lunedì, dicembre 31, 2018

Ci siamo disfatti di Dio?

Di Antonio Gurrado

Non è vero che ci siamo disfatti di Dio, stiamo soltanto vivendo in tempi gnostici un po’ troppo creativi. Questa almeno è la conclusione cui sono giunto leggendo “Dopo Dio”, il nuovo libro di Peter Sloterdijk (per Raffaello Cortina) in cui il filosofo tedesco riordina recenti scritti sparsi sulla religione, favorito dalla propria propensione allo spirito di sistema ampiamente dimostrata dalla mastodontica trilogia “Sfere”. Di là da un favore per l’eugenetica troppo ingenuo per rendergli onore, Sloterdijk ha la capacità di affrontare ogni aspetto del mondo col piglio e l’ambizione di un filosofo classico e ciò – in questo caso specifico – gli consente di analizzare le venature della religione senza risentire dell’adesione a una certa tradizionale corrente del razionalismo scettico, che qua e là riecheggia i toni puerili di d’Holbach. Non gli interessa tuttavia la polemica ostile quanto la spiegazione ponderata e ciò, sorprendentemente forse anche per se stesso, può condurlo a conclusioni non distanti dal buon senso di una parte del pensiero cristiano.
   
La distinzione fondamentale che traccia ha per discriminante l’apocalisse, “il momento dello sguardo onnicomprensivo rivolto all’indietro” ovvero il momento rivelatore del senso di tutto ciò che è accaduto. Nella società premoderna il retto modo di interpretare il mondo era l’ispirazione apocalittica che giungeva da Dio, unico detentore dell’onniscienza. Il moderno consiste invece nell’accettazione di varie fonti d’ispirazione e nel rifiuto dello “svuotamento del futuro” in favore della sua “inesauribilità”, che non sarà mai racchiusa da un punto di vista apocalittico, posteriore a tutto. L’islam, per dire, è incardinato sull’onnipotenza e onniscienza di Allah, “figura impossibile sullo sfondo del mondo moderno” la quale si fa carico tramite i propri accoliti della distruzione delle creature abiette: “gli attentati”, scrive Sloterdijk, “sono prove malriuscite dell’esistenza di un Dio che non capisce più il mondo”. Il protestantesimo, invece, è una teologia moderna poiché si apre al futuro per mezzo dell’intervento creativo umano, con la libera interpretazione delle Scritture, così paradossalmente limitando l’onnipotenza di Dio.

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domenica, dicembre 30, 2018

Nocivo e ideologico è l’errore di quanti vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto. Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l'ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente.

Papa Francesco, Gaudete et exultate.

sabato, dicembre 29, 2018

Max Ionata - L'intervista

Max è un mio ex compagno di scuola. Un grande musicista, da piccoli suonavamo insieme in chiesa , io la chitarra e lui il basso.

lunedì, dicembre 24, 2018

Pina Orlando: requiem per quattro vittime della pma

La vicenda tragica di Pina Orlando, la mamma trentottenne di Agnone, che si è buttata nel Tevere all’alba di giovedì scorso, insieme alle figliolette di quattro mesi, ha scosso molti, soprattutto perché non è davvero cosa usuale che una donna uccida il frutto del proprio grembo: ogni volta che succede di neonati abbandonati, ad esempio, si solleva un coro di sdegno e pietà, sempre pervaso da un fitto sgomento.
I dettagli della vicenda sono usciti stentati sulle varie testate: si è parlato di depressione post parto, poi si è detto che la donna stava a Roma perché doveva seguire le bambine in terapia intensiva neonatale, vista la loro nascita prematura, ed infatti erano state dimesse da poco. Infine si è parlato di un lutto pregresso: le bambine sarebbero state tre, ma una è deceduta subito alla nascita.
Solo dopo quattro giorni sono emersi finalmente particolari significativi: su Leggo.it Emilio Orlando scrive:
Inoltre una delle due gemelline era nata completamente cieca e non avrebbe riacquistato la vista. L’altra avrebbe avuto per tutta la vita deficit deambulatori. Da qui probabilmente la decisione di farla finita. Gli scompensi ormonali dovuti ai farmaci utilizzati per la fecondazione assistita hanno fatto il resto.
Il dolore per questa morte si acuisce non poco, di fronte alla definizione di un quadro più crudele che tragico: abbiamo una coppia senza figli non più giovanissima che si lascia ingannare dal canto delle sirene della fecondazione assistita e tenta la via della stimolazione ormonale. Pina avrà ascoltato tante promesse allettanti, di quelle che sanno formulare con abilità i buoni commerciali che devono vendere un prodotto. Chissà se qualcuno le avrà prospettato anche i rischi delle tecniche di manipolazione per la fertilità, come i parti plurigemellari, le malformazioni congenite, i parti prematuri, i danni alla sua salute fisica e psichica per gli scompensi ormonali.
Tutto il peggio che poteva capitare, è infine capitato: il sogno che si spezza, deteriorandosi un passo per volta, come i petali di una margherita che cadono a terra secchi. Una gemellina muore subito, le altre due iniziano il loro calvario in TIN, un posto che Dante avrebbe senz’altro copiato per descrivere qualche girone dell’inferno, dove anche le menti più solide subiscono colpi non facilmente guaribili.
La terapia intensiva neonatale è un posto orribile, dove piccolissimi fagotti inermi sono tenuti in incubatrici, avvolti in fili e tubicini che ne occupano quasi tutta la poca superficie di pelle disponibile, attaccati a monitor dai loro bip inquietanti. I genitori sono sacchi di patate abbandonati su sedie scomode, accanto a questi giacigli inaccessibili, impotenti: allungano una mano dentro la culla, fanno una carezza, sussurrano parole nella speranza di essere uditi, soffrono e piangono.

Il tempo trascorre di una lentezza pachidermica, nell’inattività, nell’attesa di una parola del medico, del giro di visite, del risultato rivelatore di un esame. Spesso arrivano brutte notizie, perché in questo reparto la vita è precaria e i medici, che lo sanno, non vogliono alimentare false speranze, quindi, piuttosto che dire una parola in più, ne dicono una in meno. Hanno sempre espressioni perplesse, enigmatiche. Cercano di non farsi fagocitare dal bisogno lancinante di empatia di queste neomadri, squassate dalla gravidanza, dal parto e dalla difficoltà di gestire emotivamente la situazione critica dei figli.
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sabato, dicembre 22, 2018

