to involuntary sterilization of thousands of people.
 

As mentioned, sterilisation was never legislated for in the UK. Following the Mental Deficiency Act, detention in institutions was the chosen road.

Once a clear association between young women’s sexual activity and their identification as ‘mentally defective’ was established, they would be practically incarcerated without any trial or recourse to the adult penal system.

The marriage of pregnant ‘mentally defective’ girls was also discouraged because it would make them more likely to bring up their children themselves, rather than giving them for adoption. But also because the stability of marriage would encourage them to have more children and, in this way, to pass on them their “defective genes”.

The fact that those practices were common at the time does not justifies them. Nonetheless, the consideration of the broader international context helps us understanding that the institutionalisations of young unmarried mothers took place not only in Ireland and not only where the Catholic Church had influence. 

We imagine that once religion was removed from the picture, unmarried mothers would be treated humanely but when ‘science’ was applied instead, we got eugenics and huge levels of cruelty.