martedì, dicembre 31, 2013

lunedì, dicembre 23, 2013

Nell'augurare buon Natale ai miei lettori ripropongo l'editoriale di Giuliano Ferrara pubblicato domenica scorsa su Il Giornale su un tema, appunto, natalizio.
AB

Mi permetto una divagazione di Natale sull'interruzione volontaria delle nascite o aborto. Non si dovrebbe, perché molti sono in severo disaccordo con quel che penso, perché la culla del Bambino suggerisce idee riposanti di lieta coesione e non uno scontro di assoluti, perché a volte sembra che la faccenda sia in via di risoluzione con qualche statistica più o meno edulcorata sulla «riduzione» del numero degli aborti eppoi pare che in Asia stiano tornando ad autorizzare, bontà loro, la nascita di milioni di piccole e fragili femmine soppresse dalla politica del figlio unico. Vi invito però a contare fino a 118.359, uno due tre quattro cinque sei sette otto, e alla fine della serie numerica, senza saltare nemmeno una unità contabile, a pensare che questo è il numero degli aborti praticati in Spagna nel 2011. Sono pochi, dicono. Pochi?
Il governo conservatore di Mariano Rajoy chiede alle Cortes di approvare una legge che reintroduce il delitto di procurato aborto, salvo lo stupro o un imminente, chiaro, presente, oggettivo pericolo per la salute psicofisica della donna incinta. La sanzione penale riguarda non la donna incinta ma il personale medico che accede alla pratica fuori della casistica stabilita a protezione del concepito o del nascituro, chiamatelo come volete questo embrione in sviluppo che la scienza e la fotografia ci mostrano nella sua individualità irripetibile a scorno dei chiacchieroni molesti che lo negano. La donna, dice la legge, è sempre vittima di tutta la faccenda. Non è soggetto di un diritto di libertà, come vuole l'ideologia del gender e di un antico femminismo radicale travestito da umanitarismo e da eugenetica a scopo di salvezza ecologica del pianeta Terra dalla sovrappopolazione, è oggetto invece di una convenzione sociale moralmente sorda e, per definizione, «maschia», secondo la quale degli incomodi ci si libera costi quel che costi e, al massimo, sarà lei a sopportarne le conseguenze, magari nella solitudine perfetta dell'aborto chimico (e clandestino) via pillola RU486.
La pillola che obbliga la donna incinta a fare da sé, magari con il pretesto di evitare lungaggini o l'obiezione di coscienza intoccabile, reintroduce infatti l'aborto clandestino, che fu la bandiera della campagna abortista degli anni Settanta (una legge permissiva ci libererà dalle mammane). Ora il cerchio si chiude e ciascuna è indotta a essere mammana in causa propria. Il cerchio della menzogna si è infine chiuso. Chiamatela salute riproduttiva o tutela sociale della maternità, e quest'ultimo titolo si è risolto - nonostante le buone intenzioni - in una sconvolgente prova di ipocrisia dell'Italia cattolica e miscredente, la legge abortista autorizza il castigo, del bambino non nato e della donna incinta, cancellando il delitto sociale di cui il concepito e la donna che lo porta sono innocenti, trasferendo quell'innocenza sulla società maschia, potente, dello scarto e del consumo, che si tappa le orecchie e si chiude gli occhi, non vuole sentire né vedere lo sconcio in atto perché è radicalmente colpevole.
Lo Stato può aiutare la «tutela sociale della maternità», ciò che era perfino nelle premesse tradite della legge 194 dei primi anni Settanta, in un solo modo, come in Spagna: esigendo il rispetto rigoroso del principio di realtà secondo cui un atto d'amore genera un essere umano di forma compiuta, che attende di passare all'atto, e un gesto di odio nichilistico di sé e degli altri impedisce che la generazione si compia, nel doppio dolore fisico e morale della madre mancata e del figlio mancato. Lo stato che non mente a se stesso, e in questo è parte di una società capace di autogovernarsi e di darsi i criteri di una vita vivibile e libera, favorisce le adozioni, come nella medievale ruota dei conventi, impone politiche pubbliche di dissuasione, ospita in cimiteri appositi, e non in body bags con la scritta «rifiuti ospedalieri», i feti sradicati nei rari casi in cui un aborto si renda necessario, stanzia soldi per la ricerca sulle malattie genetiche, molti, e molti ne stanzia per persuadere, per spiegare, per convincere comunitariamente, senza nulla togliere alla libera responsabilità degli individui «finché questa non leda la libertà degli altri», cioè la libertà di nascere.
Le poche esperienze di santità laica, come quella di Paola Bonzi alla Mangiagalli di Milano, migliaia di bambini salvati e di madri salvate dalla decisione irriflessa per l'aborto attraverso la cura affettiva e la conversazione fraterna e sororale, dovrebbero diventare leggenda e mito, invece che essere trascurate e umiliate in favore delle sciocchezze sulla libertà riproduttiva. Insomma, la Spagna di Rajoy insegna, e sarà una strada lunga e difficile, che si può continuare a combattere anche nella sgualcita Europa l'orrore di una secolarizzazione come religione del nulla, come esperienza anticristiana, il che non ha niente a che fare con la posizione del Vaticano (come si vede bene da molti segni anche pontificali), perché riguarda laicamente la ragione sorretta dal sentimento della cosa (e per i fedeli dalla fede) che è in tutti noi.
Giuliano Ferrara