Ein großer Freund Seligenstadts ist tot


Professor Michele Malatesta, der „Vater“ der Städtepartnerschaft zwischen Seligenstadt und Piedimonte Matese, verstarb am 11. Dezember dieses Jahres im Alter von 81 Jahren in Rom. Er war Professor der Logik (Mathematik + Philosophie) an der Universität Neapel und weilte häufig zu Kongressen und Vorträgen in Deutschland. Wenn diese Veranstaltungen im Raum Frankfurt waren, kam er bereits in den 80er Jahren gern nach Seligenstadt, um in der Basilika vor dem Schrein der Heiligen Marcellinus und Petrus zu beten; denn auch in seiner Heimatstadt Piedimonte Matese werden Reliquien des Hl. Marcellinus verehrt. 
Bei einem dieser Besuche fasste er sich ein Herz und suchte den Bürgermeister auf, damals Karl Schmidt. Dieser brachte ihn gleich mit dem Pfarrer der Basilika, Günther Schröder, zusammen, und da der Professor recht gut deutsch sprach, kamen sich die Herren rasch näher. Schließlich waren sie alle große Verehrer unserer Heiligen.
1986 kam Malatesta in Begleitung des jungen Bürgermeisters Fabrizio Pepe und des Paters Pietro Giorgio anlässlich der Wallfahrt nach Seligenstadt, und im Jahr darauf erfolgte der Gegenbesuch von Bürgermeister und Pfarrer in Italien, wo sie am Flughafen Neapel quasi mit militärischen Ehren empfangen wurden. In der Folgezeit gab es regelmäßige Kontakte, beginnend mit einem Besuch des Chores an der Basilika in Piedimonte Matese im Jahr 1989. Es war vor allem auch Alfons Heberer, dem die Pflege dieser Freundschaft ein Anliegen war. Erwähnenswert sind weitere Besuche des Professors in Seligenstadt, so 1993 anlässlich der Gedenkwallfahrt (100 Jahre Wiederaufnahme der Wallfahrt zu unseren Heiligen), 1996 zur Einweihung des Einhardwegs und 2004 zur Jubiläums-Wallfahrt (Martyrium der Heiligen vor 1700 Jahren).
Im Jahr 2009 stimmten die Stadtparlamente dem Verschwisterungsantrag zu, und am 11. September 2010 kam es im Seligenstädter Rathaus zu einer feierlichen Verschwisterungs-Zeremonie; die Städtepartnerschaft wird mit der Rückverschwisterung 2011 in Piedimonte Matese besiegelt. Michele Malatesta hatte Freudentränen in den Augen.
Der Professor hat zahlreiche Publikationen veröffentlicht, war Träger vieler Auszeichnungen und international bekannt. Auch über die Heiligen Marcellinus und Petrus hat er geforscht und ein Buch geschrieben. Er war eine ganz besondere Persönlichkeit: gebildet, zugewandt, menschenfreundlich, kosmopolitisch, religiös. Sein Lachen war ansteckend, sein Wissensschatz unermesslich. Seine letzten Lebensjahre waren durch Krankheit belastet: er litt unter Leberfibrose. Dem Verfasser dieses Artikels sagte er vor kurzem: „Die Sünden der Vergangenheit haben mich eingeholt, ich habe in jungen Jahren viel geraucht!“. Nun hat der „Vater der Verschwisterung“ seinen Lebensweg vollendet. Er wird vielen Seligenstädtern unvergesslich bleiben. 

Bildunterschrift: Prof. Michele Malatesta (Mitte) präsentiert sein Buch über die Heiligen Marcellinus und Petrus (Rom 2013 anlässlich der Pilgerfahrt der Basilika-Pfarrei)

venerdì, dicembre 21, 2018

Refusing to engage with the ethical harms of surrogacy and donor-conception


The General Scheme of the Assisted Human Reproduction Bill was before the Oireachtas Health Committee this week. The proposed law covers such issues as sperm and egg and embryo “donations”, pre-implantation diagnosis and sex selection, embryonic and stem cell research, etc.  The hearing was anything but constructive. The well-reasoned objections of witnesses like Emma O’Friel and Dr Joanna Rose (who was conceived via donor sperm) were dismissed as mere ‘opinions’.
The discussion focused mainly on surrogacy and so-called ‘donation’ of gametes, which is in reality a commercial transaction because mostly eggs and sperm are sold.
Emma and Joanna spoke strongly against any form of surrogacy, which a number of European countries ban in all forms.
Dr. Rose, whose court case brought about a ban on anonymous donations in the United Kingdom, lamented the lack of consultation of all stakeholders, especially those who are donor-conceived like herself, in the drafting process of this legislation.
“Reproductive technology is a social experiment and the adverse impacts and consequences are unravelling over time around the world. Only donor offspring can inform on these things. We pay for our own counselling, genetic tests to find lost relatives and live with false birth certificates and absent or misleading medical histories. We have [lost] ethnicities and ancestors, unparalleled numbers of siblings and half siblings and all this confronts most of us privately in adulthood. There is little understanding of the resultant grief and its disenfranchisement by our families and community at large.”
Some of the members of the Joint Committee denied any evidence of harm to children produced artificially. Emma O’Friel objected to that. “This Bill, if it goes ahead, will consolidate the disadvantaged position of donor-conceived people who will now be bound by law to accept inequality and injustices.  … Adoptees of the last century as children would have shown little or no signs of the pain to come. The impact of injustices done in our childhood can only be dealt with in adulthood. We know that that there are thousands of donor-conceived people world-wide who testify to the long-term harm. Where is the assessment of this harm?”
Dr Rose stated that she will never support the intentional severance of the relationship of genetic kin for any cause other than a last resort for child protection. “Donor conception is about child production, not child protection. Contrasting with adoption, the intended parents are not even screened.”
Any practice that intentionally separates a child from its natural parents is not acceptable. Once gamete donation and surrogacy are allowed, even in restricted way, all sort of legal and ethical complications arise.
The Bill, while claiming to ban commercial surrogacy, would still allow the payment of “reasonable expenses”, which include medical expenses, travel and accommodation before and during the pregnancy, reimbursement for loss of earnings, counselling, expenses for the surrogate’s husband, and other. Such “non-commercial” surrogacy is still profitable and would obviously appeal many women.
Emma O’Friel noted that there is no compensation for donating any other part of our bodies. What is presented as a “treatment” is not a medical procedure, it does not treat fertility.
Professor Deirdre Madden, from University College Cork, called for a relaxation of the rules against paying surrogates. “The consequences of transgression are extremely harsh and expose the intended parents to potential prosecution with significant penalties”. But the rationale for those limits is to avoid the exploitation of poorer women.
She acknowledged that encouraging the commercialisation of wombs and children raises legitimate ethical concerns but she maintained that the avoidance of the exploitation will not be achieved by this Bill because it does not prevent it to happen in different jurisdictions. “Prohibition has pushed surrogacy in the underground or forced people to go abroad.” This argument is totally defeatist. It says that if a law can be circumvented then law must be changed. But all laws can be circumvented. Does this means we should haven laws?
Countries like Germany, France, Italy, Spain do not permit surrogacy at all. Even permitting only “non-commercial surrogacy” would make Ireland one of most liberal regimes in Europe. In Sweden, for example, feminist lobby groups have welcomed the government announcement that surrogacy will not be in any form legalised.
Another contentious issue associated with gamete donation and surrogacy is the disclosure of information about genetic origin.
Prof. Madden claimed that children will have access to information about their genetic parents but, after correction, admitted that this Bill would allow it only when they are adults. Moreover, they have to request information and many are not aware of the circumstances of their conception.
Senator Ronan Mullen wondered if the proposed Bill will effectively falsify birth certificates, as the circumstances of the artificial conception and the genetic links of the one who is conceived will not be recorded. This was recently highlighted by an article of the Law Society Gazette.
Prof. Madden replied that all certificates are already a legal fiction as we don’t carry genetic tests on fathers of naturally conceived children. But this does not compare like with like. When a man is married to the mother of his child, paternity is assumed. No deliberate falsification of a birth cert takes place. In many cases, with donor conception, falsification is deliberate.
A notable feature of the hearing was the number of times Deputy Kate O’Connell dismissed the testimony of Emma O’Friel and Joanna Rose as “opinions”.
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For example, the hearing ended with Emma O’Friel speaking of the harm suffered by people conceived through donation only to have Deputy O’Connell tell her that this was only an “opinion”. But the harm is a fact. Joanna Rose testifies to the harm through her own personal experience, and that of thousands of others like her, who believe donor-conception is an attack on their right to the identity that is the birthright of those born to and raised by their natural parents.
Dismissing what you don’t agree with as a mere “opinion” is a way of avoiding engagement with the substance of an argument.

