venerdì, novembre 30, 2018

IL DENARO NEL MEDIOEVO E LA MODERNITA’

IL DENARO NEL MEDIOEVO E LE PREMESSE DELLA MODERNITA’

(Videoconferenza in data sabato 17.11.2018 in occasione dell’incontro tenutosi in Palazzo Mazzola, sede dell’Archivio Storico del Comune di Asti, in memoria e in onore di Renato Bordone: Asti in Europa. Il racconto dei mercanti astesi tra storia del credito e storia della città)

 Ich schaffe, was ihr wollt, und schaffe mehr (Goethe, Faust, II, 4, v 4927)
Alla memoria di Renato Bordone

Signore e Signori, cari Colleghi,
nel ringraziarVi per l’immeritato onore che mi conduce a rivolgermi adesso a Voi, e nello scusarmi per la forma involontariamente disagiata in cui sono obbligato a farlo, comincio con il dichiarare esplicitamente il Vostro e il mio disincanto. Mi trovo, infatti, nella paradossale condizione di chi, incompetente, si rivolge a un pubblico di competenti, tra i quali anche alcuni Maestri, per esporre problemi e considerazioni suggeritigli in grandissima parte dalla lettura dei loro scritti. So bene che stasera il mio parlar da “fiorentino” a dei “lombardi” – nel senso storico-economico del termine – equivale a un portar vasi a Samo e nottole in Atene. Ma la cortesia dell’invito, il mio desiderio vivissimo di attestare ancora una volta l’ammirazione per l’indimenticabile Renato Bordone e la fraterna amicizia che a lui mi legava mi hanno indotto a porre da canto un pudore che sarebbe stato doveroso e ad accettare un forse troppo impegnativo invito.
Comincio quindi ringraziando non solo i presenti, ma in generale gli studiosi nei confronti dei quali tutti noi abbiamo contratto un immenso debito e che, nella loro gran maggioranza, sono peraltro in vario modo collegati al Centro Studi sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca. Dal momento che alcuni di loro sono presenti, ad evitare involontarie omissioni non li menzionerò per nome, salvo alcuni ai quali dovrò direttamente riferirmi nel corso della mia esposizione. Mi limito a un “grazie” collettivo. Un esplicito e riconoscente pensiero vorrei, tuttavia, rivolgere a cinque Maestri che non sono più fra noi, che ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare e che benemeriti sono stati nel campo di studi che qui c’interessa adesso e non solo in quello. Roberto Sabatino Lopez, Federigo Melis, Jacques Le Goff e Ovidio Capitani, ai quali vorrei associare un altro fraterno amico al pari di Bordone immaturamente scomparso, Marco Tangheroni.
All’inizio del secondo atto della pucciniana Turandot, uno dei tre consiglieri imperiali (i più aderenti fra tutti i personaggi dell’opera all’ispirazione gozziana della “Commedia dell’Arte”) parla di certe “monete di carta dorate”, elemento indispensabile del décor festivo cinese tradizionale al pari delle lanterne rosse. L’allusione, in apparenza tra il folklorico e il fantastico, è sul piano storico più pertinente di quanto non possa sembrare. Ce lo conferma uno dei capolavori fondamentali della letteratura europea, il Faustdi Wolfgang Goethe. Nel primo atto della “Seconda Parte” del grande poema, edita fra 1827 e 1828, la scena dedicata al “Giardino di Svago” (Lustgarten) ci presenta i prodigiosi effetti della cartamoneta approntata dal dèmone Mefistofele e, almeno in apparenza, atta a risolvere tutti i problemi finanziari di un imperatore che ha tutta l’aria di un monarca asburgico. Si tratta di una moneta “a corso legale”, che i sudditi accettano sulla fiducia dovuta al loro sovrano. Fiducia: questa è forse la parola-chiave fondamentale dell’oggetto del nostro discorso.[1]
Ma è, nel contesto goethiano, una fiducia mal riposta. In esso si denunzia, con l’alibi della satira, quell’esperimento introdotto nell’economia moderna dal banchiere scozzese John Law nel 1716, durante la “reggenza” del regno di Francia: ma appena quattro anni dopo, nel 1720, drammaticamente fallito. Il poeta di Weimar, che aveva conosciuto gli “assegnati” circolanti nell’Europa della Rivoluzione e dell’impero napoleonico senza nutrire in essi la minima fiducia, attribuiva, nel suo capolavoro, al diavolo Mefistofele l’invenzione di quella moneta cartacea che si poteva moltiplicare arbitrariamente sino all’infinito e produceva illusori prodigi quali quello di far scomparire provvisoriamente i debiti. Eppure non c’è dubbio che il naufragio dell’esperimento del Law facesse pur parte degli esiti di un evento fondante della Modernità: l’apertura, fin dal 1609, della Borsa di Amsterdam.
D’altronde, il fatto che il coprotagonista della scena goethiana fosse un sia pur imprecisato “imperatore” ci aiuta a individuare un “precedente” che l’aveva ispirata e che era testimoniato in un testo di un buon mezzo millennio precedente: nel quale agiva un altro imperatore, non asburgico ma sino-mongolo, il Gran Khan Qublai della dinastia Yuan del quale ci parla il Milione. Eppure, il veneziano Marco Polo, visitando la Cina del suo tempo nella quale esisteva una gran varietà di oggetti usati come monete – dal sale alla porcellana alle conchiglie – non mostrava soverchia sorpresa dinanzi  alla circolazione di carte accettate con fiducia nel corso di compravendite.[2]Ci troviamo qui dinanzi a uno dei tanti “corti circuiti” della storia: un pezzo di carta, magari munito di firme e di sigilli, non appare né strano né pericoloso a un europeo due-trecentesco abituato alle “lettere di cambio”, mentre si mostra carico di rischi e di minacce per un europeo del Sette-Ottocento. Possiamo trarre dal confronto di questi due remoti episodi qualche considerazione utile per i tempi nostri?
Veniamo, dunque, al denaro nonché nelle sue varie forme e funzioni durante il lungo periodo che, sia pure tra ricorrenti perplessità, abbiamo convenuto di definir “medioevo”: senza dimenticare che, come ben ha scritto Paolo Evangelisti, è necessario mantener sempre chiara «la differenza che sussiste tra ciò che il denaro è come oggetto fisico e ciò che la moneta rappresenta come istituzione e mediazione valoriale».[3]
Oggetto, istituzione e mediazione che si presentano peraltro strettamente uniti sul piano simbolico. La moneta è notoriamente mezzo di scambio, misura di valore e riserva di ricchezza. Ciò è espresso, per quanto riguarda i pezzi metallici a corso evidentemente reale e fondati sul bimetallismo aureo-argenteo (il che ha già di per sé un denso valore simbolico), dall’irreprensibile formula di Isidoro di Siviglia: «In numismate tria quaerentur: metallum, figura et pondus».[4]Nelle monete medievali noi costantemente troviamo sul “dritto” (ma talvolta invece sul “rovescio”) una figura che rimanda a un elemento sacro – divino o santorale che sia –; sul “rovescio” (o viceversa) un’immagine allusiva al potere che emette e legittima il pezzo. Se a ciò aggiungiamo la qualità del metallo coniato, abbiamo una perfetta presentazione di quella dottrina trifunzionale che, significativamente, fu enunziata in quello che allora era il cuore della Cristianità latina, il “paese dei Franchi”, da alcuni vescovi nello snodo tra X e XI secolo: e secondo la quale la società si distingueva nei tre ordines degli oratores (il clero), dei bellatores (le aristocrazie laiche alle quali competeva il governare e il mantenere con le armi la giustizia e la pace) e dei laboratores, chiamati a mantenere con la loro operosità sé stessi e gli altri. Ma, se la concreta sostanza del denaro era il metallo prezioso in quanto soggetto, frutto e garanzia del lavoro che materialmente sosteneva la società, nella storia di longue durée della moneta si presenta un inquietante paradosso. Pensiamo alla nostra ancora corrente espressione “testa o croce”, che come sappiamo evoca l’immagine della monetina metallica lanciata in aria e della “fortuna” (un altro key word nella storia del denaro) che presiede all’esito del rito. Se la “croce” rimanda ancor oggi agli oratores, la “testa” ai bellatores e ai rispettivi sistemi di valori, il prezioso intrinseco del quale la moneta metallica “a corso reale” era costituita, in quella “a corso legale” (peraltro ormai quasi esclusivamente cartacea) non c’è più. Eppure, il mondo moderno – e a fortiori quello contemporaneo, nel quale il denaro è una potenza così forte e diffusa (salvo il costante rischio della sua vanificazione, dai processi di svalutazione fino alle innovazioni che giungono al “denaro virtuale” come il bit coin) – è dominato dall’economia e dalla finanza, vale a dire dagli eredi di élites nate all’interno di quell’ordo ampio e indifferenziato (ma costituito soprattutto da subalterni piegati al lavoro dei campi, dei boschi e delle brughiere), che Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai avevano definito laboratores. Sappiamo che fra X e XVIII secolo quel “Terzo Stato” si era progressivamente articolato e differenziato; e che alla fine del Settecento la élite dei suoi rappresentanti pretese “uguaglianza” rispetto agli altri due mentre, però, all’interno di esso, si allargava progressivamente la forbice della disuguaglianza.
Ora, a differenza di quanto anche in un passato recente avveniva, oggi, dalla rappresentazione tradizionale della moneta, lo statuto simbolico degli eredi delle élites del “Terzo Stato”, di coloro cioè che attualmente sono sul serio i “patroni del mondo” è assente. Quello della globalizzazione attuale, quello dei Soros e dei signori che ogni anno si riuniscono a Davos, è un mondo nel quale le élites dirigenti effettive appaiono refrattarie alla rappresentazione simbolica, che continua semmai a interessare i loro “comitati d’affari” politici e mediatici. Il nostro è un mondo nel quale il cielo è vuoto e i veri padroni non hanno volto, sono dei “Superiori Sconosciuti”.
Se riteniamo questo panorama proprio dell’attuale fase della cosiddetta “globalizzazione”, ed essa a sua volta processo di lungo periodo presentatosi magari a già maturo livello con quella che nella convenzione del racconto storico definiamo “età moderna”, ci rendiamo conto che essa è l’esito attuale della Modernità.
