lunedì, maggio 24, 2010

Dateci, o Dio, gioie pure, dolori sopportabili, amore paziente, lieta e forte concordia nel bene Datemi un pane per lei. Se destinato a esser padre, donatemi vita e virtù da educare i miei figli. Se i giorni a me numerati son brevi, nelle vostre mani raccomando, Signore, questa che è ormai tanta parte dell’anima mia. Con l’esempio e con la parola dateci di consolare e nobilitare l’anime de’ fratelli. Insegnatemi a espiare le colpe mie tante, che non ricadano sulla povera famiglia mia. Perdonatemi. Benediteci. In voi temendo esultiamo: in voi, lieti o afflitti, riposeremo.

Niccolò Tommaseo

Grazie ad Antonio Gurrado.

domenica, maggio 23, 2010

Martin Gardner RIP

Martin Gardner, celebre divulgatore scientifico, è morto ieri a Seattle. Gardner ha curato per venticinque anni la rubrica 'Mathematical Games' sulla rivista Scientific American e ha pubblicato più di cinquanta libri.

Nel 1957 ha curato la raccolta Great Essays in Science, una collezione di saggi scientifici che ha venduto migliaia di copie ed è ancora in commercio. Insieme a Einstein, Whitehead e altri giganti della matematica e della fisica, Gardner scelse anche una porzione del quarto capitolo dall'Ortodossia di Chesterton, intitolato 'The Ethics of Elfland' e tradotto in italiano come 'L'etica delle fate'. Così Gardner motivò la sua scelta: "Potrebbe sorprendere molti lettori trovare qui inclusa una selezione di Gilbert Keith Chesterton. Il rotondo scrittore britannico non era famoso per la sua conoscenza di cose scientifiche, ... eppure ci sono momenti in cui ti sorprende per le sue inaspettate intuizioni scientifiche". Gardner poi sottolinea con stupore che il brano è tratto dal più famoso volume di Chesterton di apologetica cristiana.

Nel suo Chesterton: A Seer of Science, Stanley Jaki nota che Gardner, probabilmente per ragioni editoriali, cambiò il titolo del brano da 'The Ethics of Elfland' a 'The Logic of Elfland'. La logica ovviamente non mancava, dice Jaki, ma il capitolo di Ortodossia è più di una riflessione sulla logica, è un inno alla realtà. Uno dei principi della 'filosofia delle fate', quella che Chesterton aveva imparato nella culla, è che sia nei dettagli più minuscoli quanto nell'universo intero la realtà è specifica, unica, potrebbe essere diversamente eppure ci è data così. Questa sensibilità per l'unicità delle cose che ci circondano, questo stupore, è il mezzo, Jaki ci suggerisce, per restaurare un impegno nei confronti della realtà. È molto più di una logica, è un'etica che guida la ricerca dello scienziato ma anche dell'uomo comune.

sabato, maggio 22, 2010

Vino nuovo

Vinonuovo è un nuovo blog collettivo su temi, problemi e storie dei cattolici oggi in Italia.
Francesca Lozito ha scritto un toccante intervento su Davide, un amico comune ed ex presidente nazionale della FUCI da poco ordinato presbitero.



Se un amico diventa prete
di Francesca Lozito | 12 maggio 2010

«Il nostro problema di Chiesa oggi? - ci aveva detto il nostro don una volta durante un ritiro spirituale –. È che non vi abbiamo dato Cristo»

«Il corpo di Cristo … Amen ». Il giovane sacerdote porge le ostie ai fedeli un po' troppo velocemente non celando un'emozione che non può che essergli perdonata. Questo, infatti, è il giorno della sua ordinazione. I due ragazzi non lo guardano nemmeno in faccia per colpa di un'emozione anche più forte della sua: don D. è loro amico da quando avevano diciott'anni. Se lo ricordano ancora la prima volta che venne all'incontro del gruppo universitario, aveva appena iniziato ingegneria, ma non era come tutti gli ingegneri che avevano conosciuto fino ad allora, massì insomma, un po' freddini e persi nel loro mondo di numeri. D. era stato un piccolo fenomeno al liceo: bravo, bravissimo, e poi faceva tante cose e suonava il pianoforte in modo mirabile … arrivò con quell'aria un po' svagata, un bel sorriso ed una domanda nel cuore che ancora nessuno lo sapeva ma era già qualcosa che dentro, nel profondo, voleva dire sacerdozio.