In this video, Jennifer Lahl from the Center for Bioethics and Culture explains why surrogacy and gamete donation are against human rights.

See  also her recent article Real Grownups Know No One Has the Right to a Child.

giovedì, dicembre 20, 2018

Padre Morgan, il sacerdote che crebbe Tolkien

Padre Morgan
Padre Morgan
È una storia che i lettori di J.R.R. Tolkien conoscono bene: l’amore del mortale Beren per la principessa elfica Lúthien, così forte da vincere ogni ostacolo, compresa la morte. Non per niente quei due nomi, Beren e Lúthien, sono incisi sulla tomba che l’autore del Signore degli Anelli condivide con la moglie, l’amatissima Edith Bratt. Anche la loro fu, all’inizio, un’unione contrastata. E anche loro dovettero vedersela con il corrispettivo di re Thingol, che pone più di un impedimento alle nozze della figlia. Nella realtà, però, le difficoltà principali vennero dalla parte di John Ronald Reuen, che aveva conosciuto Edith nel 1908: lui aveva sedici anni, lei già diciannove e a complicare ulteriormente la situazione c’era il fatto che la ragazza fosse protestante, e non cattolica come il suo giovanissimo spasimante. Ce n’era abbastanza perché il tutore di Tolkien, padre Francis Morgan, opponesse un veto al fidanzamento. Lo fece, infatti, e nella maggior parte delle biografie dello scrittore la figura del sacerdote rimane imprigionata in quest’aurea di ostilità. Ma anche la perfetta fiaba coniugale di Beren e Lúthien contempla, esaurite le peripezie, la riconciliazione con Thingol, sovrano severo ma giusto. Non diversamente, con il passare del tempo, padre Francis divenne amico di famiglia dei Tolkien, che si erano sposati nel 1915. 

A rimettere ordine in una vicenda altrimenti poco esplorata provvede ora un’interessante ricerca dello spagnolo José Manuel Ferrández Bru, tradotta da Isabella Mastroleo per Edizioni Terra Santa con il titolo J.R.R. Tolkien e Francis Morgan (pagine 334,euro 20,00). «Una saga familiare», promette il sottotitolo, e in effetti le famiglie coinvolte sono più di una. Non solo i Tolkien, con i quali padre Morgan entra in contatto a Birmingham nel 1900, quando il padre di John e di suo fratello Hilary era morto già da alcuni anni e la madre, Mabel, si era appena convertita al cattolicesimo. Anche il sacerdote, da parte sua, vantava ascendenze abbastanza impegnative. Imparentati con gli Osborne, celebri produttori di sherry, i Morgan appartenevano all’alta borghesia anglo-iberica, che il destino sembrava aver condannato a una duplice e paradossale condizione di minoranza: troppo inglesi per la Spagna, erano troppo cattolici per il Regno Unito, dove le restrizioni legali imposte ai “papisti” erano durate fino alla metà dell’Ottocento e il pregiudizio si stava rivelando ancora più tenace. 

Nato nel 1857 (lo stesso anno di Arthur Reuel Tolkien, il padre di John), il giovane Francisco Javier Morgan era stato uno degli studenti dell’Oratorio fondato a Birmingham dal cardinale John Henry Newman, la figura più rappresentativa del Movimento di Oxford, che riveste un ruolo fondamentale nella storia del cattolicesimo inglese. All’interno dell’Oratorio era maturata la vocazione sacerdotale del ragazzo, che aveva continuato a intrattenere rapporti strettissimi con la Spagna. Nel 1904, dopo la morte di Mabel Tolkien, padre Francis aveva assunto la tutela legale di John e Hilary, provvedendo alla loro educazione anche dal punto di vista finanziario. La sua personalità è molto più complessa e ricca di influenze di quanto comunemente si creda. Il lavoro di Ferrández Bru ha il merito di portare alla superficie una serie di elementi che vanno dallo studio delle lingue (uno dei primi idiomi inventati da Tolkien, il Naffarin, tradisce un debito evidente verso lo spagnolo) alla passione per le scritture in codice, testimoniata dalla lettera crittografata che il dodicenne John invia al sacerdote nell’agosto del 1904. 

Attraverso il tutore, aggiunge Ferrández Bru, il ragazzo deve essere venuto a contatto con il costumbrismo, la corrente letteraria spagnola che rappresenta una rimodulazione delle istanze romantiche e che ebbe tra le sue autrici maggiori una prozia di padre Morgan, Cecilia Böhl de Faber, nota con lo pseudonimo di Fernán Caballero. Nelle sue opere è presente, per esempio, un’indagine sui detti e i proverbi popolari che si ritrova nella tessitura dell’universo tolkieniano. Spesso puntuale nella rispondenza dei fatti (il capitolo dello Hobbit sui «barili in libertà » nasconde una reminiscenza dei racconti sul commercio di vini tra Jerez de la Frontera e El Puerto de Santa María), l’amicizia con il sacerdote è probabilmente all’origine della valutazione positiva che Tolkien, come molti cattolici inglesi, ebbe del regime di Francisco Franco. Ma quel che più conta, in fondo, è che padre Morgan sia rimasto una presenza consueta nella casa dello scrittore fino alla morte, avvenuta nel 1935. La figlia di Tolkien, Priscilla, si ricorda ancora di quando il prete la chiamava «piccola dama».