Naturalmente, “età moderna” e “Modernità” non sono sinonimi. Con questo secondo termine intendiamo – e qui gioco a carte scoperte: Fromm, Rifkin, Stiglitz, Chomsky, Bauman – il processo e la dimensione del sia pur problematico affermarsi dell’individualismo, del processo di secolarizzazione e del primato mondiale di economia, finanza e tecnologia su altre dimensioni dell’essere e dell’agire umano (principalmente della politica). Se ciò è plausibile, bisogna dedurne che la Modernità è sorta ben prima dell’età moderna e trova alcuni dei suoi presupposti proprio nel “nostro” medioevo. Torna qui il buon Marco Polo, che non si stupiva affatto dell’uso cinese della cartamoneta perché a casa sua era uso a “lettere di cambio” e a documenti contabili e perché viveva negli anni stessi in cui l’innovazione che Leonardo Fibonacci pisano aveva desunto dagli arabi, as-Sifr, “lo zero”, stava rivoluzionando la matematica ma anche la contabilità e quindi il mondo del credito e degli affari dell’Occidente. Quella Modernità che appariva ancora assurda e sospetta a Goethe, il mercante veneziano l’aveva a portata di mano, quasi sulla punta delle dita.
Torniamo allora alla dinamicità economico-finanziaria del nostro medioevo: e sappiamo bene quanto essa debba a una pluralità di sperimentazioni anche spregiudicate, a un insieme di periodi caratterizzati da un elemento comune di frammentazione. A dirla con le parole di Renato Bordone e di Giuseppe Sergi, «il lungo medioevo non è da considerare come età compatta ‘di mezzo’ ma come insieme di età con meccanismi loro propri e irripetibili».[5]
Nessun cedimento, quindi, da parte mia, a tesi “continuiste” di sorta: anzi, al contrario, la massima cura – quantomeno nelle intenzioni – nel sottolineare le discontinuità, le rotture, i caratteri imprevedibili, le accelerazioni e i ristagni, magari (senza voler rinverdire qui vecchie polemiche) l’unicità dell’“evento” e il suo carattere di “emergenza” rispetto a strutture di medio e di lungo periodo, fino al recupero dell’“imponderabile” di paretiana memoria. Non mi sogno nemmeno di tentare, in pochi minuti, un’esquisse générale de l’histoire de l’argent au moyen-âge. Provo semplicemente, senza velleità alcuna di completezza, a richiamare alcuni dati di fondo. Anzitutto il fatto che la riflessione storica, filosofica e filologica più matura e aggiornata ha, ormai, fatto giustizia del vecchio luogo comune – peraltro ancor oggi duro a morire – della preconcetta e sostanzialmente insuperabile ostilità della fede cristiana (se non di tutte le sue istituzioni storiche) rispetto al denaro. Sappiamo bene su quali passi scritturali e soprattutto evangelici essa si fondi e con quanta forza (non priva peraltro di ragioni) abbia sfidato i secoli: anche a causa delle posizioni assunte al riguardo da Francesco d’Assisi. Ma sappiamo altresì che il pensiero teologico e giuridico cristiano, sia pure in mezzo e incertezze e a tensioni, ha sostenuto l’affermarsi dell’importanza del denaro, del credito e dello stesso profitto nonché delle istituzioni spesso innovative che ne hanno accompagnato lo sviluppo: e ciò sin dalle ferme posizioni di Clemente Alessandrino sulla funzione sociale della ricchezza e sulla “vera povertà” per il cristiano non già nel vivere da mendico bensì nel possedere con discrezione e con spirito di carità a vantaggio e al servizio dei fratelli; quindi da Ambrogio e da Agostino con le loro tesi  sullo scambio economico in quanto caritas e sull’uso del denaro come dono, sul modello della primitiva Chiesa di Gerusalemme dove tutti i beni erano in comune e ciascuno riceveva secondo i suoi bisogni;[6]per giungere all’immagine del Cristo come vero mercator e alla metafora della Redenzione come negozio mercantile per eccellenza, sacrum commercium. Su questa linea e in analoga prospettiva più tardi, nell’XI secolo, speciale rilievo avrebbero avuto il Decretum  di Graziano, l’attività di quello straordinario gestore e tutore dei beni ecclesiastici che fu l’avellanita Pier Damiani e il pensiero di Anselmo da Lucca che, nel 1083, conferì «contenuto legale e fondamento teorico a un diritto di possesso di beni mobili» e  «di mezzi finanziari»[7]atti all’organizzazione, alla vita funzionale, alla necessità della Chiesa nella prospettiva – rigorosamente ispirata ad Agostino – di un “fisco del Cristo”, una vera e propria “borsa del Signore”. Da qui la rigorosa difesa, da parte dei riformatori ecclesiastici del secolo XI, dei beni della Chiesa in quanto patrimonio dei pauperes Dei.  E il dibattito sarebbe continuato con varie e spesso discordanti voci attraverso le Sententiae di Pietro Lombardo sino alla scolastica e quindi nelle rigorose, appassionate discussioni sul iustum pretium, sul bonum commune, sulla liceità del giusto profitto e sull’usura (Alberto magno, Tommaso d’Aquino) fino al pensiero economico degli “osservanti” degli Ordini mendicanti e dei primi umanisti.[8]In questo contesto, le ricerche di Giacomo Todeschini e dei suoi allievi, collaboratori e interlocutori[9]hanno mostrato – specie attraverso lo studio delle Regulae monastiche – come il linguaggio economico della previdenza e dello scambio sia stato fondamentale nell’approfondimento del mistero della salvezza realizzata dal Cristo come valore, pregio, quindi prezzo/preziosità (fino all’adorazione del “Preziosissimo Sangue del Signore”). Al Todeschini va anche il merito di aver chiarito con una sua impegnata serie di studi – insieme con quelli di Roberto Lambertini, di Maria Giuseppina Muzzarelli e di altri – come il celebre divieto di maneggiar danaro imposto ai frati minori dalla Regula bullata del 1223 e da altri testi francescani vada, tuttavia, reinterpretato, proprio alla luce degli scritti di “spirituali” come Pietro di Giovanni Olivi e di “osservanti” come Bernardino da Siena, ai quali va aggiunta almeno la menzione del catalano Francesc Eixemenis, studiato in un bel libro di Paolo Evangelisti, fino a dimostrare la legittimità di un “uso povero” dei beni e del “circolo virtuoso” (l’espressione è, appunto, del Todeschini) che nel nome della caritas e del servizio ai poveri si stabilisce tra denaro, commercio, profitto e speranza di salvezza per quanti mettendolo a frutto fanno “vivere” il denaro (pecunia lucrosa versus pecunia mortua): e qui proprio un tema per eccellenza legoffiano, il purgatorio, ha un suo ruolo primario. A questo livello il grande tema teologico già protocristiano e patristico dell’economia della salvezza s’incontra con quello della salvezza attraverso la corretta economia.
Ciò sia detto senza, con ciò, mai perdere il senso dell’ambiguità e quindi la polarità di sentimenti e di atteggiamenti che ai primi del Trecento avrebbero indotto per esempio Dante a definire la moneta aurea della sua città ora con rispetto e reverenza «la lega suggellata del Battista»[10]– con ciò ribadendo che i falsari erano colpevoli del crimen maiestatis e meritevoli del rogo al pari degli eretici – e ora, viceversa, «il maladetto fiore»[11]colpevole di aver addirittura corrotto il soglio di Pietro. Il denaro poteva senza dubbio restare “sterco del demonio”.
D’altronde, e anche ciò è ben noto, gli snodi e addirittura le “svolte” nella storia del denaro sono tutt’altro che casuali. A presiedere sia pur imperfettamente da essa v’è sempre un elemento ben determinato, giusto o no, corretto o criminale che fosse: la volontà politica, l’esercizio del potere, che gestiscono il difficile rapporto tra circolazione monetaria, sicurezza, informazione e fiscalità dominando e regolando – sia pur non sempre in modo felice – anche quello che in genere con superficialità si denomina “il libero gioco della domanda e dell’offerta” con le sue sistole e le sue diastole, le sue fasi d’inflazione e di deflazione, d’incremento e di ristagno..
Ciò si riscontra con evidenza in alcuni grandi momenti della storia monetaria, fiscale ed economica medievale: e già da prima, fin dalla riforma del denarius argenteus da parte di Aureliano, nel terzo quarto del III secolo, che  insieme con le vittorie sul limessudorientale salvò il potere d’acquisto dei salari dell’esercito e con esso la stabilità sociale dell’impero; oppure, dopo lunghi secoli di frammentazione del diritto di batter moneta nonché d’incertezza e di frammentazione monetaria, la riforma carolingia con la sanzione del diritto di conio come fatto pubblico, con la scelta del monometallismo argenteo che avrebbe retto in Occidente per oltre quattro secoli e la creazione di un sistema di “denaro di conto” che nelle sue linee di fondo avrebbe retto, adattandosi a mutamenti sostanziali, fin addentro al XX secolo. Ma è soprattutto nella vera e propria plaque tournante del mondo medievale, il grande XII secolo delle cattedrali, delle università e del rinnovamento attraverso il Mediterraneo e la penisola iberica dei rapporti tra Europa e Islam che noi vediamo sorgere, si può dire insieme, le societates ad partem lucri con il sistema della “commenda” e la proporzionale ripartizione di utili e di perdite tra i soci e, grazie alla lungimiranza dei conti che ne erano i domini loci, la nascita di quel mirabile sistema di mercato permanente regionale che furono le “fiere di Champagne” con i loro turni che duravano nel loro complesso l’arco dell’intero anno e che ponevano in rapporto, lungo un asse nordovest-sudest parallelo a quello dei pellegrinaggi tra Santiago de Compostela e Gerusalemme, le aree produttive e mercantili dell’Europa settentrionali gravitanti sulla Fiandra e quindi sul mondo anseatico e baltico con quelle mediterranee tra Italia settentrionale, Italia meridionale, Provenza e Catalogna fino a Bisanzio, alla Siria, al Libano, all’Egitto, all’Africa.  