domenica, ottobre 23, 2011

De vobis fabula narratur

«Sic transit gloria mundi», ha commentato il Cavaliere con frivolezza sinistra l’orribile eccidio di Gheddafi, con cui aveva stilato un trattato di pace, tradito per mancanza di carattere, di autorità, di intelligenza. Forse con sollievo da anima callosa: la questione è chiusa, il «grande amico» non c’è più a minacciare vendette....

«De te fabula narratur», vien voglia di replicargli. Che Berlusconi non si renda conto che sta sulla china che porta qualcosa di simile a piazzale Loreto, e che gli converrebbe riparare nelle innumerevoli ville di Antigua finchè è in tempo, è una delle tante cose che lo rendono paurosamente somigliante al Colonnello.

Capisce o no che il suo tempo è passato, e stare al governo un minuto di più è pericoloso soprattutto per lui? Sa o non sa che la classe attualmente al governo non sopravviverà all’implosione di tipo greco a cui guida ciecamente l’Italia con tanta ottusa superficialità? Che sarà spazzata via dalle estreme condizioni in cui ridurrà tutti quanti?

Provvedimenti durissimi, impopolarissimi, devono essere presi: fare un passo indietro onde associare l’opposizione al governo e condivider con essa l’impopolarità, sarebbe il normale consiglio di una normale intelligenza. Questa proposta è sul tavolo. Lui non l’accetta.

Ciò che mi ha più colpito nelle convulse, sgranate immagini degli ultimi istanti del Colonnello, è la somiglianza col Cavaliere. Somiglianza perfino fisica, dovuta ai capelli tinti per fingere una perenne giovinezza, alla dentiera, ad anni di cerone copri-rughe. Finzione spietatamente smentita negli ultimi istanti, la dentiera messa fuori posto dalle percosse e ridotta a una grinta protrusa e sanguinolenta, i capelli tinti raggrumati di sangue, la gracile spalla da vecchietto del cadavere rotolato a terra, denudata del presuntuoso paludamento pseudo-beduino.



La faccia, soprattutto. Spogliata di colpo di decenni di alterigia, di alta inconcussa soddisfazione di sè e certezza della propria grandezza immaginaria; la faccia finalmente autentica, finalmente umana, di un povero vecchio che di colpo sa che lo ammazzano, senza rispetto, senza difesa alcuna. Di uomo che – finalmente – vede la realtà da cui si è esentato, a cui l’hanno risparmiato quattro decenni di vita nella cerchia interna, nel cerchio magico che un autocrate si crea attorno.

Lo sbalordimento di un uomo spogliato del suo delirio di comando e ridotto ai minimi termini: a sè, alla sua carne. A quel sè stesso che lui per primo non conosceva, avendolo coperto di divise di fantasia che passava giornate intere a disegnare di persona, avendolo protetto con amazzoni procaci, schiave o devote.



Sparite le amazzoni, svanite le uniformi da circo equestre, non ci sei che tu: tu che tremi, che sei in balia di teppisti da cui mai ti saresti fatto toccare, e che – ecco il punto – che vuoi vivere ancora un po’. Magari, nello sbarlordimento, una folla di pensieri: facevo meglio a riparare in Niger, in Mali, ho sbagliato qui, ho sbagliato là... troppo tardi. Ora ha il dominio la realtà: dominio totale e tremendo.

«Sic transit gloria mundi»: quel che rivela, e che agghiaccia in questo stolido latinetto, è l’incapacità di Berlusconi di immaginarsi al posto di quella faccia. Di vedere il proprio transitus: incpacità infantile ed egocentrica.


Berlusconi, si sa, ha lo stesso problema con la realtà, ha perso (se mai l’ha avuto) il senso del reale. Coltiva senza il minimo dubbio un’immagine di sè ridicolmente grandiosa, grande imprenditore, il miglior statista, il grande lavoratore, grande scopatore, il fortunatissmo, quello a cui riesce tutto quello che intraprende – tutti sintomi di un disturbo psichico ben noto, la sindrome maniacale – e la comunica euforicamente ad una popolazione che lo vede per quel che è – un inconcludente furbastro, uno che paga le prostitute, uno che è fuori dai giochi europei a cui non viene invitato, uno che non sa fare nè realizzare ciò di cui c’è bisogno – ed è sempre più insofferente delle sue vanterie, ha sempre meno voglia di ridere alle sue barzellette stantie ed oscene. La rabbia sorda che cresce, il Cavaliere, non la sente. Se ne è protetto narcisisticamente, per la sua rovina.