Alessandro Zaccuri

martedì, dicembre 18, 2018

Viaggio senza tempo (Demo)

Viaggio senza tempo è uno degli album più belli degli anni Novanta. Ora ho scoperto che esiste una versione demo, più essenziale, imperfetta negli arrangiamenti, affascinante.

lunedì, dicembre 17, 2018

PENSIERINO PRENATALIZIO

Non posso dire che “in pieno XXI secolo, siamo tornati indietro”, in quanto non ho l’orologio della storia in tasca, non sono esattamente uno storicista (né sono sicuro di esserlo mai stato) e, se apprezzo molto il progresso (nel senso scientifico e tecnologico), non credo affatto che tale concetto sia trasferibile alla società e all’etica nel loro complesso. Quindi non dirò che, in tanti campi e fra l’altro in quello del confronto di civiltà diverse, “siamo tornati indietro”, o che in passato “eravamo più avanti”: sono giudizi oziosi e inutili ancor prima di essere idioti. Ogni fase della nostra civiltà ha la sua cifra e i suoi valori: possiamo anche divertirci a confrontarli, se vogliamo, ma è tempo perso. Se c’è una cosa che l’antropologia culturale ci ha insegnato è che ciascuna cultura dev’essere giudicata non nel confronto con le altre (confronto che storicamente in realtà avviene, con esiti vari: tra i quali talvolta può esserci anche lo “scontro”, che comunque non è mai totale né definitivo né assoluto), bensì iuxta sua propria principia. Il che non è “relativismo”, termine negli ultimi tempi passato dal linguaggio propriamente etico-filosofico  a quello politico-demagogico e con risultati quanto meno ridicoli: è “relatività”.
Ma, a proposito del confronto – poniamo tra secolo XII e secolo XXI –, sentite questa storia, a qual che ne sappiamo vera, accaduta otto secoli fa.
L’imperatore Federico II, in occasione della sua crociata, visitò nel 1229 Gerusalemme, ospite del sultano ayyubide d’Egitto al-Malik al-Kamil nipote del Saladino. In quell’occasione si stabilì un trattato che dovrebb’essere ancor oggi esemplare, se Dio una volta di più non avesse ohimè tolto la ragione a coloro che Egli ha deciso di perdere. Si decise difatti che Gerusalemme dovesse divenire “città aperta”, libera da fortificazioni e da presidi militari, pur restando in una regione che il sultano d’Egitto allora con sicurezza controllava, e che tutti gli adepti delle tre religioni scaturite dal ceppo di Abramo vi avessero libero e sereno accesso come pellegrini, in pace e in mutuo rispetto. Tale regime durò circa quindici anni: poi, nel 1244, l’incursione di un massiccio gruppo di genti che dal Kwarezm era stato costretto (le solite Vőlkerwanderungen, esito del terremoto causato tra Asia centrale ed Europa orientale dalle conquiste di Genghiz Khan e dei suoi eredi) a spostarsi attraverso la Persia e a cercar asilo in terra musulmana, sommerse anche la Città Santa, sottoponendola a un massacro e a un saccheggio forse meno deleterio di altri, comunque pesante: in seguito a ciò, Gerusalemme tornò sotto gli ayyubidi d’Egitto, che del resto di lì a poco avrebbero dovuto affrontare prima la crociata di san Luigi, quindi il colpo di stato dei loro “servi-guerrieri”, i mamelucchi, il sultanato dei quali sarebbe restato in piedi fino al 1517 circa per esser poi sostituito da quello ottomano d’Istanbul.
Ma torniamo al 1229 e a Federico II. Un cronista arabo che gli specialisti giudicano attendibile narra di come, dopo aver passato una notte in città (è presumibile ma non certo che fosse ospitato nella fortezza detta “di Erode” che sovrastava la porta occidentale, la “Porta di Giaffa”), si svegliasse contrariato. Mandò a chiamare il qadi, vale a dire il capo dei giurisperiti cittadini, al quale evidentemente spettava l’onere dell’ordine pubblico, e gli chiese perché, quella notte, non avesse udito la voce del muezzin che chiama i fedeli a interrompere il sonno per la preghiera notturna, una delle cinque canonicamente previste. Il qadi rispose di aver disposto l’interruzione di quella pratica per consentirgli di riposare sereno e perché riteneva che la voce d’una religione a lui estranea lo disturbasse. Federico replicò che uno dei suoi desideri più vivi, venendo a Gerusalemme, sarebbe stato proprio quello di ascoltare il richiamo del muezzin nella notte; e aggiunse che se il qadi avesse voluto venir a rendergli visita a Palermo egli lo avrebbe accolto con gioia, ma non per questo avrebbe disposto mai che le campane tacessero nelle ore canoniche per non disturbare la sua sensibilità.
Ora, non pretendo certo che politici e magari anche docenti italiani del XXI secolo siano più intelligenti e lungimiranti di Federico II e del qadi di Gerusalemme; e accetto volentieri anche il fatto che Matteo Salvini sia interessato ad ascoltare l’appello notturno alla preghiera musulmana più o meno come io sarei interessato ad ascoltare un DVD dei discorsi di Umberto Bossi a Pontida. Siccome siamo sotto Natale e in questo periodo  bisogna essere buoni, non dirò quel che penso a proposito della recente, ennesima, penosa polemica riguardante il presepio (lo dico alla toscana: lo so che sarebbe più corretto dire “presepe”), il rispetto dovuto agli appartenenti a religioni diverse dalla cristiana e/o a confessioni differenti dalla cattolica, le esternazioni dell’attuale ministro degli Interni – in un momento nel quale è vittima di un evidente delirio di onnipotenza, disturbato tuttavia dalle prospettive di un futuro che lo costringerà a metterle da canto – a proposito della “tradizione” e della “Chiesa di estrema sinistra” e il delirio di qualche prete che, nel penoso tentativo di ostacolarne la resistibile ascesa, chiede ai fedeli di non fare il presepio semplicemente perché lui lo ha raccomandato nel momento stesso nel quale dispone nei confronti dei migranti provvedimenti che vanno contro i princìpi della carità cristiana.
Credo che la sempre più sparuta schiera degli italiani di qualunque idea politica ma non ancora privi di un minimo di cultura e di buon senso si renda conto anche da questa pietosa polemica di quanto sia sempre più umiliante il livello al quale sta scendendo la vita politica di oggi, con le relative polemiche. Mi limito a ricordare quel che al riguardo disse una volta papa Giovanni Paolo II (e non mi risulta che papa Francesco lo abbia mai esplicitamente o implicitamente contraddetto): il miglior modo di rispettare e perfino di onorare le tradizioni altrui consiste nel rafforzare i legami con la propria. Ciò vale, quanto meno, per chi a tale tradizione non abbia rinunziato: ma se in qualche modo l’ha dimenticata o rinnegata, è molto difficile che possa strumentalmente resuscitarla per contrapporla a quelle altrui.