Allora,  la circolazione di merci e di denaro ma soprattutto d’uomini e d’informazioni si tradusse in importanti novità anche sul piano delle tecniche mercantili e finanziarie – ne sono testimoni le vicende dei cambi monetari, fondamentali nella nascita delle banche – coinvolgendo le strade, le rotte, le città e i porti e determinandone l’ampiamento e la dinamica produttiva fino all’attività mediatrice degli stessi Ordini militari, il Mediterraneo cambiò allora volto mentre, per usar la bella espressione di Roberto  Sabatino Lopez, «l’Occidente tornava alla coniazione aurea» (anche approfittando di un temporaneo ribasso del costo dell’oro, soprattutto di quello africano “di pagliola”, in polvere. Al riguardo, uno dei pochi argomenti sui quali mi sono permesso di trovarmi in dissenso col mio amato Maestro Jacques le Goff era il movimento crociato. Mi sembra che il grande studioso francese si limitasse sulle crociate a un giudizio di carattere politico-militare, singolarmente restrittivo – strano in lui, così amante degli orizzonti aperti – e incline a non valutare in modo a mio avviso adeguato una serie di novità con esse o a seguito di esse introdotte. A parte quelle sul piano propriamente giuridico e canonistico, o quelle che riguardarono la letteratura, l’arte, l’informazione geopolitica, la stessa propaganda missionaria e insomma i rapporti con l’Oriente in senso generale, basti pensare per quanto qui ci riguarda al significato rivoluzionario sul piano tanto fiscale e finanziario quanto su quello istituzionale e territoriale del sistema delle decime istituito da Gregorio X; oppure al ruolo primario che nel Duecento fu assunto dall’ultima capitale del regno crociato di Gerusalemme, Acri, anche se per la verità essa trasse vantaggio piuttosto dalla sua caduta, nel 1291, quand’essa tornò emporio centrale del mondo musulmano senza tuttavia perdere il rapporto con il commercio occidentale.  Vale la pena di ricordare che Acri, con la sua bella zecca dove si battevano i “bisanti sarracenali” che associavano segno della croce e iscrizioni arabe, fu con la Firenze del fiorino[12]e la Venezia del ducato uno degli hauts lieux della produzione di moneta aurea del tempo. D’altro canto, agli studi ormai “classici” sull’argomento, altri più recenti se ne sono aggiunti – ricordo uno scritto di Giovanni Ceccarelli – a ricordarci che la lettera di credito su terzi era chiamata nel mondo arabo awala, da cui l’italiano “avallo”, che suftajaera l’obbligazione scritta, che la mudarabaera la commenda e la musharakala società commerciale. E ancor oggi ci si continua a chiedere se e fino a che punto la grande rivoluzione economico-finanziaria del basso medioevo abbia avuto come suoi teatri Firenze e Bruges anziché Damasco o Alessandria in quanto la ribà (l’“usura”) fu e resta nel mondo musulmano rigorosamente proibita e perseguita laddove, nel nostro Occidente, il credito a interesse al di là di un certo segno definibile come “usura” ha avuto differenti vicende e ben diverso esito.  Certo è che gli scambi economici e commerciali tra mondo cristiano e mondo musulmano, al pari di quelli filosofici, scientifici, artistici, musicali, culturali e diplomatici, hanno avuto ben più peso nell’avvicinare i due mondi di quanto le crociate non ne abbiano avuto nel renderli conflittuali.
E siamo così giunti alla grande, eroica età del Big Bang economico, commerciale e finanziario dell’Europa occidentale. A quello avviato verso la metà del Duecento – e molti prendono l’anno della coniazione del fiorino, il 1252, a suo eponimo – e grandi protagonisti del quale furono le grandi compagnie da Firenze a Siena ad Asti (i “fiorentini” e i “lombardi”), appunto – a Barcellona, a Parigi, a Londra, a Bruges e altrove, i grandi banchieri dei re e dei papi sia romani sia più tardi avignonesi. Eppure tale stagione fu in sé breve: e si concluse si può dire con un altro evento esso stesso assurto a simbolo: la sparizione di tonnellate d’oro e d’argento nella gola profonda delle guerre finanziate dai mercanti-banchieri per somme immense sul momento compensate da privilegi e da appalti mai però davvero restituite da parte dei  loro regali debitori fino alla grande bancarotta dei banchieri fiorentini Acciaioli, Bardi e Peruzzi nel 1341-45, che mise definitivamente a nudo il tallone di Achille delle societates nate nel XII-XIII secolo, la responsabilità illimitata dei contraenti. Quell’età eroica dei mercanti-banchieri appare sul serio dominata da un valore che, prima che economico, è piuttosto politico e morale: la “fiducia”, quell’elemento immateriale che rendeva possibili le transazioni più ardite e che – come ha dimostrato Luciano Palermo – stava alla base del concetto di “cittadinanza economica”.[13]
È questo straordinario periodo, particolarmente adatto a essere studiato mettendo a frutto quel metodo “dell’incrocio di fonti differenziate” su cui tanto Renato Bordone insisteva; e nel quale il nesso tra politica ed economia, tra politica militare e politica fiscale dei capi politici da una parte e strategia dei prestiti dei mercanti-banchieri dall’altra risulta più chiaramente decisivo. Sul piano storico generale, è significativo – e non è affatto un caso – che la crisi economico-finanziaria andò maturando in un lungo periodo di apertura di una crisi generale ed epocale a carattere climatico, economico, sociopolitico e socioculturale: una crisi, seguita da un ristagno economico verificatasi quasi come preludio di quella che sotto il profilo climatico fu la “piccola era glaciale” in tutto l’emisfero australe tra fine Cinque ed inizio Settecento.
I mercanti-banchieri dei decenni tra fine Trecento e secolo successivo, tra svalutazioni e momenti di deflazione e nella complessità determinata dai trasferimenti internazionali di valuta,  lavorarono nel nord e nel centro della penisola italica – i Medici a Firenze e il “Banco di San Giorgio” a Genova[14]ne sono esempio – a stretto contatto con il debito pubblico di governi che (a differenza di quanto fino dal Trecento avevano fatto i sovrani dei nascenti stati assoluti) non potevano sfuggire alla necessità di restituire in qualche modo le somme prese in prestito; e tesero a impadronirsi quando e nella misura in cui poterono del controllo quanto meno indiretto della cosa pubblica.[15]Si avviò così (com’è ben dimostrato dalla storia delle “prestanze” ad rehabendum e ad non rehabendum a Firenze nel Quattrocento) un processo di socializzazione dei debiti e di privatizzazione dei profitti che in qualche modo può ricordare eventi ed episodi della storia italiana e occidentale più recente. Fu, quella, un’età di grande bellezza e di straordinarie realizzazioni artistiche, ma anche di concentrazione della ricchezza e quindi di diffusione della miseria. Frattanto, il prestigio dei mercanti-banchieri italiani si andava fortemente riducendo al di là delle Alpi e del mare.
Questi argomenti, sui quali oltretutto davvero molti di loro sarebbero ben più competenti di quanto io non sia, richiederebbero più tempo per esser adeguatamente esposti. Si era, tuttavia giunti, insieme con l’era delle grandi scoperte geografiche, della Riforma e dell’avvìo dell’economia-mondo, in tempi nei quali anche la storia del denaro avrebbe dovuto voltare decisamente pagina. Rispetto a questa lunga, complessa storia, il capitalismo moderno – che pure con essa ha tante relazioni – è radicalmente altra cosa.
[1] Cfr. al riguardo L. Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica tra Medioevo ed Età moderna, in«Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 2013; in linea generale, per il rapporto tra fiducia, stabilità e quindi regole: La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 2008; Uomini, regole, economia: una lettura storiografica, a cura di G. Todeschini, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, s.d.
[2] H. U. Vogel, Marco Polo was in China, Leiden, Brill, 2012, pp. 89-226
[3] P. Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo. Ricchezza, povertà, mercato e moneta, Roma, Carocci, 2016, p. 135.
[4] Etymologiae, XVI.,18.12, ed. Lindsay 1911.
[5] R. Bordone, G. Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, p. 396.
[6] Actus,4, 32-35.
[7] La definizione è di Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo,pp. 76-80 e passim.
[8] L’etica economica medievale, a cura di O. Capitani, Bologna, Il Mulino, 1974; G. Todeschini, Oeconomica franciscana. Proposta di una nuova lettura delle fonti dell’etica economica medievale,in «Rivista di storia e letteratura religiosa», II/12, 1976, pp. 15-77; Idem, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002; O. Langholm, Economics in the medieval Schools. Wealth, exchange, value, money and usury according to Paris theological tradition, 1200-1350, Leiden, Brill, 1992; J. Le Goff, La moyen Age et l’argent, Paris 2010; A. Feniello, Dalle lacrime di Sybille, Roma-Bari 2013;  E.I. Mineo, Caritas e bene comune, in «Storica», 59, 2014, pp. 7-56.
[9] L’ampia e benemerita produzione scientifica di Giacomo Todeschini ha ormai da oltre un quarantennio prodotto ragguardevoli risultati: ci limitiamo a richiamare due lavori di argomento generale a buon diritto considerabili come dei “classici” nello studio del pensiero economico medievale: Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994; La banca e il ghetto, Roma-Bari, Laterza, 2016; ma essenziali restano le sue ricerche sul pensiero francescano, gli ebrei ecc. Per quanto riguarda l’Alto Medioevo monastico, straordinariamente importante è V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur. Lexiques chrétiens de la richesse et de l’administration monastique de la fin du IV.e au dèbut du IX.e siècle, Rennes, Presses Universitaires, 2012.
[10] Dante, Inf.,XXX, 74.
[11] Idem, Par.,IX, 130.
[12] Per cui cfr. F. Melis, Fiorino, in Enciclopedia dantesca, pp. 903-4: il suo peso in oro venne originariamente concepito in modo da costituire l’esatto corrispettivo della libbra ponderale (gr. 339,452), la quale veniva tagliata in 12 soldi “di conto”; due anni prima del fiorino d’oro, quindi nel 1250, il comune di Firenze aveva emesso il “fiorino d’argento”, cioè il “grosso da soldi uno”, equivalente a 12 denari pisani. In tal modo, seguendo sempre il modulo della riforma monetaria carolingia, il fiorino d’oro era valutato pari a 20 “grossi” (cioè soldi d’argento). Questo rapporto oro-argento andò fatalmente modificandosi e divaricandosi col tempo: il catasto fiorentino del 1428 dimostra che il fiorino d’oro veniva ormai cambiato a 4 libbre d’argento, vale a dire a 80 dei vecchi “grossi” (i quali peraltro non venivano più coniati dal 1296), il quadruplo del valore originario.
[13] Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica; Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal medioevo all’Età Moderna, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, 2014.
[14] Cfr. La “Casa di San Giorgio”: il potere del credito, a cura di G. Felloni, Genova 2006.
[15] Cfr. p.es. F. Franceschi, I mercanti-banchieri fiorentini del Quattrocento, in Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, a cura di l. Segregondi e T. Parks, Firenze 2012