Continua qui.

giovedì, maggio 20, 2010

Ricoeur: il filosofo del perdono

IL RICORDO

Ricoeur: il filosofo del perdono


Era un venerdì, il 20 maggio di cinque anni fa, quando nelle prime ore del mattino si spegneva nella sua abitazione di Châtenay Malabry, presso Parigi, nel complesso edilizio Les Murs Blancs che Emmanuel Mounier aveva fatto costruire per i più stretti collaboratori della rivista Esprit, il filosofo Paul Ricoeur (1913-2005), l’erede spirituale di Edmond Husserl e dell’esistenzialismo cristiano. Stelle polari della sua formazione furono, non a caso, Emmanuel Mounier, Gabriel Marcel e Karl Jaspers.

Ricoeur fu, tra l’altro, il filosofo di riferimento per la rivista Concilium nei primi anni della sua nascita, soprattutto per teologi di rango come Karl Rahner, Yves Marie Congar e Edward Schillebeeckx. Allevato dai nonni nella fede protestante, Ricoeur era nato nel 1913 a Valence ed era stato fatto prigioniero dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Vicino al socialismo cristiano di André Philip, aveva insegnato in varie università: dalla Sorbona a Lovanio e negli Stati Uniti a Yale e Chicago. Oppositore di ogni forma di totalitarismo, memorabili rimangono le sue denunce contro le atrocità perpetuate nelle guerre di Algeria degli anni Cinquanta e di Bosnia nel 1992.

Ora, a 5 anni dalla scomparsa, rimangono soprattutto vivi i suoi insegnamenti di filosofo e di uomo di dialogo a cominciare dai suoi saggi più famosi, solo per citarne alcuni, come Finitudine e colpa o Il conflitto delle interpretazioni. Di questo ne è convinto uno dei suoi più affezionati discepoli, Domenico Jervolino, oggi docente di ermeneutica e filosofia del linguaggio all’università Federico II di Napoli: «Quello che mi ha sempre affascinato del suo pensiero è stata la ricerca attorno al tema del soggetto, della soggettività da ricomprendere e reinterpretare nel suo rapporto con l’alterità. Forse la sua grandezza maggiore è stata, a mio avviso, quella di credere che la filosofia non deve mai bastare a se stessa ma deve trarre linfa anche dalle tradizioni ricevute, dalle scienze dell’uomo e dal nostro inconscio e proprio da tutto ciò che è altro dalla filosofia».

Un lascito, quello di Ricoeur, da riscoprire soprattutto per come ha introdotto la ricerca filosofica nel difficile terreno della psicoanalisi, soprattutto quella di stampo freudiano: «Ricoeur trova in Freud l’interlocutore privilegiato, che pone in questione una coscienza troppo sicura di sé e mette in gioco anche le cosiddette "pulsioni inconsce". Non a caso, assieme a Freud, considera Nietzsche e Marx i cosiddetti "maestri del sospetto" perché capaci di scoprire che sotto il soggetto c’è qualcosa d’altro, una maschera dove il soggetto risulta essere un "testo tutto da decifrare"».