Gramsci e Mussolini avevano capito benissimo che se c’è qualcosa che teneva insieme gli italiani e che costituiva la loro autentica e profonda identità, quella era la fede cattolica evidentemente incarnata dall’autorità e dalle tradizioni liturgiche della Chiesa di Roma. Ciò, d’altronde, appartiene alle mémoires d’Outretombe: quello che non erano riusciti a fare né il massonismo risorgimentale, né le varie forme dell’anticlericalismo-anticristianesimo-ateismo politico e filosofico dell’Otto-Novecento, sono riusciti egregiamente a farlo più o meno sette decenni di crescente corsa unilaterale ad denaro e al benessere, di disprezzo strisciante e indiscriminato del passato, di mode esterofile diffuse e incontrollate, di cultura indiscriminata di tutti i diritti possibili (della donna, del bambino, degli animali, dell’ambiente, della natura eccetera) senza riguardo alcuno per i correlativi doveri; di “cultura” (diciamo così) del “vietato-vietare” e del “corpo-è-mio-e-lo-gestisco-io”). E ora che, con l’avvento della società multiculturale o di qualcosa che le somiglia, ci troviamo a confrontarci con dei poveracci che mancano di tutto ma che a loro volta hanno quanto meno (ma, non illudetevi: la stanno perdendo anche loro) una qualche identità culturale, è illusorio sperar di poter recuperare tempo e occasioni perduti inalberando crocifissi e presepi nelle scuole. Il pluralismo di una società, come si usa dire, “laica”, vuole che credenti e non-credenti si confrontino: apertamente, lealmente, e senza sotterfugi. Chi auspica il crocifisso e il presepio nelle scuole e magari in tutti i pubblici uffici (io sono tra questi), cominci con l’assicurarsi che entrambi ci sono in casa sua, quindi passi a persuadere i suoi concittadini che quei due oggetti sono una garanzia di civiltà che è indispensabile mantenere. Il cristiano di oggi – e spero che se ne rendano conto lucidamente anche gli amici di “Nigrizia” e di “Famiglia cristiana” – non deve mai perdere di vista il fatto che, ormai, viviamo in una società “occidentale” in larga parte atea o agnostica, comunque decristianizzata; e che il nostro dovere di cristiano-cattolici è il testimoniare la fede vivendo nel proprio mondo come in territorio di missione, in partibus infidelium. Quanto ai non-cristiani convinti che il cristianesimo, come tutte le altre religioni, vada spazzato via dalla società come il residuo (non importa se glorioso o infame) di un passato ormai definitivamente tale, e che in omaggio alle loro convinzioni lottano contro il crocifisso e/o il presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, facciano la santissima cortesia di chiamare le cose con il loro nome, come fino a non troppi anni fa usavano del resto più o meno fare: oggi, per portar avanti il loro disegno “laicistico” e più propriamente antireligioso, si sono inventati che crocifisso e/o presepio potrebbero turbare le menti dei bambini musulmani che frequentano le nostre scuole e offendere le loro famiglie.
Per chiarire in pochi punti quel che personalmente ritengo e che posso testimoniare dati i miei ormai oltre quindici lustri di esistenza, dei quali circa tredici (fin da quando, ragazzino, mi appassionavo ai racconti salgariani sui “tigrotti di Mompracem” e al cinema andavo matto per le avventure del Ladro di Baghdad) spesi in un modo o nell’altro in compagnia dell’Islam, ecco quanto mi sento di dichiarare molto semplicemente in questi giorni di Avvento:
  1. Come cattolico, auspicherei beninteso un mondo pieno di chiese; ma come cattolico del XXI secolo, ben conscio dell’iter della mia e delle altrui culture anche perché il mio mestiere sta nell’occuparsi dell’una e un po’ anche delle altre, non mi dà alcun fastidio che ci sia chi va a pregare in sinagoga, o in moschea, o in templi buddhisti o induisti o jainisti o sikh o bahai o shintoisti o animisti di sorta; come non mi danno alcun fastidio né quelli che si riuniscono a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e dell’umanitarismo nelle logge massoniche, né quelli che non ritengono di aver bisogno di nulla di tutto ciò. Non sarei nemmeno contrario in linea di principio ai luoghi di culto satanisti, se fossi certo che in essi nulla d’illecito e di contrario alla legge viene commesso. Non posso tacere che leggermente sui nervi mi danno le famigliuole che alla domenica, invece che alla messa o a visitare un museo o magari fuoriporta per una sana scampagnata, vanno in ammirata schiera ai Centri Commerciali per adempiere gli unici riti che conoscono, quelli del comprare e del desiderar di comprare generi vari di consumo: ma, dal momento che ciò non è contro le legge – anzi, è molto favorito da leggi fatte da gente che è “comitato d’affari” delle lobbies che da tali riti traggono arricchimento –, subisco tale consuetudine, magari in paziente e segreta attesa di tempi futuri nei quali una provvidenziale e benefica tirannia abbia la forza e la lucidità di vietarla.
  2. Come cattolico che cerca di conoscere sempre meglio l’Islam e che frequenta molti amici e conoscenti musulmani, testimonio senza tema di smentite che non ho mai sentito nemmeno uno di loro che ce l’avesse con il crocifisso o che si sentisse offeso dal presepio; e mi risulta che molti imam si sono chiaramente espressi in questo senso. Certo, può darsi che mi sia imbattuto in ipocriti mentitori: escludo categoricamente che tutti lo siano. So d’altronde bene che esistono centri di propaganda “fondamentalista” nei quali si coltiva una sensibilità diversa, in una gamma che va dalla semplice intolleranza alle pulsioni e magari ai programmi di tipo terroristico: mi limito, per quanto ne so, a ritenere che si tratti di una minoranza sparuta per quanto purtroppo in crescita (come sono in crescita “fondamentalismi” e in genere atteggiamenti criminosi d’ogni genere: il che è nel tristo spirito e nella sciagurata logica dei tempi nei quali viviamo, tempi di continuo dolciastro pacifismo a chiacchiere e di violenza diffusa e sovente narcogenita violenza, tempi di “stati di coscienza alterata” a loro volta effetto di generalizzata illegalità e di altrettanto generalizzate fonti d’illeciti guadagni all’affermarsi dei quali non è stata né è ancora oggi estranea la cultura per permissivismo diffuso e l’altrettanto generalizzata rinunzia, da parte almeno delle due ultime generazioni, a quello che molti ritengono un diritto (e ch’è invece un sacrosanto dovere) di educare le generazioni future, delle quali esse portano la responsabilità