giovedì, dicembre 19, 2013

C’è sottomessa e sottomessa

C’è sottomessa e sottomessa:
sposati
di Costanza Miriano  Il Foglio 18 dicembre 2013
Pensa che c’ero caduta anche io. Col fatto che da un mesetto rispondo a giornalisti stranieri che mi chiedono “perché sottomessa?” (in molteplici varianti tra cui “cos’è la sottomissione?” e, la più stupida, “chi lava i piatti a casa sua?”), e lo faccio in varie lingue (itagnolo, inglano) con abnegazione e grande padronanza di me, cercando di evitare alterazioni isteriche del tono di voce, mi ero ingenuamente convinta che fosse la parola sottomessa a disturbare nel titolo del mio libro.
A far scomodare addirittura la ministra della sanità e delle pari opportunità, Ana Mato, che ha chiesto il ritiro in Spagna del mio libro “Cásate y se sumisa” dal commercio. A far parlare l’intero parlamento spagnolo (sono contenta di sapere che tutti i problemi più urgenti del paese siano stati finalmente risolti, tanto da poter mettere all’ordine del giorno il libro di una sconosciuta moglie e mamma italiana che scrive lettere alle sue amiche per convincerle a sposarsi: pare che il prossimo tema di discussione sarà la sfumatura delle casacche di Topolino nei fumetti degli anni ’50). A farmi finire in vari programmi della BBC (strano, in Italia nessuno si è accorto che un governo stava chiedendo la censura di un’italiana, ma in Inghilterra si sono scandalizzati), tra cui le News Night, in cui mi sono buttata a spregio del pericolo col mio inglese da lesson number two (the book is on the table), tanto per la soddisfazione di citare John Paul the second sul programma di punta della terra anglicana.BBC3
Pensavo anche, in un ingenuo attacco di comprensione, che la parola sottomissione potesse avere evocato, in qualche donna più grande e più insicura di me, lo spettro di antichi ricordi di tempi in cui si doveva lottare per affermare la pari dignità tra uomo e donna, dignità che oggi nessuna ragazza europea normale sente realmente messa in discussione.
Poi ho fatto la scoperta. Ci sono diversi libri in vendita in Spagna con la parola sumisa nel titolo. Per esempio Aprendiendo a ser sumisa, o La formaciòn de la mentalidad sumisa, e molti altri ben più espliciti. Occhieggiano tranquillamente dagli scaffali delle librerie – e ci mancherebbe – senza che nessuno abbia trovato nulla da ridire.
Allora il problema, mi dico, non è quello. Gridano tutti che il mio titolo è offensivo. Deve essere dunque per forza la parola Casate, sposati. Strano, perché il ministro che ne chiede la messa al bando per incitazione alla violenza sulle donne è del PPE, partito che una volta fu cattolico, anche se la signora non avverte la contraddizione di essere titolare di un ministero responsabile di centinaia di migliaia di aborti all’anno (uccisioni almeno presumibilmente anche di bambine: ma quella pare non sia violenza sulle donne).
Dunque va bene sottomettersi, ma sia ben chiaro, solo sessualmente, a un amante, sottomettersi in cinquanta sfumature a un passante, a chiunque, anche all’idraulico che viene a controllare la caldaia. Libri così non vengono avvertiti come offensivi della dignità della donna. Proporre invece un atteggiamento interiore (per la seicentesima volta: sì, le donne possono lavorare, e no, non sono una casalinga, ma una giornalista tv), una disposizione spirituale di dolcezza, di accoglienza, di obbedienza a un solo marito, sempre allo stesso, a un uomo che sarà pronto a morire, cioè a dare tutto alla sposa senza risparmiare niente, questo invece viene percepito come offensivo per la dignità femminile, ma talmente offensivo da far ravvisare addirittura la possibilità di un reato: istigazione alla violenza sulle donne (dove? In quale frase, parola, virgola, o retropensiero la violenza viene vagamente incoraggiata, giustificata, scusata, o anche solo nominata, nel mio libro? Dove?). Il punto è che la dolcezza femminile disinnesca la parte peggiore dell’uomo, e lo rende nobile. Non ha nulla a che vedere con la violenza, anzi, al contrario.