Dal canto suo un altro discepolo, il professore emerito di storia della Filosofia all’università di Roma Armando Rigobello, oltre a collocare Ricoeur come «continuatore ideale del personalismo comunitario di Mounier, in un certo senso» anche per il comune «pudore della testimonianza», mette in evidenza la sua attenzione alla trascendenza nonché l’affinità al magistero cattolico e alla Bibbia: «Ricoeur si è abbeverato ai testi sacri di cui si fa interprete. Fondamentale in lui l’esegesi della Parola. Costante è nei suoi scritti il confronto con la trascendenza, la ricerca filosofica e l’esperienza religiosa. Ricoeur è soprattutto preoccupato di difendere i suoi scritti dall’accusa di costruire una cripto-teologia, anche se riconosce che le motivazioni profonde dei temi da lui trattati nascono dalle convinzioni religiose». In ultima analisi – è la conclusione di Rigobello – «la sua filosofia è aperta alla trascendenza, anche se non la fonda».

Ma per capire nel profondo il pensiero e l’ermeneutica biblica ricoeuriana bisogna affrontare un argomento nodale della sua ricerca: il perdono. Proprio su questo tema si è soffermato, con un ampio articolo su La Civiltà Cattolica, nel settembre scorso, il gesuita e filosofo della Gregoriana Giovanni Cucci: «Il perdono dice qualcosa dell’essere stesso. Per Ricoeur lo si può cogliere soltanto in un’economia del dono, frutto di quella che chiama "logica della sovrabbondanza". Il perdono ne è il versante supremo, esso manifesta il riferimento non solo a una colpa commessa, ma anche alla dignità del suo autore, nella fiducia che egli potrà fare di più e meglio di quanto compiuto, potrà essere diverso da se stesso. Come dice Ricoeur con una formula suggestiva: «Tu vali molto più delle tue azioni"».

Un «auditore della Parola», un «pensatore responsabile» un «filosofo sulla scia del magistero di Giovanni Paolo II»: sono tante le definizioni ma anche i ricordi che tornano alla mente del cardinale Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio consiglio per la Cultura. La sua amicizia con Ricoeur è incominciata a Parigi negli anni Settanta, durante i molti seminari sull’ecumenismo all’Institut Catholique, e poi è continuata a Castelgandolfo nei tanti convegni estivi con Giovanni Paolo II assieme a Hans Georg Gadamer ed Emmanuel Lévinas fino all’ultimo incontro, nel luglio 2003, con la consegna al filosofo di Valence del prestigioso Premio Paolo VI, in Vaticano, da parte di papa Wojtyla; che mise in evidenza la forte affinità di ricerca di Ricoeur con l’enciclica Fides et Ratio.

«Con quel riconoscimento – rivela il cardinale – si è voluto onorare il filosofo, amante dei testi sacri, attento alle tendenze più significative della cultura contemporanea ma anche un uomo di fede impegnato nella difesa dei valori umani e cristiani». Di quella giornata Poupard ricorda un particolare: «Dietro indicazione di Ricoeur l’importo del premio è stato devoluto alla Fondazione John Bost, di area evangelica, che dal 1848 si occupa di handicappati, anziani e di altri soggetti in difficoltà, circa un migliaio di persone. In quel gesto è emerso il Ricoeur meno conosciuto, il suo grande stile cristiano dove si manifesta evangelicamente la frase: "Coloro che tutti respingono, io li accoglierò nel nome del mio Maestro". Tutto questo dimostra che era non solo un accademico puro, un idealista ma anche un uomo pratico e attento al prossimo. Per me è stato il massimo filosofo del nostro tempo e un uomo di grandissima umanità e umiltà». La mente del professore Jervolino corre all’ultimo incontro a Parigi, un mese prima della morte, con il suo antico maestro: «È stato lucido fino alla fine. Mi chiedeva sempre della politica italiana. Ricordo che era un divoratore di giornali, in particolare Le Monde.

Seguiva le vicende della vita perché voleva rimanere vivo fino all’ultimo, mantenersi attivo fino alla fine, contro la passività e tutte le forme di degrado. In fondo ha esaudito così la sua aspirazione, quella di mantenersi "vivo fino alla morte". Un’espressione che ha dato il titolo alla sua ultima opera, pubblicata dopo la sua scomparsa».