  3. Quanto ai migranti, il dovere umano (e non soltanto cristiano) di ausilio e di ospitalità (ne parlavano già la Bibbia e l’Odissea) è inderogabile: e non ci sono quote d’accoglienza né Italians first che tengano. Il nostro è un tempo di situazioni eccezionali; o meglio, l’eccezionalità del nostro tempo (ogni epoca ha avuto le sue) consiste in questo, ed è semplicemente ridicola prima di essere infame la distinzione tra “profughi” in fuga da “guerre e dittature” e gente che fugge alla fame e alla miseria, tanto più che si tratta di una fame e di una miseria in larga misura determinate dai meccanismi di produzione della ricchezza che tra secolo scorso e secolo presente sono gestiti dai “soliti noti”, i veri padroni del mondo, i lorsignori che periodicamente celebrano i loro riti à la mode nella ridente cittadina di Davos; così come è semplicemente ridicola oltre che impossibile la proposta di “rimandarli a casa loro”, dal momento che la “casa loro” di molti non sappiamo con precisione né possiamo appurare nemmeno quale sia. Quando uno o una arrivano da noi e sono affamati, assetati, nudi, ammalati o feriti, il primo irrinunziabile dovere è accoglierli e curarli: poi si può fare tutto il resto, compreso il rimandarli indietro nella misura in cui ciò è umanamente possibile; e di molti di loro, come tutti sanno, noi abbiamo bisogno; mentre l’esercitare su di loro uno sfruttamento (anche solo il lavoro nero) è un’infamia che va sradicata col ferro e col fuoco. Ciò non toglie, anzi esige che si elaborino mezzi e sistemi comunitari affinché l’emergenza emigranti sia affrontata tenendo presente anche quella della sicurezza e della stabilità di chi le accoglie. L’una esigenza non elide l’altra: anzi, si tratta di esigenze complementari. Chi viene accolto, gode di un principio umanitario irrinunziabile e ineludibile; e deve adeguarsi alle leggi e alle consuetudini di chi lo accoglie. Come l’unica via di rispettare le tradizioni e l’identità altrui sta nell’imporre e nel difendere il rispetto delle proprie, allo stesso modo l’unica possibilità di esercitare il dovere d’accoglienza sta nell’imporre rigorosamente la disciplina di chi viene accolto.
  4. Per quel che riguarda i musulmani, un grande studioso ch’era anche un vero uomo di Dio, il francescano padre Giulio Basetti Sani, ch’era allievo di Louis Massignon e che io annovero tra i miei più cari Maestri, compose una Preghiera per i musulmani, auspicandone ovviamente la conversione al cristianesimo. Ecco in che modo essa inizia: “Gesù, Verbo incarnato e Figlio di Maria, noi Ti preghiamo per i seguaci dell’Islam. Essi Ti riconoscono come ‘Parola di Dio’, come Profeta dell’Altissimo e vero Messia; essi onorano la Madre Tua come Vergine purissima che Ti ha concepito per opera dello Spirito Santo”. Questo è quel che i veri e buoni  musulmani sanno e sentono a proposito di Gesù di Nazareth: che poi vi siano musulmani che ignorano questa verità, data l’ormai dilagante ignoranza che riguarda loro non meno che i laici e in genere la stragrande maggioranza degli abitanti di questo pianeta, nulla da meravigliarsi o da scandalizzarsi. I non-musulmani, credenti o agnostici o laici che siano, dovrebbero tener presento questo rapporto obiettivo tra cristianesimo e Islam.
  5. Ho ascoltato la prima volta l’appello del muezzin molti decenni or sono in un piccolo villaggio della Turchia europea: non quello notturno, bensì quello di mezzogiorno. Non era “a viva voce”, bensì diffuso da un altoparlante. Mi commosse comunque profondamente. Ancora oggi, quando mi càpita di tornare a Gerusalemme, aspetto sveglio la preghiera di mezzanotte: in onore dell’imperatore Federico e della sua gloriosa memoria.
  6. Tra le consuetudini che ho adottato e rispetto, ce n’è un’altra che riguarda l’Islam. Ogni volta che torno a Istanbul dedico un po’ di tempo alla visita della “Moschea Blu”, quella dinanzi alla piazza dell’Ippodromo. E ripeto un rito che mi capitò d’inaugurare nel 1973, la prima volta che vi entrai: mi seggo sui talloni, “alla musulmana” (finora l’artrosi mi ha consentito di farlo) accanto a una colonna, sempre quella, estraggo dalla tasca sinistra dei calzoni il rosario di mia nonna che porto sempre con me e lo recito. Molti, fedeli e turisti, mi hanno visto in tali circostanze; nessuno mi ha mai interrotto o distratto dalla mia preghiera: ed è chiaro che sono un cristiano, perché dal mio rosario pende una piccola croce. Ma una volta, mentre pregavo, mi si avvicinò un anziano signore modestamente vestito. Era magro, curvo, si aiutava con un bastone. Lo depose a terra, si sedette sui talloni come me e mi chiese che cosa facessi: gli risposi che pregavo Dio e la Vergine Maria alla maniera cristiana ed egli mi chiese gentilmente di poter vedere la mia corona. La tenne con rispetto e devozione fra le mani; quindi estrasse dalla tasca sinistra dei suoi calzoni la sua misbah e mi pregò di riprendere la mia preghiera mentre egli, sui grani del suo oggetto rituale, recitava i Novantanove Santi Nomi di Dio. Uscimmo insieme e ci salutammo senza parole, con un abbraccio.
  7. Il mio Maestro, padre Giulio Basetti Sani, oltre che dotto islamologo, era un grande ammiratore dell’Islam: al punto che molti, anche suoi confratelli, gli rimproveravano quello che secondo loro era un sentimento eccessivo. Una volta, a un interlocutore che in atto di sfida gli chiedeva come mai non si fosse decisamente convertito all’Islam, egli rispose umilmente: “Ma io sono già musulmano!”. In arabo muslim significa difatti, semplicemente, “intimamente disposto a conformarsi alla volontà di Dio”. Ho sempre desiderato essere un perfetto musulmano al pari di padre Giulio.
  8. A chi chiede una definizione sintetica del Corano, rispondete di recitare il Prologo del Vangelo di Giovanni. La Parola, che per i cristiani è il Dio-Uomo, il Cristo, per i musulmani è il Libro. E il missus, che per i cristiani è Giovanni il Battista, per i musulmani – che pur venerano Giovanni stesso – è Muhammad, rasul Allah, “Messaggero di Dio”.
  9. A chi chiede di capir bene i rapporti tra cristianesimo e Islam suggerite di leggere la sura X, la sura di Maria.
  10. Non ci sarà mai assassino del Daesh o di qualunque altra organizzazione criminale – e tantomeno alcuno dei suoi mandanti, sauditi o americani che siano – che riuscirà a farmi dimenticare la lezione di quel vecchio turco nella “Moschea Blu”. Questo è l’Islam. Il resto è nulla.
FC
Questo articolo è stato pubblicato in MC da Franco Cardini 