Parliamoci chiaro: è il matrimonio il vero obiettivo della polemica, che continua con sorprendente tenacia da settimane, sulle prime pagine dei giornali e sulla rete, in televisione e in radio. E lo scandalo si allarga: i giornalisti ormai chiamano dalla Colombia, dall’Argentina, dal Messico, dalla Francia, dal Belgio, dall’Inghilterra, dalla Russia…
Cosa esattamente sconvolge nell’idea del matrimonio? Del matrimonio cristiano, precisamente?
Fondamentalmente l’uomo contemporaneo può accettare tutto tranne l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stesso. Non può accettare la possibilità che non sia sempre bene seguire le proprie emozioni, inclinazioni – i pensieri quando è già a uno stadio più progredito – la propria idea di bene e di male. È tutto lì il punto del cuore dell’uomo, dalla Genesi in giù: sono io che decido cosa è Bene e Male?
Il vero nodo della questione è che noi cristiani siamo contenti di obbedire perché sappiamo a chi obbediamo: abbiamo conosciuto, davvero, personalmente, un pastore buono, un pastore che pasce gli agnelli e non i lupi. È per questo che ci piace ascoltare la voce del pastore, non perché siamo repressi, ma perché siamo furbi. Abbiamo capito che quello è il meglio, che ci conviene seguirlo, perché lui è l’autore dell’universo, del dna, della fisica, dei movimenti degli astri. Figuriamoci se non sa come funzioniamo noi, suoi figli (che invece non solo non abbiamo idea di come funzioni l’universo, ma abbiamo problemi anche col tostapane. E con l’uomo, mistero a se stesso). Io capisco dunque l’odio che suscitiamo noi cristiani, stoltezza di fronte al mondo: è un mondo che non sa quanto è buono il Padre, e quindi lo vuole uccidere (lo ha idealmente accoppato già da tempo). Se togli l’amore di Dio, obbedire, sottomettersi, la croce, nulla di tutto questo ha senso.sposala
Qualsiasi cosa, anche morire (il mio secondo libro, Sposala e muori per lei, non ha fatto fremere di sdegno mezzo labbro) può essere accettata. Ma obbedire a qualcuno che non sia me stesso, quello no. Non si può tollerare.
Eppure per noi quello è il primo comandamento: ascolta, Israele. Non fidarti di te. Ascolta una voce che non provenga da te stesso. Sappi che il tuo cuore, ferito dal peccato originale, a volte è inaffidabile. Ascolta uno che ti ama e che spinge dalla tua parte più ancora di te stesso, che ti ama come un figlio unico.
Per questo la Chiesa propone agli uomini impegni definitivi che lo custodiscano da se stesso. “Il matrimonio cristiano – scrive per esempio papa Francesco nella Evangelii gaudium – supera il livello dell’emotività. Il matrimonio non nasce dal sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto”. Per noi cristiani il matrimonio è una via di conversione, un laboratorio in cui l’uomo e la donna affrontano i loro peccati – o, laicamente, i difetti – principali: il desiderio di controllo femminile e l’egoismo maschile, esattamente ciò di cui parla san Paolo.