Filippo Rizzi
Avvenire, 20 maggio 2010

mercoledì, maggio 19, 2010

martedì, maggio 18, 2010

Padre Brown contro Sherlock Holmes

Padre Brown contro Sherlock Holmes


Ponzio Pilato, navigato funzionario delle colonie dell’impero di Roma, era vissuto troppo tempo in Oriente per non essere diventato un po’ filosofo. I filosofi sono quelli che sanno le risposte alle domande che pongono, per questo Pilato non aspettò la risposta quando al profeta ebreo, che gli era stato consegnato dalla sua nazione e dai sommi sacerdoti, chiese: «Che cos’è la verità?». San Giovanni, buon testimone della scena, prosegue: «Detto questo, uscì» (Gv 18,38). Pilato, infatti, aveva formulato la domanda secondo la modalità insegnata dai filosofi, cioè ponendo il che cosa, il requisito d’identità che richiede una definizione. Ed era convinto, ponendola in questi termini, di non dovere aspettare una risposta.

Pilato era cieco; la verità gli era saltata agli occhi. Egli si chiedeva che cosa potesse essere, e l’aveva davanti a lui. Certo, egli vedeva solo un pezzente buono per la crocifissione. Siccome aveva occhi e non vedeva, era cieco. Se ci avesse visto veramente, avrebbe riconosciuto il Re della gloria, avrebbe visto Mosè ed Elia conversare con Lui e il compiacimento dell’Altissimo adombrarne il capo. Ma non ha visto nulla e ha posto la sua domanda idiota. Molti altri dopo di lui hanno fatto altrettanto al punto da trasformare in stupidario la storia del pensiero e da presentare Bouvard e Pécuchet che non fanno altro che riproporre instancabilmente la domanda di Pilato.

Dopo i romanzi alessandrini questa (ri)cerca della verità ha preso una piega iniziatica, a episodi, e ai giorni nostri, dopo Edgar Allan Poe, il testimone è passato a un genere letterario: il romanzo poliziesco. Non mi riferisco qui ai falsi sottoprodotti che riempiono le edicole delle stazioni, ma a quei testi che meritano la qualifica di romanzi. Tutti sanno come, all’inizio del secolo, Maurice Leblanc (1864-1941) in Francia e sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) in Inghilterra abbiano onorato con talento questo genere. Tuttavia il vero avversario di Arsenio Lupin non è Sherlock Holmes; esso va piuttosto individuato nel contributo al genere "detective" offerto, negli stessi anni, da G.K. Chesterton (1874-1936) con le storie di Padre Brown. Che è volutamente l’anti-Sherlock Holmes. Egli svolge un sacerdozio senza clamori in oscure parrocchie della periferia operaia di Londra. È stato messo in evidenza il suo comportamento distratto, allocchito, smarrito; questo prete inzaccherato non ha nulla dell’eleganza talora inquietante di Sherlock Holmes: piccolo, infagottato nella sua talare logora, col suo vecchio cappello tarmato, il suo grande ombrello e gli scarponcini consumati. Le sue inchieste marciano sui dati classici, ma non si trovano né l’orgoglio di Hercule Poirot e neppure i sottili doni d’osservazione (psicologici) di Miss Marple, i due eroi siamesi di Agatha Christie.

Padre Brown è un prete cattolico; sa chi è la verità ed è consapevole che Lui solo ne è il padrone. In lui il prete si oppone al detective: «Se il secondo odia il crimine, il primo è ben lungi dall’odiare i criminali; nei loro confronti egli non è animato da senso di giustizia, ma da un desiderio di carità» (F. Lacassin). Il crimine viene punito, ma il colpevole è perdonato, o meglio è salvato, riscattato, purificato dalle prove. Il metodo di Padre Brown non è l’inchiesta scientifica, attenta agli indizi materiali di Sherlock Holmes. Per l’eroe di Conan Doyle, infatti, il sommarsi di minuscoli dettagli materiali porta all’evidenza, che emerge all’improvviso come la figura che appare in un puzzle (e che sfugge allo sfortunato Watson); quella di Sherlock Holmes è una verità cosificata, afferrabile attraverso la materialità delle prove accumulate.