venerdì, dicembre 14, 2018

Why the State should tax married couples less


Should single people pay less tax and married people pay more than under the present Irish system? That seems to be the gist of an article in the Irish Times this week. In tones of regret, it said that “while society has moved forward in so many ways over recent decades, our tax system still exerts a fiscal preference for families”.
The obvious presupposition here is that families, particularly married couples with children, should not enjoy more tax benefits than singles or unmarried couples. Everyone should be treated individually and equally, no matter what their marital or family circumstances are. It’s all about choice. You chose to get married. I chose to cohabit. You chose to have children. I choose to have none. The State should not favour one choice over another.
Once you make individual choice everything, resenting the remaining few tax advantages of marriage is natural. On the other hand, if you think getting married and having children are strong social goods, then favouring marriage in the tax code makes perfect sense.
Sociologist Dr Peter Saunders told a conference organised by The Iona Institute in 2011 that in the UK: “Tax policy used to enable couples with children to be relatively self-reliant.  The principal earner (usually the husband) had one tax allowance to cover his own subsistence needs, another to cover those of his wife, and a third in respect of his children, so they didn’t need much extra help from government.  A married man with a family to support would end up paying much less tax than a single person earning the same money.  This is known as ‘horizontal equity.’”
Horizontal equity has been disappearing in Ireland since Charlie McCreevy introduced tax individualisation and the call for a complete deletion of fiscal preferences for families, as in the Irish Times article, is the natural conclusion of a long-going trend.
One of our studies, for instance, found that double-income married couples typically pay far less tax than single-income married couples.
If one of the last few remaining legal advantages of marriage, namely tax benefits, is now under attack, it is because the public value of marriage is not properly appreciated.
As the Irish Constitution says: “The State guarantees to protect the Family in its constitution and authority, as the necessary basis of social order and as indispensable to the welfare of the Nation and the State.” (42.2)  But when we hear that society has moved forward, it usually means that it has moved away from proper protection and promotion of the family based on marriage, as envisaged by those who wrote Bunreacht na hÉireann.
There are many good reasons why society and the State should defend and promote marriage. The most obvious one is that a married couple provides the best possible environment for children to be conceived and to grow. Marriage is not simply a private matter but has always served a public purpose and this is the reason why in all cultures and civilizations this public commitment is marked by celebrations, rituals, cultural norms, and also, where a proper State exists, legal protection and tax benefits.
In recent years we have experienced a constant erosion of the fundamental features of marriage, in the name of ‘progress’.
The redefinition of marriage in the Constitution with the inclusion of same-sex couple, the relaxation of divorce laws, the calls for the end of tax benefits or to make marital commitment practically indistinguishable from cohabitation, are at the same time the cause and also the effect of the devaluation of marriage as a public institution. Society will pay the consequences unless we change direction, and this would also include having a proper marriage friendly tax system.

giovedì, dicembre 13, 2018

Michele Malatesta “amava ed era amato dalla gente umile”. Se ne va un “maestro” di fede e di cultura

Il ricordo di lui a poche ore dalla scomparsa, tocca da vicino molte persone e più comunità: quella di Piedimonte Matese, dove è nato e ha trascorso la prima giovinezza; il mondo accademico e culturale di Napoli e Roma dove ha lasciato il segno della sua saggezza, professionalità e integrità…; gli ambienti ecclesiali che in lui hanno, senza alcuna fatica, individuato un modello di uomo e di cristiano secondo il Vangelo…
Se n’è andato ieri, 11 dicembre, dopo alcuni mesi in cui la malattia pur provando il suo corpo non ha frenato o arretrato la spinta ad essere sempre un passo oltre, nella fede, nella conoscenza, nelle relazioni umane…
I funerali, celebrati dal vescovo di Alife-Caiazzo Mons. Valentino Di Cerbo, unito al professore Malatesta da vecchia amicizia, si terranno domani (13.12.2018) a Roma nella Basilica di San Saba all’Aventino alle 11.00.
Di lui, ci consegna un caro ricordo, l’amico di sempre Liberato Raccio.
Assalito da un tumulto di emozioni, pur consapevole della mia inadeguatezza, desidero ricordare il mio carissimo amico prof. Michele Malatesta, deceduto oggi in Roma.
Era nato a Piedimonte Matese in una famiglia molto cattolica, con la quale nell’anno 1963 si trasferì a Roma. Era l’ultimo di cinque figli.
Era un uomo di profonda e vasta cultura. Il suo curriculum è impressionante: consta di ventidue pagine. Sorvolo sui suoi libri, sulle pubblicazioni (un’ottantina), sulle recensioni (una settantina), sulle prefazioni, sulla collaborazione a enciclopedie, ecc.   
Mi limito a dire che: ha insegnato Logica nell’Università Federico II di Napoli per 35 anni, 28 dei quali come professore di ruolo, dopo aver insegnato 10 anni nei licei, 6 dei quali come professore di ruolo; ha partecipato, per invito, a numerosi congressi  internazionali, in trenta dei quali ha diretto la sessione di Logica ed in quello di Bechigne (allora Cecoslovacchia) del 1991 ha diretto la sessione inaugurale; 
era membro di accademie anche estere (Belgio, Canada);
il senato accademico dell’Università di Petrosani (Romania) gli conferì all’unanimità la laurea honoris causa in filosofia il 22 settembre 2004 per i suoi studi pioneristici sulla struttura logica delle lingue non indoeuropee;
il compianto prof. Dante Marrocco nella sua “Storia di Piedimonte” lo inserì nell’elenco dei personaggi illustri di questa città, definendolo appassionato agiografo e liturgista. Michele si arrabbiò non ritenendosi né agiografo né liturgista. Nel 2010 finì per dare ragione al generoso amico scomparso perché si improvvisò agiografo e liturgista,  scrivendo un volumetto sui martiri Marcellino e Pietro.
Non di rado gli uomini di cultura vengono meno al compito di rendere facile il difficile, e talvolta fanno addirittura il contrario. Egli intendeva la cultura come servizio. Era mosso dalla carità della cultura, sollecitata da papa Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate. Non è stato mai geloso del proprio sapere e si faceva capire da dotti e indotti.
Devotissimo a San Marcellino, quando il parroco don Vittorio Marra e alcuni amici circa un mese fa, siamo andati a fargli visita a Roma, pur essendo molto provato, non ha mancato di parlarci anche del grande Martire e Protettore. È stato il promotore del gemellaggio con la città tedesca di Selingstadt, dove si venerano i santi Marcellino e Pietro.
Amava ed era amato soprattutto dalla gente umile, che era affascinata dalla sua eloquenza catturante e travolgente, che all’occorrenza cresceva di tono e diventava torrentizia, per tornare poi calma, ma mai priva di pathos.
Non si è mai dimenticato degli amici e di telefonare per fare gli auguri di compleanno, di onomastico e per altre ricorrenze liete, come non si è mai dimenticato di far sentire la sua vicinanza nelle circostanze dolorose.
Per tutti quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerlo era un amico premuroso, delicato e attento. Con gli amici non ha quasi mai parlato della sua attività accademica, se non per raccontare qualche aneddoto divertente. Sembrava che l’insegnamento fosse un hobby, preso com’era dai problemi di trascendenza e religiosi.
Uomo semplice e di fede granitica, fin da piccolo aveva imparato ad amare la Chiesa e a conoscere le cose di Dio, da cui era affascinato e di cui era assetato, ma era tutt’altro che bigotto.
In tutti gli ambienti (soprattutto nel mondo accademico) e in ogni circostanza ha difeso la Chiesa a viso aperto e con competenza indiscussa. Col suo fare  sornione, arguto e ironico, ma mai presuntuoso e arrogante, smontava le accuse, spesso preconcette.
Soprattutto per merito dei salesiani, di cui era stato allievo a Caserta, aveva le idee molto chiare sulla morte. Gli avevano insegnato l’ars moriendi, perché ogni mese facevano fare l’esercizio della buona morte, facendo pregare “per quello che di noi sarà il primo a morire”. Diceva che chi non ha mai pensato alla morte non ha mai apprezzato la vita.
Sostenuto dalla fede, dopo un serio problema di salute, che affrontò impavido, mi confidò che la vita era diventata più bella e l’assaporava come non mai.
Ha sofferto molto, ma se n’è andato sereno, insegnando a chi resta cosa è la buona morte. Provo a immaginare il festoso incontro con don Geppino Manzo, a cui era legatissimo; con mons. Francesco Piazza, suo primo educatore, di cui diceva che i destinatari della sua formazione potevano diventare atei, ma mai eretici; con mons. Giuseppe Della Cioppa, il Vescovo da lui più amato e stimato; con don Adolfo L’Arco, il suo grande maestro salesiano.
Questo illustre figlio della nostra terra lascia un vuoto incolmabile. Lo piangono la dilettissima moglie Silvia, le amate sorelle Carmen e Maria Cristina, i cari nipoti e pronipoti, i parenti e quanti l’anno conosciuto e gli hanno voluto bene.
Carissimo Michele, non ti dimenticheremo. 
Tu però non dimenticarti di pregare per noi.