Ma l’uomo contemporaneo, che ha dimenticato la visione giudaico cristiana della storia come lineare e non ciclica, è un bambino tutto emotività, assolutizza il comfort, il soddisfacimento dei propri bisogni immediati e superficiali, impedendosi di capire quelli più profondi. Impedendo per esempio alle donne di riconoscere che quello che le realizza profondamente è dare la vita per qualcuno, e darla facendo spazio, mettendo da parte la mania di controllo per affidarsi a un uomo solido e sicuro, riconoscendone la bellezza, rivelandola anche a lui stesso. L’uomo viene così restituito a se stesso – Dio affida l’umanità alla donna, scrive Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem – e può così scoprire la bellezza di dare la sua vita per la sposa, morendo per lei, seppur giorno dopo giorno, a fettine, salvando il mondo una pratica alla volta.YOUNG POLISH WOMAN EMBRACES POPE JOHN PAUL II
La cultura dominante tenta in tutti i modi di abbattere il recinto del tempio della trasmissione della vita, e di tagliare tutti i vincoli che appunto legano il sesso all’unione indissolubile tra due anime che cercano per tutta una vita di diventare una sola carne (in unam carnem, moto a luogo). È questo che dicono i loro corpi e questo dicono – con i loro corpi fatti di geni e cellule impastati inscindibilmente – i figli che nascono da quell’unione. Dicono che l’intimità sessuale è sacra, ed è ciò a cui Dio ha affidato la trasmissione della vita: una visione magnifica e sconvolgente. Può essere sublime o terribile, ma non potrà mai essere neutra, né per l’uomo né per la donna. Mai il sesso potrà dunque essere normalizzato, banalizzato, ma avrà sempre a che fare con qualcosa di sconvolgente, con una dedizione che un giorno potrà anche sembrare non corrisponderci più, ma che ha toccato la nostra più profonda essenza.
Un uomo e una donna così sono reciprocamente sottomessi solo al loro cammino di conversione a Dio, e sono liberi dal pensiero dominante, dal totem della laicità, sono liberi e non manipolabili, e questo non è tollerabile dal pensiero unico.
È per questo che noi cristiani veniamo censurati. È per questo che in Francia ogni giorno decine di ragazzi finiscono in carcere nel silenzio generale, perché hanno indossato una maglietta con l’immagine di una famiglia, o perché hanno recitato il rosario fuori da una clinica dove si uccidono i bambini nel posto più sicuro del mondo, sotto al cuore della loro mamma. È per questo che le persecuzioni e le uccisioni dei cristiani nel mondo vengono sistematicamente taciute. È per questo che chi si oppone alle teorie del gender in alcuni paesi rischia il posto di lavoro, (forse leggendo l’incredibile decalogo che lUNAR, l’Ufficio nazionaleantidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità vorrebbe imporre ai giornalisti, anche noi: esempio, dire “utero in affitto” sarà discriminatorio, occorrerà dire “gestazione di sostegno”) anche se le teorie di genere sono appunto teorie, e quindi andrebbero dimostrate, e comunque non imposte con la forza. È per questo che una giornalista norvegese, neanche particolarmente fervente, è stata rimossa dalla conduzione del tg perché indossava una croce di due centimetri al collo.
Noi cristiani invece non censuriamo. Noi viviamo in una casa bella, pulita, divertente, libera, dove si respira una buona aria. Dove tutto, persino il dolore, ha un senso. Noi se vediamo qualcuno che abita in un posto brutto sporco e triste non è che ci arrabbiamo, casomai ci dispiace per lui. Al limite lo invitiamo a casa nostra, per fargli vedere come si sta bene vivendo senza idoli, quando tutto sta al proprio posto. E se proprio siamo parecchio avanti nel cammino, ci offriamo anche di andare a casa dell’amico, a mettere a posto insieme a lui (non guardate me, io ho già i miei, di calzini da raccogliere, con dodici piedi in giro per casa).
fonte: Il Foglio