Non dimentichiamo che Conan Doyle era un medico e che il modello (o i modelli) del suo detective è il medico; in una delle prime interviste concesse alla stampa da Conan Doyle, nel 1892, egli confessa: «Sherlock è totalmente disumano, senza cuore, ma ha una magnifica intelligenza logica» (in The Bookman, maggio 1892). Maurice Leblanc, che prende in giro l’eroe britannico con la caricatura di "Helock Sholmès", riconosce in lui tuttavia il prodotto dei due più straordinari poliziotti del mondo, il Dupin di Poe e il Lecoq di Gaboriau, «ancora più straordinario e più irreale» (Arsène Lupin contre Herlock Sholmès, 1908).

Con Chesterton è tutta un’altra cosa. Questo aspetto è sottolineato in un breve racconto in cui Chesterton denuncia il segreto di Sherlock Holmes, alias dottor Hyde. Il detective ha commesso un omicidio e risponde al fratello della vittima, giunto nel suo ufficio per ricattarlo, accusandolo di aver disertato e di essere stato in prigione in seguito a una rapina. Diserzione e galera sono denunciati da indizi materiali, ma i giovani aiutanti del detective si accorgono che il loro capo è andato troppo in là: come ha potuto dedurre dalla semplice osservazione il crimine che era costato la prigione a quell’individuo? Come il più intelligente dei due spiega all’amico: «Al diavolo la scienza dell’osservazione! Credi ancora che i detective riconoscano i criminali annusando la loro lozione o contando i loro bottoni? Essi cercano di individuare i criminali perché loro stessi sono mezzi criminali, appartengono a questo stesso mondo marcio e lo tradiscono, lasciando andare un ladro per acchiapparne un altro, mostrando che non esiste onore tra i ladri».

Questa conoscenza dell’intimo che disonora chi fa commercio di scienza è invece proprio quello che fa Padre Brown e che egli spiega come il proprio segreto. Padre Brown non ha lente d’ingrandimento e non studia la cenere delle sigarette o le tracce dei copertoni delle biciclette, conosce però il cuore degli uomini. Poiché ha passato lunghe ore nel confessionale della sua misera parrocchia, egli sa di che cosa è fatto il cuore dei criminali (il cuore degli uomini): «Quello che lei chiama "il segreto" è l’esatto contrario del metodo scientifico. Io non cerco di uscire dall’uomo, io cerco di entrare nell’assassino [...]. Sono sempre un uomo, che muove braccia e gambe, ma aspetto finché riconosco di essere dentro un assassino, pensando i suoi pensieri e lottando contro le sue passioni, finché non mi sono piegato nell’atteggiamento del suo odio represso che spia e colpisce, finché non vedo il mondo con i suoi occhi iniettati di sangue, tra i paraocchi della sua paranoia, finché non sono davvero diventato assassino [...]. Non c’è nessuno talmente buono che non sappia quanto è cattivo o possa diventarlo [...] finché la sua sola speranza sia l’aver arrestato un criminale e averlo tenuto sano e salvo sotto il proprio cappello» (Il segreto di Padre Brown).

Come egli riconosce nello stesso testo, il mestiere di Padre Brown è di «scoprire i moti di generosità negli assassini». Si potrebbero moltiplicare le citazioni che convergono verso questa constatazione: la verità che Padre Brown cerca è quella dei cuori. Egli non cerca tanto di sapere chi è l’assassino ma piuttosto come egli si è mosso. Il segreto di Padre Brown è sì il manifesto metafisico di un Chesterton convertito al cattolicesimo, ma il personaggio da lui creato più di quindici anni prima testimoniava in modo ammirevole che la verità è cattolica.