Gheddafi non capiva, non voleva sapere, che 42 anni di potere sono troppi persino se ottimi, e un normale senso di autoconservazione consigliava di fare un passo indietro, magari dietro le quinte, quando ancora si poteva gestire il potere manipolandolo da dietro. A forza di comandare in quel modo, circondandosi di cerchi magici di yes-men, si finisce per assumere la propria nazione come proprietà privata, da passare ai figli, su cui sperimentare qualunque cosa.

Gheddafi ha preteso di sopravvivere politicamente alla propria epoca, di quand’era un giovane colonnello nasseriano – il fondamento della sua legittimazione – senza voler riconoscere il fatto che la schiacciante maggioranza dei libici d’oggi non l’hanno visto in quella veste, essendo nati nel quarantennio. Ha voluto sopravvivere al proprio progetto (la Jahmahiriyya, l’immaginario «potere delle masse»), finzione a cui per metà continuava a credere e che per metà simulava con accordi e favori alle tribù. Il fatto che si occupasse a tempo pieno alla sua pompa e alle sue stranezze, amazzoni, tende beduine nei viaggi all’estero, uniformi di fantasia per ogni occasione pubblica, che concepiva di persona, bus pieni di ragazze italiane pagate per la sua allocuzione – dice chiaramente una cosa: non aveva più nulla da fare, perdeva tempo, forse si annoiava. E tuttavia, voleva trasmettere il potere ai figli, ragazzotti viziati con orribili vizi e spocchie intollerabili, incivili: Trote, si può dire.

Il soprannome non viene a mente a caso. Oltre che a Berlusconi, Gheddafi somiglia immensamente a Bossi, avete notato? Un lungo più che trentennio di potere totalitario sulla Lega, completo culto del Capo, bagni di folle fanatiche di microcefali a Pontida, religione inventata (l’Ampolla del Po) e progetto di dominio assoluto sul un Paese immaginario, la Padania. La pretesa di sopravvivere a un progetto politico fallito, secessione o federalismo, che si è mostrato comprovatamente incapace di realizzare (al punto che senza Bossi, forse, il Nord avrebbe avuto prima l’una o l’altro), a forza di pompe vuote sostitutive (i «ministeri» finti a Monza) e di vanterie da dittatorello della Val Trompia («Berlusconi resta al potere finchè lo dico io», e simili). Anche lui difeso dal cerchio magico di fedelissimi, e familiari stretti che lo guidano – il dittatorello – per il naso. Anche lui che trasmette il potere al figlio Trota – perchè la moglie, siciliana, gli ripete che è preoccupata che i nemici interni vogliano soffiare il partito alla famiglia, che bisogna pensare al futuro del Trota che non ha studiato.

Ovviamente, anche qui tutto finisce: nel ridicolo, dato che l’Italia, peggio della Libia, è vocata ineluttabilmente alla tragicommedia. Contro il Trota circolano, in sede leghista, battute tremende. (http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/Renzo_Bossi)

Nella Lega cova la rivolta. Il Capo rincoglionito se ne accorge solo a tratti – come nell’ultimo pratone di Pontida, quando è stato sbalordito dal grido «secessione!», e dallo striscione con la scritta «Maroni presidente!» – e allora barbuglia qualcosa di sconnesso, e la sua faccia, per un attimo, assume l’espressione di Gheddafi negli ultimi minuti: la Realtà esiste! E non mi ubbidisce!


Poi, misericordiosa, torna la cecità: Capo, sei tutti noi! Il Nord ti adora!, gli giurano moglie, autista, Reguzzoni e Trota. E lui si acquieta nel suo mondo fantastico, dove ci sono i Celti, i depositi di proiettili i Val Brembana, il Nord che non aspira ad altro che a farsi comandare dalla famiglia di Neanderthal...