mercoledì, dicembre 18, 2013

Jamel Akib

Jamel Akib:
Jamel Akib
Jamel Akib is an illustrator, gallery artist and portraitist based in West Sussex, England.
His range of style reaches from straightforwardly realistic to images composed of blazing shards of color, often with rough sketch-like elements of drawing incorporated with the more paint-like finish of key areas.
Akib takes great advantage of the properties of pastel that allow properties of drawing and painting to be employed in the same image.
His website features galleries of images in several genres, along with information about classes and demonstrations.

venerdì, dicembre 13, 2013

Dateci, o Dio, gioie pure, dolori sopportabili, amore paziente, lieta e forte concordia nel bene. Datemi un pane per lei. Se destinato a esser padre, donatemi vita e virtù da educare i miei figli. Se i giorni a me numerati son brevi, nelle vostre mani raccomando, Signore, questa che è ormai tanta parte dell’anima mia. Con l’esempio e con la parola dateci di consolare e nobilitare l’anime de’ fratelli. Insegnatemi a espiare le colpe mie tante, che non ricadano sulla povera famiglia mia. Perdonatemi. Benediteci. In voi temendo esultiamo: in voi, lieti o afflitti, riposeremo.

martedì, dicembre 10, 2013

Esce Distributismo. Una politica economica di equità e giustizia, di John Medaille, traduzione a cura del Movimento Distributista Italiano

Esce Distributismo. Una politica economica di equità e giustizia, di John Medaille, traduzione a cura del Movimento Distributista Italiano:
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente comunicato stampa:


Quale presidente del Movimento Distributista Italiano sono lieto di comunicare l’avvenuta pubblicazione del volume “Distributismo. Una Politica Economica di Equità e Giustizia” di J. Médaille. Il libro, di cui ho curato la traduzione in collaborazione con alcuni soci e con la casa editrice Lindau, non poteva uscire in un momento più opportuno.
Lo situazione appare infatti quanto mai desolante, principalmente per la compresenza di due fattori:
la gravità dei problemi economico-sociali che attanagliano gli individui e le famiglie e l’incapacità dei politici  non solo di risolvere in tempi brevi questa situazione ma anche di indicare almeno una strada concreta, ragionevole, plausibile e percorribile per rimettere le cose a posto.
Si brancola nel buio, abbandonato completamente il timone della ragione, appigliandosi freneticamente ad affermazioni ammantate di valore pseudoscientifico ma in realtà destituite di ogni solido fondamento: “dobbiamo puntare sulla ripresa dei mercati”, “dobbiamo ridurre il debito”, “dobbiamo fare la spending review”, “dobbiamo rimanere dentro i parametri fissati dalla Comunità Europea”.  Si tratta di parole d’ordine impartite da una minoranza di burocrati, finanzieri ed economisti assoldati dalla finanza, che hanno ormai conquistato l’universo semantico di chi si occupa della cosa pubblica e non lasciano più spazio a ragionamenti sensati per comprendere davvero quali siano le cause profonde di questa crisi, i mezzi per risolverla e gli antidoti per non ricaderci.
Il merito del libro del Prof. Médaille è innanzitutto quello di proporre un metodo, il metodo della ragionevolezza, dove per ragionevolezza si intende la capacità innata nell’essere umano di applicare la ragione alla realtà che lo circonda.
Se tutti i cittadini utilizzassero tale loro capacità scoprirebbero da soli ciò che il Prof. Médaille denuncia in questo libro:
-       L’esistenza di un sistema monetario in cui il denaro viene creato dal nulla  - “fiat money” - solo ed esclusivamente come debito di Stati e cittadini verso il sistema bancario, generando in maniera ineluttabile la spirale generalizzata di debito che vediamo sotto i nostri occhi  o, in altri termini, creando il predominio totale della finanza sull’economia reale.
-       L’esistenza di un’ingravescente sperequazione nella distribuzione dei beni e della proprietà, con l’1% della popolazione che diventa sempre più ricca ed il 99% che diventa sempre più povera, a causa della nefasta separazione tra capitale e lavoro, vero e proprio dogma capitalista, per cui il sistema legislativo-fiscale vigente penalizza invece di favorire il ricongiungimento tra questi due fattori, impedendo una distribuzione equa e funzionale delle risorse.
-       La sottrazione, ai danni del cittadino, di ogni spazio realmente partecipativo in cui poter prendere le decisioni importanti legate al lavoro ed alla vita quotidiana (formazione, qualità della produzione, onorari minimi e massimi, tassazione, previdenza). Ciò ha portato alla progressiva disumanizzazione del lavoro stesso e alla sua pressoché totale subordinazione alle forze cieche del “libero mercato”, cioè alla legge del più forte.
Di fronte a tutto ciò, il Prof. Médaille non propone certamente facili ricette ma propone, appunto, il Distributismo, i cui presupposti di fondo sono stati enunciati dai suoi fondatori, G.K.Chesterton e H.Belloc, due uomini di cultura e politici inglesi, nei primi decenni del XX secolo.
In sintesi, i principi del Distributismo sono i seguenti:
       -   Il denaro è uno strumento al servizio dell’uomo e dell’economia. In un sistema monetario, quale quello attuale, in cui il denaro ha valore intrinseco pari a zero, la sua proprietà al momento dell’emissione spetta alla comunità ed alle istituzione pubbliche che la rappresentano e non ad enti bancari estranei allo Stato, come avviene oggi.
-       Equità ed efficienza economica coincidono, cioè la proprietà, per essere gestita al meglio, e quindi fruttare di più, deve essere il più possibile distribuita: un solo uomo che è padrone di 100 ettari sarà in grado di curare quella terra molto meno di 100 uomini proprietari ciascuno di 1 ettaro. La distribuzione della proprietà è un processo naturale in una società che tende all’unione tra capitale e lavoro nella singola persona, mentre la separazione tra capitale e lavoro è foriera di sperequazione sociale e quindi alla lunga di insostenibilità e scarsa prosperità del sistema-paese, come possiamo constatare.
Considerando il capitalismo per definizione l’ideologia che propugna la divisione tra capitale e lavoro, il Distributismo si definisce decisamente anticapitalista.
Considerando invece il social-comunismo l’ideologia che propugna l’eliminazione della proprietà privata e la concentrazione di ogni potere nelle mani dello Stato, ilDistributismo si definisce decisamente anti-comunista.
In generale il Distributismo prende le distanze da ogni ideologia che voglia imporre il suo modello sulla realtà invece che creare le condizioni ideali per il suo sviluppo naturale.
-       Chi prende parte alla vita lavorativa deve poter partecipare alle decisioni che riguardano tutti gli aspetti più importanti del proprio settore di attività. In questo modo la competenza e l’esperienza dei singoli potrà essere valorizzata ed essere messa al servizio della comunità . L’autorità centrale dovrà solo vigilare circa il rispetto dei principi del bene comune.
-       La famiglia è la cellula vivente che consente al corpo sociale di prendere forma ed articolarsi nelle sue mille varietà. Essa va pertanto particolarmente tutelata, se si vuole mirare alla prosperità economico-sociale.
Su queste basi risulta evidente che il Distributismo propone certamente un programma rivoluzionario, non perché insegua un utopico paradiso terrestre o sia animato da un mero impulso destabilizzatore, ma perché umilmente richiama i contemporanei, come detto all’inizio, a quei principi universali di ragionevolezza che sembrano essersi smarriti e su cui solo si possono fondare le basi di una società che si definisca umana: il Distributismo è pertanto rivoluzionario così come si può definire rivoluzionario oggi l’utilizzo della retta ragione in riferimento al bene comune.
L’augurio quindi è che questo libro possa contribuire ad iniettare semi di speranza nel dibattito politico-culturale attuale, superando gli sterili steccati ideologici vecchi e nuovi e favorendo una rinnovata coesione dei popoli.