Nel 1926, al momento della drammatica sparizione di Agatha Christie, Conan Doyle si prende gioco dei detective, ma non secondo i vecchi metodi scientisti di Sherlock Holmes. Doyle si era, nel frattempo, convertito allo spiritismo; partecipava così a un movimento generale al quale faceva capo anche lo storico gesuita Herbert Thurnston, in cui talvolta si scorge un modello per Watson. Nel "caso Christie" Doyle fece ricorso ai buoni uffici di un medium. Questo ci serve per passare alle opere di questa autrice: Poirot fa delle deduzioni psicologiche sapienti grazie all’azione meravigliosa delle sue «piccole cellule grigie», mentre Miss Marple, l’anziana signora di Saint Mary’s Mead, ha doti di psicologa, cioè di psicanalista. Le «scienze umane», che Agatha Christie non apprezzava molto, sono attivate nei suoi romanzi polizieschi, come del resto erano state utilizzate da lei per scrivere, con il nome di Mary Westmacott, eccellenti romanzi «psicologici».

Padre Brown, però, non è un brillante detective belga: egli si accontenta di far funzionare le virtù di uomo, non di detective. Questo gli consente di riconoscere la verità dove essa si trova: nella speranza e nella fiducia degli uomini, nelle loro passioni e nel loro eroismo. Per Padre Brown, la verità è un essere vivente: è Colui che è la verità dell’uomo per esserne stato l’archetipo e il modello. Essa è più reale e oggettiva di quella che Sherlock Holmes cerca di raggiungere, lo è ancora di più, perché non è una cosa che si può afferrare. La verità del crimine non è sono l’arma, l’impulso, le circostanze, è il criminale e, ancora di più, il dramma della libertà e della grazia che fondano l’uomo in grandezza d’umanità.


Jean-Robert Armogathe

Avvenire, 16 maggio 2010

sabato, maggio 15, 2010

Menzogne shakesperiane

“Menzogne shakesperiane. Il caso del presunto ritrovamento del Cardenio”, L’Osservatore Romano, lunedì-martedì 19-20 aprile 2010, p. 4


Enrico Reggiani (Università Cattolica del Sacro Cuore)


Lo rilevò anche John Henry Newman in un passo di una lunga Letter a Edward Bouverie Pusey (1800-1882; uno dei punti di riferimento del Movimento di Oxford), in cui il not-yet-Cardinal Newman elaborava la differenza tra faith e devotion: “L’idea che Shakespeare fosse un grande poeta è esistita da subito nell’opinione pubblica; e anche allora c’erano almeno singoli individui che lo comprendevano e lo onoravano tanto quanto il popolo inglese è in grado di onorarlo ora; tuttavia, penso che, ai nostri giorni, c’è una devozione nazionale nei suoi confronti che non ha precedenti. Ciò è accaduto perché, mentre l’istruzione si diffonde nel paese, sono sempre di più le persone in grado di avere accesso al suo genio poetico, con maggiore capacità di comprenderlo in profondità e con senso critico; e tuttavia, fin dal principio, Shakespeare ha esercitato…


[il resto dell'articolo è reperibile in questo pdf scaricabile. Buona lettura]



martedì, maggio 11, 2010

Seminario ad Oxford

Domani sarò ad Oxford dove presenterò un intervento allo Jurisprudence Discussion Group.
L'evento si svolgerà presso la Goodhart Seminar Room dell'University College ed inizierà alle 17.15.

lunedì, maggio 10, 2010

Un aforisma al giorno

"Sono diventato vecchio senza annoiarmi. L'esistenza è ancora una cosa mirabile per me, e io le dò il benvenuto come a un forestiero"

Gilbert Keith Chesterton, Autobiografia.

mercoledì, maggio 05, 2010

This is astonishing!