Questo articolo è stato pubblicato in MC da francocardini .

giovedì, novembre 29, 2018

Religious persecution continues to rise in the world


The “Religious Freedom in the World 2018” report, newly launched by Aid to the Church in Need, lists grave violations of religious freedom in 38 countries and the situation is clearly worsening.
This report assesses the religious situation of 196 countries in the world, looking at legislation, incidents of note, and at a projection of likely trends. In about 20 percent of the countries examined the report found evidence of significant violation of religious freedom. In the worst cases, terrorist groups are engaged in “active campaigns of violence and subjugation, including murder, false detention, and forced exile.” This happened in 11% of the states considered.

There was no obvious sign of change since 2016 in almost half of the countries where persecution takes place. Only in Iraq and Syria religious freedom improved, following the losses suffered ISIS and other Islamist groups, while it deteriorated in Russia and Kyrgyzstan. Those two countries entered the ‘discrimination’ category for the first time. Militant Islamist violence declined in Tanzania and Kenya but in many places the situation is getting worse as the main threat comes from the State, rather than from groups. In Burma, for instance, the ultra-nationalist Buddhist government has increased its hostility to minority groups, particularly to Rohingya Muslims.

Compared to the previous reporting period, 2018 recorded 18 countries where religious freedom has worsened. This represents an increase of four countries.
It is important to realise that both China and India, which are the most populous states in the world and also among the fast-growing economies, have experienced a decline of religious freedom. In the Madhya Pradesh state in central India, for instance, 736 attacks against Christian by Hindu fanatics were recorded in 2017. More than double compared to the previous year.

The report noted that “developments in India are typical of a rise in religious ultra-nationalism across some of the world’s leading nations, each with the common denominator that faith minorities are under attack.”
A large number of case studies is presented in the Aid to the Church in Need report showed how people of all faiths are subjected to religious discrimination. The authors noted that religion is a crucial driving force for the majority of the people in the world but in the West, religious liberty has lost ground to other rights.