domenica, dicembre 09, 2018

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venerdì, dicembre 07, 2018

“All human beings are born free and equal in dignity and rights”


“All human beings are born free and equal in dignity and rights” So begins the Universal Declaration of Human Rights, which was proclaimed by the United Nations General Assembly in Paris 70 years ago, on 10th December 1948.
The idea of dignity, which is the basis of any human right, has a long history that goes back to the fundamental Christian teaching that all human beings have an intrinsic value and are created morally equal. This value does not depend on circumstances or specific characteristics but simply on the fact that human beings are created by God. They have a value in themselves by dint of that fact.
The uniqueness of every person has moral significance, as it implies an obligation to respect and cherish each single human. There is value inherent to every person. This is precisely what we mean by dignity and this the source of all individual and collective rights.
Samuel Moyn, professor of law and history at Yale University, has pointed out that the first country to mention dignity in its Constitution was Ireland in 1937. As an alternative to classical liberalism and to totalitarian regimes, both of which were perceived as forms of secularism, the Irish Constitution was inspired by Christian values and specifically by the principle of human dignity.
In invoking the Trinity, the Preamble proclaims that the Irish people adopt Bunreacht na hÉireann “so that the dignity and freedom of the individual may be assured”. Not simply the freedom, as in the liberal tradition, but also the dignity of the individual.
In that same year, Pope Pius XI wrote his encyclical Mit Brennender Sorge in which he denounced Nazism because it “violates every human right and dignity”. This was in line with a long tradition of Catholic social teaching about the necessary respect for all persons, as created by God.
It was only a few years later, after the tragedy of World War II, that the principle of dignity appeared in new national constitutions and international declarations. The Charter of United Nations (1945) and the Universal Declaration of Human Rights (1948) both mention human dignity, and so does, for example, the first article of the German Constitution (1949): “Human dignity shall be inviolable.”
The Preamble of the Charter says that the peoples of the United Nations are determined to “reaffirm faith in fundamental human rights, in the dignity and worth of the human person, in the equal rights of men and women and of nations large and small”.
The Universal Declaration, mentions dignity twice in its preamble, then in its first article (“All human beings are born free and equal in dignity and rights”), and later two more times with respect to just remuneration and to economic, social and cultural rights. The French philosopher Jacques Maritain, a Catholic convert, had a central role in the drafting of the Declaration.
In celebrating 70 years of the Universal Declaration of Human Rights let us not forget the long history behind its fundamental principles, a history deeply indebted to Christianity.

giovedì, dicembre 06, 2018

Vittoria contro l’intolleranza della Raggi: il lieto fine dei manifesti contro l’utero in affitto


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Il Presidente del Gran Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ha accertato che la campagna delle associazioni Pro Vita e Generazione Famiglia, non viola il suo codice. Il riferimento è ai manifesti choc affissi a Roma, Milano e Torino il 20 ottobre scorso, contro la pratica dell’utero in affitto. Nei cartelloni accompagnati da camion vela apparivano due giovani che spingevano un carrello con dentro un bambino disperato, comprato dalla coppia. I due giovani erano individuati come “genitore 1” e “genitore 2”, e al loro fianco compariva la scritta: “Due uomini non fanno una madre. #StopUteroinAffitto”.
Dopo qualche giorno la campagna è proseguita con altri manifesti, stavolta raffiguranti due donne, anche loro nell’atto di spingere un carrello con un bimbo dentro e la scritta: “Due donne non fanno un papà. #StopIteroinAffitto.
La campagna era rivolta a stigmatizzare l’atteggiamento di quei giudici e sindaci (in particolare Virginia Raggi a Roma, Chiara Appendino a Torino, Beppe Sala a Milano e Luigi De Magistris a Napoli) che, violando la legge e il supremo interesse del bambino, avevano disposto la trascrizione o l’iscrizione di atti di nascita di bambini come “figli” di due madri o di due padri.
I manifesti non erano però piaciuti al sindaco di Roma Virginia Raggi che dopo averne ordinato la rimozione aveva sanzionato le Associazioni con 20.000 euro di multa400€ a cartellone. A detta del primo cittadino capitolino quei cartelloni avevano carattere omofobo e offendevano la dignità dei bambini.
Pro Vita e Generazione Famiglia però non sono rimasti con le mani in mano, rispondendo per vie legali alla censura imposta dalla Raggi. Toni Brandi e Jacopo Coghe annunciarono«La violazione della libertà di espressione attraverso la censura dei nostri manifesti contro l’utero in affitto è senza fondamento giuridico. Per questo abbiamo presentato una denuncia contro l’amministrazione capitolina, rappresentata dalla persona del sindaco Virginia Raggi, per il reato di abuso d’ufficio. Essendo stati perseguitati dal Comune di Roma per i nostri manifesti che dicono semplicemente la verità, ossia che “due uomini non fanno una madre”, tra l’altro nel pieno rispetto della legge che vieta questa pratica illegale nel nostro Paese, non solo denunciamo la Raggi alla Procura della Repubblica ma annunciamo anche un ricorso al Tar contro le rimozioni ordinate dal Comune di Roma, una sorta di intimidazione a non affiggere più manifesti aventi ad oggetto l’utero in affitto».
Ieri è arrivato il pronunciamento del Presidente del Gran Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria il quale ha stabilito che la campagna delle due Associazioni non ha violato il suo codice come invece sosteneva il sindaco Raggi. «Ora Virginia Raggi ci chieda scusa – hanno dichiarato Brandi e Coghe – e si renda conto che sono lei e le sue trascrizioni a non essere più ammissibili. I diritti civili non possono basarsi sul calpestamento dei diritti dei più deboli».
 Si è conclusa così, con una brutta figura per il sindaco di Roma, una vicenda surreale che ancora una volta ha portato ad un capovolgimento della legalità. Con la censura verso chi, appellandosi al rispetto della legge, ha riaffermato ciò che è stato stabilito anche dalla Corte di Cassazione, ossia che l’utero in affitto è una “pratica contraria all’ordine pubblico”. Anziché punire chi viola la legge recandosi all’estero per ricorrere alla pratica, Raggi ha tentato di mettere il bavaglio a chi ha difeso la dignità delle donne e il loro diritto a non essere sfruttate, e la dignità dei bambini a non essere usati come merce di scambio. Arriveranno ora le scuse del sindaco? Conoscendo il personaggio non resta che dubitare.
Americo Mascarucci