This is astonishing!: "

I wonder what St. Thomas would make of this.
"

martedì, maggio 04, 2010

L'assassino è sempre monsignore

L'assassino è sempre monsignore

Dopo Ipazia massacrata dai frati squadristi per le idee di Keplero, ecco Socrate corsivista di Repubblica e i promessi sposi atei militanti. In fondo basta un lieve anacronismo per fare di qualsiasi storia un grande film anticattolico
di Antonio Gurrado

Martedì 20 aprile, in una bella giornata serena dall’aria ferma e calda, trecento milanesi hanno disertato Parco Sempione per riversarsi nella Sala delle Colonne della Banca Popolare. Avevano piantato un maxischermo per Inter-Barcellona? C’era uno spogliarello? Davano soldi gratis? Meglio, andava in scena uno scontro fra titani mirabilmente sintetizzato dal lancio di Repubblica: «Umberto Eco e Vito Mancuso contro Papa Ratzinger». Per garantire la pluralità delle posizioni, in rappresentanza di Umberto Eco e di Vito Mancuso erano stati invitati Umberto Eco e Vito Mancuso, mentre in rappresentanza di Benedetto XVI parlava il noto Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e convinto assertore del «versante violento, maligno, fanatico di tutte le religioni». Il dibattito ha messo facilmente tutti d’accordo anche perché si parlava di Agora, un film che nessuno aveva visto perché sarebbe uscito nelle sale tre giorni dopo. Risultato: il film è un capolavoro, quindi il Papa farebbe bene a dimettersi.

Continua su Tempi.

L'altra giovinezza

Presentazione del volume di Tiziano Torresi "L'altra giovinezza. Gli universitari cattolici dal 1935 al 1940"

L'Istituto Luigi Sturzo e la Presidenza nazionale della FUCI hanno organizzato un incontro per la presentazione del volume di Tiziano Torresi, L'altra giovinezza. Gli universitari cattolici dal 1935 al 1940, Cittadella editrice, Assisi 2010


Interverranno
Vincenzo Cappelletti, Francesco Malgeri, Gerardo Bianco, Armando Matteo, Vittorio De Luca


11 maggio 2010, ore 18.00
Istituto Luigi Sturzo, Sala Perin del Vaga
Via delle Coppelle 35, Roma

lunedì, maggio 03, 2010

Il tonicissimo Paolo Pegoraro recensisce il San Francesco per i francescani...

Il tonicissimo Paolo Pegoraro recensisce il San Francesco per i francescani...: "
Eccovi la recensione del San Francesco d'Assisi a firma del grande Paolo Pegoraro uscita su «Italia Francescana. Rivista della Conferenza Italiana dei Ministri Provinciali dei Frati Cappuccini» sul numero 1/2010.

Gilbert K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia (Storie, Biografie, Diari), Milano 2007, 159 p., 15, ISBN 978-88-4253-900-1.

Gilbert K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Lindau (I pellicani 21), Torino 2008, 163 p., € 14, ISBN 978-88-7180-725-6.

Questo libro «benché piccolo di mole sembra tanto più prezioso dei grossi volumi che i servitori dell’erudizioni e i manipolatori della tradizione francescana suntuosamente prodigano per incantare il pubblico. Ci sembra che a quanti avvertono sintomi di sazietà per tutte le cose e le fiere che ci ha procurato il centenario francescano, questo libro sia consigliabile per far loro amare ancora il povero S. Francesco». A dare un giudizio tanto lusinghiero sul volume dello scrittore inglese G.K. Chesterton fu niente meno che Giovanni Battista Montini, a conclusione di un’ampia ed entusiastica recensione firmata su Studium 22 (1926 / n. 10, pp. 543-546). Parole che sembrano tagliate su misura anche per la conclusione dell’ottavo centenario della Protoregola francescana.

Nella sua trasbordante produzione, comprendente anche una decina di biografie letterarie, Chesterton scrisse solamente due agiografie: una dedicata al poverello d’Assisi (1922) e una al mendicante d’Aquino (1933). Un noto critico italiano ha affermato che in Chesterton si agitavano due anime, un don Chisciotte e un Sancho Panza, ma sarebbe più corretto dire che in lui quelle due figure letterarie presero carne e furono battezzate: da un lato san Francesco, l’allampanato e visionario uomo d’azione, e dall’altro san Tommaso, il gigantesco e concretissimo uomo di pensiero.