Yesterday, landmark buildings around the world were floodlit in red to highlight religious persecution. Speaking in Armagh, Archbishop Eamon Martin, Catholic Primate of All-Ireland, said “The fact that persecution and martyrdom of our fellow Christians continues today in many parts of the world invites us to consider how we ourselves witness to our faith in Irish society.  We are all called to be prophetic in shining the light and truth of the Gospel into the world, even when it brings ridicule, insult, criticism or leads to our being ostracised in public discourse.”
Archbishop Martin made reference to the recent abortion referendum and to the limitations to freedom of conscience contained in the proposed legislation that will force Catholic hospitals to offer abortions.
In post-referendum Ireland, it remains as important as ever to affirm the sanctity of all human life, and to remind people that the direct and intentional taking of the life of any innocent human being is always gravely wrong.  Sadly we must now do this in a context where we might be shouted down, told to “go away”, or even have our right to freedom of conscience and religion questioned because they do not “fit in” with the prevailing attitudes and opinions around us.”

mercoledì, novembre 28, 2018

The Abortion Bill and Conscientious Objection


The abortion Bill presented by Minister Simon Harris is now before the Oireachtas where numerous amendments have been tabled. Some deal specifically with the issue of conscientious objection and want to offer it better protection.
The Bill envisages that doctors won’t have to perform abortions, but they must refer patients on to those who will. Pro-life medics believe they cannot do this as it means their second patient – the unborn baby – will be deliberately killed.
Opponents of conscientious objection complain that the ‘personal preferences’ of doctors and nurses (and the pharmacists who have to hand out the abortion pill or the lethal component to be injected in the baby’s heart) should not prevail over their ‘duty of care.’ Conscientious objection, they claim, is an unacceptable exception to professional duties taken in the name of religious, and therefore irrational, beliefs. Morality is personal and should not interfere with someone else’s medical needs.
These arguments are based on a misunderstanding of the relationship between conscience and professional duty. They reduce the doctor to a mere ‘service-provider’ rather than a morally responsible decision-maker in their own right.
Medicine is a value-laden endeavor by its nature. It is intrinsically ethical because it is based on the moral judgement that health is a good and has to be preserved, while illness and suffering are bad and have to be avoided. Medicine combines scientific knowledge with ethical purposes. Scientific knowledge provides the means of preserving the good of health, or at least of reducing pain. Ethics means health-care must be provided in a way that does no deliberate harm to a patient.
Without ethics, a health professional is reduced to a mere technician. They perform certain medical activities well, but are allowed no real opinion as to whether their action is moral or immoral. The State, or their patient, simply tells them what to do.
But true healthcare is relational. The carer and the cared-for enter into a dialogue that enable them to take together the best decision, and each one contributes according to their expertise, experience and moral values. Professional conscience plays a fundamental role here, as it evaluates what is best.
The peculiarity of care in pregnancy is that there is a third component, i.e. the voiceless child. Doctors have duties of care towards the second patient as well, and this is the simple reason why elective abortion is not acceptable from a medical point of view, because it denies and annihilates the second patient.
We hear that endorsing conscientious objection means endorsing the principle that individual beliefs trump the health and lives of people who need a medical service. It is an excuse for doctors to exert personal power over the patient by imposing their own views.

These arguments are based on the fallacious assumption that conscientious objection is a category of religious freedom. It is sometimes the case that objectors are motivated by their religious faith, but this is not necessary to justify objection, as professional conscience is always present in identifying what course of action is appropriate in a specific case.
"Refusal of care" is a new term used to negatively refer to conscientious objection. This derogative expression is a miserable attempt to portray abortion as a form of care, and to stigmatise those who do not want to be involved in its provision. But medical professionals refuse abortion precisely because it doesn’t take care of the second patient, i.e. the unborn child. According to the Bill recently proposed by Minister Harris, abortion is “a medical procedure which is intended to end the life of a foetus.” How is this care?
Conscience is an ordinary element of medical decision making. It is inseparable from the routine, day-to-day practice of medicine. Those who present objection to abortion as a refusal to treat forget that there are two, and sometimes more patients in a pregnancy, and the doctors and other professionals have a duty to care for all of them, particularly the most vulnerable.
Conscientious objection to a medical intervention can be justified if it conflicts with the doctor’s oath to do no harm and to respect life. The same considerations apply in the debate about assisted suicide. When an action is not aimed at preventing or curing a disease, it can be hardly considered as medical.
In forcing doctors to be involved in abortion, directly or indirectly (by referral), the State treats them as mere instruments without a conscience. Their scientific knowledge is not at the service of the good, i.e. health, but of an ideology of absolute autonomy of the patient.
This betrayal of medicine is grounded on the disregard for the role of professional conscience in all medical decision-making, and not only when ethical dilemmas arise. If conscience is a fundamental component of medical decision-making, then there is no medicine without conscience.

lunedì, novembre 26, 2018

PATER NOSTER
“Padre Nostro, che sei nei cieli”, eravamo abituati a pregare quando ancora pregavamo e insegnavamo a pregare ai bambini. Erano “cieli” mistici e metaforici, che nulla avevano a che fare né con l’atmosfera, né con gli spazi intergalattici. Eppure, ancora oggi il nostro immaginario è profondamente segnato da quel cielo, ecoeli enarrant gloriam Dei.D’altronde, come recitava il Catechismo di san Pio X, “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”. Il vero cielo non sta sopra di noi, sta dentro di noi. L’oratio dominica, la “Preghiera del Signore” insegnata da Gesù agli apostoli, è nella sua semplicità una delle più belle tra quelle mai concepite dall’uomo. Ma i tempi cambiano, le lingue si modificano e con esse le sensibilità e le forme della comprensione e dell’apprendimento. Tradurre, bisogna: ma “tradire” deriva dal latino “tradere”: attenzione, “traduttore-traditore” (e magari anche “tradizione-tradimento”). D’altra parte, come dice Umberto Eco, “tradurre significa dire quasi la stessa cosa”. Sulla recente proposta-disposizione di traduzione di un passo del Pater Noster, ecco una riflessione (più banale e conciliante) mia e una (più dotta e rigorosa, come si addice ai giovani eruditi) dell’amico Antonio Musarra, valoroso medievista ma anche plurigraduato in discipline teologiche e docente di religione.

LE AMBIGUITA’ DELL’INDUZIONE, di Franco Cardini
Chissà: anche di questo qualche cattolico più cattolico del papa incolperà, appunto, il papa. Ormai ci siamo abituati: è un falso pontefice, un precursore dell’Anticristo, un massone, un comunista. Soprattutto l’ultima cosa. In tutto il mondo si ammazzano i cristiani. E lui che fa? Invece d’invocare nuove Sante Crociate – che, se si continuassero a fare come già si sono fatte in Afghanistan, in Iraq, in Libia (purtroppo in Siria non è andata, n’est pas, Monsieur Bernard -Henri Lévy? C’est la faute à la Russie) chissà come sarebbero contenti alla Lockhiid-Martin, alla Raytheon e magari anche alla Finmeccanica, che oltretutto darebbe posti di lavoro a tanti italiani – ti rovina il colpo d’occhio di piazza San Pietro installandoci un ambulatorio per i poveri. Di questo passo, chissà dove andremo a finire…
…eh, già: infatti. Solo che qui il papa non c’entra. È la Commissione Episcopale Italiana che ha deciso di rivedere la traduzione del Messale Romano nella nostra lingua, evidentemente giudicando che alcuni passaggi di esso fossero poco chiari.
In effetti, la traduzione italiana del testo liturgico della messa, che nella sua forma latina risale al concilio di Trento del XVI secolo, non è stata la migliore tra le innovazioni del Vaticano II: e forse una sua revisione generale sarebbe salutare dal momento che tradurre significa sempre e comunque interpretare. I fautori della fedeltà “alla lettera” si rassegnino: ciò si consegue solo mantenendoci fedeli alla lingua originaria, cosa che per la fede cristiana sarebbe stato possibile restando non dico all’aramaico (oltretutto i testi in tale idioma fanno difetto), ma al massimo al greco. Invece, quelli di noi che sono rimasti fedeli all’esecrabile abitudine di pregare ancora in latino (fra loro ci sono anch’io) usano la traduzione di san Gerolamo, IV-V secolo, che già si spostava dalle precedenti.
Ora è stato modificato il testo inziale del Gloria: l’espressione hominibus bonae Voluntatis non si tradurrà più – maccheronicamente – “agli uomini di buona volontà”, bensì “agli uomini amati dal Signore” (meglio sarebbe stato: “prediletti dalla Volontà divina”). E, nell’oratio dominica che tutti i veri cristiani amano, gli italofoni eviteranno d’ora in poi quella raccomandazione “non indurci in tentazione”, che alle loro orecchie (non nella realtà obiettiva delle parole e delle cose) suonava in filigrana quasi la proposta di un Dio malizioso, che si diverte a ingannare gli uomini e a farli peccare (magari per il gusto di punirli?). Il ne nos inducas in tentationem viene reso adesso con un più corretto “non abbandonarci alla tentazione”. In effetti, già il buon vecchio catechismo di san Pio X (grande testo, peraltro!) recitava che Dio non vuole il male, ma lo permette.
Ma forse la pietra dello scandalo sta in un problema di teodicea, cioè di quella parte di teologia che studia la Giustizia divina, e Dio come Giustizia. Se Dio è al tempo stesso onnipotente e infinitamente buono perché acconsente al male, perché lascia l’uomo solo dinanzi a esso? E perché sembra farlo con alcuni e con altri no? È una domanda angosciosa che si ripete sempre: dinanzi alla miseria, alla sfortuna, alla malattia, alla morte. Carl Gustav Jung aveva risposto che se in Dio v’è la radice e il principio di tutte le cose, allora v’è anche la radice e il principio del Male.
Il mio vecchio parroco diceva qualcosa di diverso, di più semplice. Diceva che Dio è infinitamente buono, certo, ma non della soggettiva e limitata bontà concepita dall’uomo, per la quale è “buono” chi ti fa del bene” e “cattivo” chi non te lo fa. La madre che punisce il bambino, o che gli nega qualcosa che egli con forza vorrebbe, o che lo obbliga a prendere una medicina dal sapore disgustoso, per lui è “cattiva”. Ma c’è un livello obiettivo delle cose, alle quali il bambino non può arrivare (e nemmeno noi, rispetto a Dio), alla luce del quale quel che è apparente e soggettivo cambia aspetto. Dio, o almeno il Dio dei cattolici, rispetta il libero arbitrio dell’uomo. E l’uomo può ben pregarLo di non essere abbandonato alla tentazione, ma poi caderci o no è affar suo. Della sua volontà egli solo è responsabile: nel senso che deve risponderne. Tutto quel che possiamo fare nella nostra debolezza è pregare Dio di tenercene al riparo. E premettendo sempre ch’è la Sua volontà che dev’esser fatta: non la nostra.
D’altro canto, i pochi che vanno a messa si rassegnino (o, a scelta, si rallegrino): la gente continuerà a recitare per chissà quanto tempo ancora “non indurci in tentazione”: e non sbaglierà. Il Popolo di Dio ha fatto di peggio: specie quando ancora pregava in latino. Mia nonna ha continuato a rispondere alla formula sacerdotale Dominus vobiscum con un rotondo, vernacolare “Ecco lo spirito tuo”: e sono certo che il Signore capiva benissimo.