E non ditemi che in Italia non può succedere la macelleria libica, perchè da noi c’è la demokrazia, l’alternanza, la polizia... Certo, ci sono le guardie del corpo pagate, e sono queste che salvano i Bossi e i Berlusconi dal linciaggio. Ma quanto dureranno? Le amazzoni che dovevano proteggere il Colonnello sono svaporate. E così i battaglioni M che avevano giurato di proteggere il Duce fino alla morte.

Non ditemi che qui, i nostri gheddafini non hanno il potere assoluto, anzi che nessuno obbedisce loro già fin d’ora. E’ vero, ma loro esercitano il potere totalitario su un angolino, quello che si sono creati con yes men, olgettine-ministre e «cerchi magici». Come Gheddafi, hanno da tre o quattro decenni il potere sul loro partito, se ne pretendono guide uniche e perenni, non accettano la minima critica; come il Rais, hanno della loro creatura politica un’idea proprietaria; come lui, pretendono di sopravvivere ai loro tempi e al loro progetto. Il fatto che il loro totalitarismo si eserciti su realtà microscopiche, aggiunge ridicolo, ma non fa venir meno la somiglianza.

E non sono solo Berlusconi, nè solo Bossi. Di Pietro ha la stessa idea proprietaria del partito suo. E Fini, idem. Che dico? Guardate – al microscopio – il potere di Marco Pannella sul suo partitino radicale. D’accordo, è un partito del due, del tre per cento: ma perché Pannella a volerlo così, perchè su un partito più grosso non riuscirebbe a d esercitare il controllo totalitario e delirante che impone ai suoi fedelissimi.

Ho detto spesso che noi cattolici dovremmo ringraziare Pannella, perchè appena morto lui, il Partito Radicale salirà al 10, al 15, al 30 per cento. L’edonismo, l’abortismo, la secolarizzazione, l’eutanasia, il permissivismo sono infatti l’ideologia italiana corrente; solo che gli italiani, pur pensandola come Pannella, non vogliono essere comandati da Pannella. I secolarizzati non vogliono un gran-sacerdote della secolarizzazione, un mistico religioso dell’irreligione illuminista, un profeta del «fate quel che volete» che li irreggimenta a fare quel che vuole lui, per obbligo metafisico. Temono i suoi discorsi deliranti di dodici ore, di cui ci inonderebbe se fosse presidente, e che per ora impone alla sua (e pagata da noi) Radio Radicale. Temono di essere comandati a bacchetta in nome della libertà.

Scorgono, dietro le fattezze del Pannella, il Gheddafi del permissivismo. E non hanno torto: Pannella ha superato Gheddafi nella durata al potere – ha fondato il Partito Radicale nel 1955, ossia 56 anni fa, e lo guida praticamente da allora. E’ sopravvissuto ai progetti suoi, e ai suoi tempi – quelli di quando l’aborto era delitto, i transessuali non erano invitati in tv, e l’eutanasia era un tabù. Ha la stessa idea proprietaria del partito e persino dell’ideologia radicale. E lo comanda – il suo cerchio magico, che è riuscito a infiltrare un po’ in tutti i partiti veri e grossi – come un ipnotizzatore comanda ai suoi ipnotizzati.

Giorni fa i suoi deputati eletti «nella sinistra», su suo ordine hanno sabotato il tentativo delle sinistre di far mancare il numero legale al voto di fiducia per Bertlusconi; due sere dopo, è andato a cena con Berlusconi a trattare la compravendita.

Si aspettava, Pannella, obbedienza assoluta, totale, da tutti. Anche fuori del suo cerchio magico adoratore, piccin-picciò, pretendeva che nessuno eccepisse sui suoi voltagabbanismi, sul suo narcisismo entristico.

Il 15 ottobre, ignaro della realtà, ha voluto partecipare al corte degli «indignati»: è stato sputacchaito e insultato, e per un attimo ha avuto stampata sul volto l’espressione stessa di Gheddafi negli ultimi minuti. Poi, si capisce, è passato,ed è tornato nel sogno e nel delirio. Esistono dittatori anche dei partitini del 2 per cento, è la ridicolaggine terminale italiota.

De vobis fabula narratur.

Transit la gloria mundi, figuratevi se non passano i senza-gloria.


Maurizio Blondet