Ma veniamo all’opera presente, rimasta fuori commercio per diversi anni e ora disponibile nella traduzione di Barbara Mirò (Mursia) e di Giovanna Caputo (Lindau, con postfazione di Giulio Meotti), alla quale facciamo riferimento. Il San Francesco d’Assisi di Chesterton non è un’introduzione alla vita del Poverello quanto piuttosto, nota Montini, «una conclusione esplicativa e sintetica insieme». La vicenda umana di Francesco non viene raccontata per intero né ordinatamente, ma selezionando, amplificando e analizzando alcuni episodi nei quali appaiono gli aspetti più salienti della sua figura, collocata storicamente come soldato, come poeta e come santo. Deciso a conquistarsi la fama, con la penna o con la spada, Francesco si muove all’insegna della rapidità, preferendo «mosse fattive ed energiche al dubbio e all’esitazione». Ed è proprio grazie a questa sua completa apertura al reale, a questa disponibilità a ruzzolare di avventura in avventura senza preoccuparsi troppo del suo amor proprio e fino a rendersi oggettivamente ridicolo sotto ogni punto di vista, che Francesco scopre il segreto dell’esistenza: «essere il servitore e la figura secondaria». Quando l’ambizione cede le armi alla buffoneria, quando le pretese dell’io sono talmente disattese da prospettare soltanto l’autoestinzione o la risata, Francesco giunge a una condizione vicina alla spensieratezza, perché comincia a percepire ogni cosa naturale sotto una luce soprannaturale: quella della gratuità e della grazia. Sarà proprio la «scoperta di un debito infinito» a consegnargli la chiave d’oro dell’esistenza, poiché non v’è uomo – re o mendicante che sia – capace di guadagnarsi una stella o di meritarsi un tramonto. Convinto che «la vera roccaforte della realtà» sia nascosta proprio in questo senso «di immensa gratitudine e di sublime dipendenza», il Poverello abbracciò l’ascesi come un piacere e apparve ai suoi contemporanei non come uno stoico, ma, semplicemente, come un uomo felice. Aiutò la gente comune a essere tale in letizia. E se apparve come un poeta, nota ancora Montini, non fu perché ci donò versi altissimi, quanto piuttosto poiché visse poeticamente: Francesco si mosse non sotto la spinta della riflessione, ma di quella «espressione immediata dell’intuizione del reale» che è il nervo della poesia. E ancora: Francesco apparve come un cavaliere non in virtù della sua magra (e fallimentare) esperienza guerresca, ma per la sua cortesia universale. Egli non solo amava gli uomini: li rispettava. E prestava sincero interesse a chiunque, papa o accattone che fosse, come «un unico cortigiano che si muove tra cento re». E in questo servigio assoluto incluse anche il creato, senza però dissolvere i contorni delle cose come l’antico politeismo pagano: chiamò frate Foco e sorella Acqua, ma mai madre Natura, poiché «il culto della natura produce inevitabilmente delle reazioni contro natura». Chesterton tornerà a riflettere su questo punto quattro anni più tardi, nel racconto L’oracolo del cane (1926) della celebre serie di padre Brown: la natura è magnifica e tremenda, egli avverte, ma se non la si contempla alla luce del Dio fatto uomo, si finirà nuovamente per inchinarsi davanti agli idoli bestiali dell’antichità. Ci sono moltissime altre pagine che meriterebbero di essere citate da questo libretto scoppiettante e poco sistematico, eppure così ricco di suggestioni penetranti, ed espresse con immagini così indimenticabili e gioiosamente scanzonate, da essere entrato di diritto tra i grandi classici della letteratura francescana.

Paolo Pegoraro
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sabato, maggio 01, 2010

Un aforisma al giorno

Un aforisma al giorno: "
'La maggior parte della libertà moderna è alla radice paura. E non è tanto che siamo troppo audaci per sopportare le regole, ma è piuttosto che siamo troppo timidi per sopportare le responsabilità'.

Gilbert Keith Chesterton, What's Wrong With the World
"