PROBA ME, DOMINE, ET TENTA ME!, di Antonio Musarra
Mi permetto qualche parola, ben poco autorevole, sulla questione che sta attanagliando, da giorni, la cattolicità italiota: la traduzione del Padre Nostro. Non che abbia titoli per farlo – a eccezione d’una cinquantina d’esami di Teologia, tutti ben superati –; ma è che a volte le soluzioni più semplici sono sotto il naso, eppure ti chiedi come mai non vengano fuori. State a sentire.
Indubbiamente, e filologicamente parlando, la traduzione mutuata dalla vulgata – dunque, la traduzione di San Girolamo: «Ne nos inducas in tentationem» – è corretta. Non indurci, non “portarci verso” la tentazione: «καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν» (Mt 6,13). La vulgata, anzi, è letterale; che dico, letteralissima, mantenendo perfino il doppio εἰσ- del verbo e della preposizione: “in”. La nuova traduzione CEI – «non abbandonarci alla tentazione» – ha fatto gridare allo scandalo. Il mutamento è giustificato dalla possibilità che il fedele possa ritenere Dio l’origine della tentazione. L’ottica, dunque, è prettamente pastorale. Stupisce, tuttavia, che nessuno abbia notato il pericolo d’un nuovo “inghippo” teologico: davvero Dio può “abbandonare” il fedele alla tentazione? La soluzione scelta è palesemente infelice, ahimè, benché le intenzioni siano pastoralmente – mistagogicamente, catecumenalmente, omileticamente, vedete voi – ottime. Vorrei provare, dunque, a ragionare sull’opportunità d’una scelta del genere.
Il problema non è di facile soluzione. Esso consiste, innanzitutto, nel comprendere in che modo le due versioni dei “Pater”, giunteci in greco, abbiano reso l’aramaico di Gesù; vi sono, infatti, leggere differenze tra Mt 6,13 e Lc 11, 2-4, derivanti verosimilmente dalla stessa fonte (la versione lucana, assai più breve, è ritenuta più vicina all’originale; quella matteana conserva, tuttavia, un maggiore tratto semitico). In secondo luogo, si tratta di capire quale significato fosse attribuito al passo dal suo autore – e qui si apre un gigantesco problema, relativo, storicamente, alla conservazione delle parole di Gesù; teologicamente, all’ispirazione delle Scritture –; quindi, dalla comunità destinataria dell’opera. In Matteo, il passo è inserito nel quadro del discorso della Montagna e della critica alla preghiera intesa soltanto come gesto esteriore. In Luca, il “Pater” è insegnato a seguito d’una richiesta esplicita da parte d’un discepolo nell’ambito del viaggio a Gerusalemme. Ora, in altri brani di Matteo, la “tentazione” (πειρασμόν) è associata a un evento specifico: l’apostasia, l’abbandono della fede. Lo stesso concetto è espresso da Gesù nel Getzemani: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mt 26, 41): «γρηγορεῖτε καὶ προσεύχεσθε, ἵνα μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν» (ciascuno ricorda com’è andata a finire: «tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» [Mt 26, 56]: «τότε οἱ μαθηταὶ πάντες ἀφέντες αὐτὸν ἔφυγον»). L’ipotesi che il «ne non inducas in tentationem» si risolva in un ammonimento concreto, storicamente circostanziato, rivolto, dunque, alla possibilità d’un abbandono da parte dei discepoli, è interessante. Senonché, la lettera di Giacomo amplia di molto la prospettiva: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte (Gc 1, 13-15)». Ebbene: se teniamo conto che il “Pater” è una preghiera perfettamente ebraica – è stato appurato come in essa risuoni il Kaddish –; capace, cioè, di mostrarci tutta l’ebraicità di Gesù (e non è un caso se Paolo, teso verso la missione ai gentili, non la citi mai, a meno di non leggervi un riferimento in 1Cor 10,13, proprio in relazione alla “tentazione”), si può ritenere il contesto della prima chiesa di Gerusalemme come quello migliore per interpretarne correttamente il senso. Tuttavia, va detto che la lettera di Giacomo è scritta direttamente in greco – nonostante qualche semitismo –, e che fu accolta tardi nel canone. Prescindendo dai molti problemi relativi alla sua redazione e alla sua collocazione nel tempo possiamo dire ch’essa mostri, comunque, quale potesse essere l’interpretazione di parte della primitiva comunità cristiana; o, quantomeno, di coloro che si riconoscevano nell’insegnamento iacopeo. Tanto più che tale interpretazione collima, in parte, con quella paolina: «Nessuna tentazione vi ha colti, che non sia stata umana; però Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare» (1Cor 10,13).
Ora, nel ribadire l’assoluta liceità della Chiesa di ritenersi erede di tale tradizione è necessario ribadire parimenti la liceità di fornire un’interpretazione del «ne non inducas in tentationem» che non se ne discosti. Sentiamo Agostino: «Quando dunque diciamo “non ci indurre in tentazione” siamo avvisati di chiedere che non veniamo privati del suo aiuto e acconsentiamo ingannati a qualche tentazione o cediamo» (Lettera a Proba). Sentiamo Tommaso: «Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”? Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato» (Commento al Pater). La traduzione della sesta petizione del “Pater” proposta dalla CEI – «non abbandonarci alla tentazione» – parrebbe volta, dunque, a esplicitare apertamente, anche a costo di abbandonare la trasposizione letterale e d’incorrere nell’ulteriore problema teologico segnalato (per quale motivo Dio dovrebbe “abbandonare” i suoi figli alla tentazione?), l’interpretazione tradizionale del passo. Sarebbe stato meglio adottare, forse, volendo andare fino in fondo, «non lasciarci cadere nella tentazione», benché nella proposta CEI possa pur sempre leggersi il «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» di Mc 15, 34 – «Ὁ θεός μου ὁ θεός μου, εἰς τί ἐγκατέλιπές με» – e, dunque, l’incipit del Salmo 22. Ma il verbo, al solito, è diverso.
Si badi: penso che la nuova traduzione sia perfettamente lecita, trattandosi d’una interpretazione basata sul complesso delle Scritture. Tanto più se si tiene conto del contesto di redazione dei brani evangelici, già di per sé tesi a fornire un’interpretazione dell’episodio, collocato in contesti diversi. In fondo, le domande del “Pater” sono tutte domande “retoriche”: se Gesù dice di non preoccuparci per ciò che mangeremo, perché poi ci dice di chiedere il pane? E via dicendo. A mio modesto avviso, tuttavia, i vescovi – dei quali rispetto in assoluto le scelte – avrebbero potuto percorrere un’altra strada, parimenti rispettosa della Tradizione, ma forse più vicina al senso originale; capace, cioè, di tenere in maggiore conto l’ebraicità di Gesù e, dunque, di guardare al concetto di “tentazione” riscontrabile nell’Antico Testamento. Rappresentato da episodi celebri quali quelli di Abramo e Isacco o dall’intero libro di Giobbe, così come da molti altri. Episodi in cui Dio, più che “tentare”, “mette alla prova” o lascia che Satan metta alla prova (è, questo, il caso di Giobbe). Non dico di tornare al Carmignac e al suo tentativo di traduzione “a ritroso” dei vangeli per ricostruire l’originale; peraltro, non avrei le competenze per procedere in tale maniera da me medesimo e verificarne gli assunti. A ogni modo – per quanto possa valere –, mi pare che i vescovi e i biblisti implicati nella nuova traduzione avrebbero potuto evitare la bagarre in corso qualora si fossero concentrati, più che sul verbo – εἰσενέγκῃς –, sul sostantivo – πειρασμόν. È vero che tale sostantivo è usato da Matteo sia nel “Pater”, sia in 26,41 («γρηγορεῖτε καὶ προσεύχεσθε, ἵνα μὴ εἰσέλθητε εἰς πειρασμόν»), ma i verbi che lo introducono (εἰσφέρω, “portare dentro”, “introdurre”, ed εἰσέρχομαι, “entrare”) sono diversi: segno che Matteo intendeva due cose differenti. È il contesto che conta, dunque. E il centro, il problema non è tanto il verbo; ma il modo d’intendere il sostantivo introdotto da due verbi diversi.
Tradurre – diceva un tale – è «dire quasi la stessa cosa», con tutto ciò che questo comporta. Significa – per semplificare – rapportare all’oggi un pensiero lontano, interpretarne le categorie e renderle intelligibili. La mentalità odierna identifica la “tentazione” con qualcosa di negativo, dai risvolti demoniaci. Ebbene: ciascuno potrà notare come tutto cambi se, in maniera filologicamente corretta, più che tentare di cogliere sfumature – magari anche accertate in letteratura, benché sporadiche – nei verbi, si fosse tradotto πειρασμόν con un semplice “prova”. πειρασμόν è tradotto in questo senso in diversi passi: Sir 6,7; 27,5.7 e 1Pt 4,12, oltre che in Pastore di Erma 39,7, composto nella prima metà del II secolo.
«Non indurci alla prova», dunque; «non mettere alla prova la nostra fede (o se proprio devi farlo – come con Abramo, come con Giobbe – sostienici»; insomma: «sostienici nell’ora della prova, che certamente arriverà». Dio ci mette continuamente alla prova: «Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, il quale fu provato e divenne amico di Dio» (Gdt 8,26-27). Maria stessa non è stata messa alla prova, alla prova della croce (Lc 1,32-33)? E come la mettiamo con la fede di Pietro, la “roccia” (Mt 26,69-75)? Gesù stesso ha attraversato una “prova”, non solo nel Getzemani. L’intera storia della mistica cristiana tiene la “prova” in massima considerazione.

La “prova” – la prova di Abramo, la prova di Giobbe, la nostra prova quotidiana – reca in sé un valore positivo. A differenza della tentazione. Conserva, cioè, un senso di purificazione. Possiede perfino qualche risvolto eroico. E, vai a vedere, magari anche un significato molto affine a quello autentico, originale del “Pater”.

domenica, novembre 25, 2018

Cosa unisce il pol. corr. e i fanatici religiosi

"Osservando le orribili folle di uomini in Pakistan che chiedevano la morte di Asia Bibi sembrava di guardare un altro mondo medievale”, scrive Charlotte Gill. “Bibi, una donna cristiana pakistana, ha trascorso otto anni nel braccio della morte. La scorsa settimana, la Corte suprema l’ha assolta, e lei ha segretamente lasciato la prigione, causando violente proteste da parte degli islamisti, i quali hanno affermato che dovrebbe essere impiccata per blasfemia. Il Foreign Office ha detto che è ancora nel paese, il che significa che la sua vita è a rischio. Persino i giudici che le hanno concesso la libertà sono in pericolo ora, dopo che un leader islamista ha detto che tutti e tre ‘meritano di essere uccisi’. Molti di noi si sentiranno giustamente lontani da Bibi, una vittima di uno dei mob più oppressivi che questo decennio abbia visto. Ma, mentre la secolarizzazione dell’occidente può aver portato a credere che la violenza e la natura autoritaria del Pakistan non possano essere replicate qui, quello che è successo a Bibi dovrebbe servire da lezione su cosa accade quando la censura è autorizzata a inghiottire un paese".

"Il Regno Unito si sta lentamente muovendo in una direzione pericolosa, guidato principalmente dalla sinistra politicamente corretta, che è diventata sempre più autoritaria su ciò che le persone possono dire e quindi credere. Il loro comportamento è in modo allarmante simile a quello dei fanatici religiosi in Pakistan: monitorare le parole in cerca di qualsiasi segno di malvagità. La correttezza politica applicata pesantemente non è diversa dall’estremismo religioso. E’ la stessa cosa: credere che tutti stiano bestemmiando contro di te”. Gill parla di “una nuova religione. Insulta l’idea che le persone possano dichiararsi maschi o femmine, o suggerire che il divario retributivo per genere non è una cosa reale. Non si viene gettati in prigione, ma si sarà ostracizzati e scacciati tramite la scomunica via Twitter. I fondamentalisti del pol corr, con la loro inclinazione verso l’isteria e la sacralità della folla, non si preoccupano di nulla, come testimonia la recente condanna del filosofo Roger Scruton, che ha detto cose controcorrente sull’omosessualità, l’islam e lo stupro. Nella vita quotidiana, molti di noi conoscono i pericoli del parlare apertamente; cerchiamo di accertare la religione del nostro ascoltatore prima di addentrarci nella conversazione, e, se dovessimo trovare le nostre convinzioni contraddittorie, ci muoviamo in punta di piedi. La società occidentale è ancora una delle più libere del mondo, ma la legislazione e il controllo del linguaggio ci portano pericolosamente a vacillare. La corda tesa su cui camminiamo tutti quando parliamo diventa sempre più sottile. Tutto ciò potrebbe sembrare irrilevante rispetto al caso di Asia Bibi. Ma considerate questo: è stato anche riferito che la sua richiesta di asilo in Gran Bretagna è stata negata perché se venisse qui potrebbe causare disordini civili. La settimana scorsa, una campagna sui social media in tutto l’occidente ha chiesto la liberazione del blogger saudita Raif Badawi, imprigionato per apostasia. Ironia della sorte, questo è accaduto mentre, sulla stessa piattaforma, gli utenti stavano setacciando le opere di scrittori come Scruton in cerca di prove di offese”.

sabato, novembre 24, 2018

"La storia presenta sempre delle scelte ai suoi protagonisti. C'è un mazzo di carte, se ne sceglie una e si vede che gioco fanno gli altri. Si suppone che la scelta sia ponderata e i protagonisti (volontari e involontari) pensano di stare al tavolo seguendo una logica. Spesso non è così e arrivano quelle che si chiamano conseguenze inattese. Chi ha un po' di confidenza con i libri di storia sa che siamo immersi in un periodo ad altissima densità e rischio, ha la sensazione netta che stia per accadere qualcosa."

Così scriveva Mario Sechi qualche giorno fa. Verissimo, qualcosa sta per accadere e forse sta già accadendo. Parigi, Londra, Roma, Bruxelles, .... Che storia la storia!

giovedì, novembre 22, 2018

Further evidence the Government overestimate day-care demand


The Government is funnelling significant funding to creche facilities, with the hope that more mothers will enter the workforce. The policy ignores the fact that many parents don’t want to put their children into day-care and it also ignores a new study which shows that subsidising day-care might not have much impact on parental choices.
Career breaks have consequences on future employment and earnings so, what households are likely to be responsive to a change in childcare prices? A new study by Dr Helene Turon, a reader in Economics at the University of Bristol, shows that additional resources in childcare does not lead more women to work outside the house as there are many other motivations, besides cost, behind their choices. One of those motivations will be to stay at home with their children in the early years. In other words, they don’t want to go into paid work so why should cheap day-care induce them to?
The study relies on data coming from the British Households Panel Survey and covers the period 1991-2008.
The study concluded that “the only households who are really likely to be responsive to a change in childcare prices are those for whom the net cost/benefit of supplying labour is close to zero.” This means cases where a parent going out into low-paid work won’t make much difference to household income unless day-care is very affordable.
“All others will value their current choice much more than the alternatives and will not react to a change in the childcare policy”. That is, those who don’t wish to put children into day-care.
Dr Turon presented her research to the Economic and Social Research Institute (ESRI) claiming that other factors, rather than childcare prices, would encourage more mothers to go back to work. Such factors could be less peer pressure from other parents to avoid day-care, or the perception of an improvement of the quality of childcare. “We get a sense that many households are in fact very far from changing their mind and no amount of childcare policy is going to change their decision”, she said.
It this is the case, the government choice to subsidise childcare at the expense of other options is not only unjust but also inefficient, as it will not achieve what it aims at.
Repeated surveys have confirmed that only a minority of parents wish to put their children into daycare. An Amarach poll commissioned by the Iona Institute found that only 17% of parents with children under five pick day-care as their preferred option.
(A submission by The Iona Institute to the Joint Oireachtas Committee on Children concerning day-care can be found here.)

mercoledì, novembre 21, 2018

Equality

I am a democrat because I believe in the Fall of Man. I think most people are democrats for the opposite reason. A great deal of democratic enthusiasm descends from the ideas of people like Rousseau, who believed in democracy because they thought mankind so wise and good that everyone deserved a share in the government. The danger of defending democracy on those grounds is that they’re not true. Whenever their weakness is exposed, the people who prefer tyranny make capital out of the exposure. I find that they’re not true without looking further than myself. I don’t deserve a share in governing a hen-roost, much less a nation. Nor do most people — all the people who believe advertisements, and think in catchwords and spread rumors. The real reason for democracy is just the reverse. Mankind is so fallen that no man can be trusted with unchecked power over his fellows. Aristotle said that some people were only fit to be slaves. I do not contradict him. But I reject slavery because I see no men fit to be masters.
C S Lewis

“Equality” is reprinted from The Spectator, vol. CLXXI
(27 August 1943), p. 192

martedì, novembre 20, 2018

Silvana De Mari e il suo “no” all’anonimato dei venditori di sperma


fecondazione artificiale_paternità_anonimato_fecondazione eterologa_De-Mari

Forte e chiara si è levata, in questi giorni, la voce di Silvana De Mari che, dalle pagine del quotidiano La Verità ha lanciato, senza esitazione, la proposta di una moratoria internazionale perché sia vietato l’ anonimato dei “donatori”, o sarebbe meglio dire venditori, di sperma.
La questione della fecondazione in vitro, infatti, pone una serie di problematiche, oltre che di ordine etico anche di ordine biologico e di ereditarietà genetica. Ci riferiamo in modo particolare alla questione della “donazione” dello sperma perché, incredibile ma vero, persino nell’industria che fabbrica le persone, dove tutto sembra essere perfettamente studiato, pianificato, secondo una catena di montaggio implacabile (vendita di ovuli – vendita di sperma – utero in affitto) e dove ogni singolo, agghiacciante, passaggio viene giustificato alla luce di una mentalità buonista che trasforma un grave atto di crudeltà, come quello di mettere deliberatamente al mondo orfani di padre o di madre, in un atto d’amore, qualcosa può andare storto.

Continua su Notizie Provita.

lunedì, novembre 19, 2018

The Burkean

The Burkean è stato fondato da alcuni studenti del Trinity College di Dublino come alternativa al conformismo ideologico e politico dominante.
In un anno è diventata la voce di un giovane mondo non liberal o left-wing, che comprende libertari, conservatori, liberali classici e persino distributisti.
Al momento stanno proponendo una serie di ritratti di intellettuali non conformi, dal titolo Burke's Right Minds.


domenica, novembre 18, 2018

Le conseguenze della scristianizzazione dell’Europa

I libri di Debray e Brague e l'evidenza che l'abbandono della religione ha creato un popolo incapace di ragionare sulla morte, e dunque sulla vita

di Giulio Menotti

Qual è il nostro rapporto con la morte in un’Europa scristianizzata e in cui le grandi ideologie sono finite? Se lo chiedono Régis Debray e Rémi Brague in due libri, il primo nell’Angle mort, il secondo in Sur la religion. In quello di Debray ci sono due libri in uno: il confronto fra i jihadisti e le società occidentali attraverso la relazione di ciascuno con la morte; e una riflessione sulla capacità di una civiltà – la nostra – di sopravvivere quando non crede più. “I nichilisti non sono i jihadisti, siamo noi”. Debray, l’intellettuale-guerrigliero diventato un Candido, è rimasto un progressista frustrato, transitato dal marxismo alla religione senza passare dal compromesso liberale. Débray e il medievista Brague arrivano alle stesse conclusioni, pur partendo da posizioni diverse, laiciste il primo e cattoliche il secondo. Il jihadista suicida sciocca l’occidente per un motivo preciso. “Le loro ragioni ci sfuggono, sono nel nostro punto cieco” dice Debray al Figaro. “Troviamo in loro qualcosa che ha abbandonato gli occidentali: la convinzione escatologica che permette di inserire la morte in una grande narrazione”. Brague: “E’ sbagliato attribuire la qualifica di nichilista a queste persone. E’ nella nostra storia che troviamo persone che sostengono di non credere in nulla. L’ateismo non ha nulla da dire sulla morte. Le nostre società, da Hobbes, sono basate sull’idea che dobbiamo trovare delle regole per vivere insieme e soprattutto per evitare la morte. Gli attentati jihadisti contraddicono l’idea di Hobbes e mettono in dubbio le basi della moderna filosofia politica”.

Continua su Il Foglio di oggi.

sabato, novembre 17, 2018

Padre Giuseppe Barzaghi OP ci spiega la corretta traduzione del "non ci indurre in tentazione" nel Padre Nostro.



giovedì, novembre 15, 2018

Francesca Lozito è una giornalista italiana con una grande passione per l'Irlanda. Ne parla sul suo blog zuppairlandese, su Twitter, e sulla sua newsletter. Da seguire assolutamente.


mercoledì, novembre 14, 2018

Questo bellissimo ma breve documentario è dedicato al mio amico Dony MacManus.

In The Space Between Ages by Travis Lee Ratcliff is a short documentary that portrays my friend Dony MacManus.



















https://www.shortoftheweek.com/2018/11/13/in-the-space-between-ages/




martedì, novembre 13, 2018

L’archivio dei Musei Vaticani è online e lo si può consultare gratis

La digitalizzazione è una delle nuove frontiere dei musei di tutto il mondo. Oggi con pochi clic possiamo scaricare l’anatomia umana di Leonardo da Vinci direttamente dal sito della Royal Collection Trust di Londra, tutti i cataloghi del MOMA di New York o i documentari dell’archivio Prelinger. Ora alla lista si aggiunge anche il patrimonio dei Musei Vaticani.
Stiamo parlando ovviamente di uno dei patrimoni più antichi e preziosi al mondo. Giusto per fare qualche esempio: ci sono papiri che contengono la versione più antica dei Vangeli di Luca e di Giovanni, c’è il Canzoniere di Petrarca scritto dalla mano stessa del poeta o la Divina Commedia di Dante illustrata da Botticelli. Nel complesso si tratta di circa 80.000 manoscritti, 150.000 tra stampe, disegni e matrici, 9.000 incunaboli e molto altro ancora.

Raccolta di inni polifonici 1538-1539 digitavaticana.org/ - Raccolta di inni polifonici 1538-1539

Nel 2013 è stato inaugurato un ambizioso progetto di digitalizzazione al fine di preservare questi testi e renderli disponibili per tutti coloro che volessero consultarli online. Pochi giorni fa la Digita Vaticana, la onlus che cura il progetto e raccoglie i fondi per portarlo avanti ha comunicato di aver raggiunto il 10% dell’archivio.

Un’immagine dell’archivio cultora.it/ - Un’immagine dell’archivio
Al momento 9.000 manoscritti sono stati riversati in digitale e, di questi, circa 7.000 sono già presenti sul sito digitavaticana.org. Tramite il motore di ricerca interno potete sfogliare il catalogo presente al momento cercando l’autore, il titolo o la segnatura, oppure organizzare una ricerca più nel dettaglio introducendo le parole che vi servono o le frasi con cui iniziano determinate pagine.
Stando a quanto comunicato sul sito di Digita Vaticana, perché il progetto venga portato a termine serve un investimento di 50,000 milioni di euro e un lavoro di circa quindici anni.  Visto il ritmo a cui stanno procedendo, però, è ipotizzabile che ne serviranno almeno il doppio.
Un’immagine dell’archivio online dei Musei Vaticani digitavaticana.org - Un’immagine dell’archivio online dei Musei Vaticani