                                                                                  Dr Matteo Mazzariol
                                                       Presidente Movimento Distributista Italiano (MODIT)


Bergamo, 22 Novembre 2013

lunedì, dicembre 09, 2013

The mission

When the runners came from Bethlehem
All breathless with good news
They were passing a baton forward through time
The commission, from God's lips to our ears
Carried by His saints two thousand years
Connects us all to the same lifeline
As I fix my eyes ahead
I can feel the Spirit's breath...

(And) I can hear the mission bell ringing out loud and clear
It's the revolution Jesus started, and it's here
Echoing across the world from the shores of Galilee
I can hear the mission bell call for you and me
I wanna run with fire
It's my heart's desire
Lifting your love higher

In the history of our faith's arrivals
Great awakenings, Welsh revivals
Saints and martyrs, summoned by a new birth
Patrick's save of the Irish nation
Willian Carey's expectation
Lambs and Lions
Called to the ends of the earth
Gotta put my hand to the plow
Not looking back, not now...


venerdì, dicembre 06, 2013

Un gigantesco Quinbus Flestrin tutto da scoprire. Nella monumentale biografia di G. K. Chesterton scritta da Ian Ker

Un gigantesco Quinbus Flestrin tutto da scoprire. Nella monumentale biografia di G. K. Chesterton scritta da Ian Ker:
Enrico Reggiani (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano)
L’Osservatore Romano, a. 153, n. 187, sabato-domenica 17-18 agosto 2013, p. 4chesterton
   Ian Ker, sacerdote cattolico e docente di teologia dell’università di Oxford, è senza dubbio un maestro della scrittura biografica: ne ha già dato prova in un recente passato con quella che è considerata la fonte più autorevole e pressoché definitiva sulla vicenda umana di John Henry Newman, apparsa nel 1990 per i tipi di Oxford University Press. A lui si devono anche significativi contributi sull’esperienza letteraria e culturale dei cattolici inglesi tra diciannovesimo e ventesimo secolo, tra i quali si segnala soprattutto The Catholic Revival in English Literature 1845-1961 pubblicato da University of Notre Dame nel 2003. In virtù di tali competenze e dei meriti conquistati in tali ambiti, non sembrerebbe esistere studioso più legittimato e autorevole di Ker a compiere altri passi sulla strada della valorizzazione dell’esperienza culturale e letteraria dei cattolici inglesi nel passaggio tra chestertonl’ottocentesco Catholic Literary Revival il “transizionale” (tra Ottocento e Novecento) Catholic Literary Modernism, proposta terminologica, quest’ultima, non comoda e non soltanto accademica, che Christopher Wachal della Loyola University suggerisce di intendere come «risposta specificamente cattolica alle esigenze politiche ed intellettuali della modernità».
   In effetti di recente Ker ha compiuto almeno un passo importante su tale strada virtuosa e sempre più attesa. Ne è scaturita una nuova biografia (Chesterton. A Biography, Oxford University Press, 2011) un poderoso volume di settecentoquarantasette pagine — tre in più della sua precedente fatica newmaniana — dedicato a Gilbert Keith Chesterton, un’opera monumentale come il soggetto biografato, che fu descritto da George Bernard Shaw nel 1906 con i tratti di Quinbus Flestrin, con cui i lillipuziani di Swift… 
[il resto dell'articolo è reperibile in questo pdf scaricabile a p. 4. © Riproduzione riservata].
bistròLo straordinario e monumentale GKC sarà anche al centro di un incontro  dell’IRISH CLUB presso il Bistrò del Tempo Ritrovato, via Foppa 4 (Milano), lunedì 9 dicembre 2013, ore 19
“Non debole, irrealistica, arretrata”. GILBERT KEITH CHESTERTON e l’Irlanda nelle sue IMPRESSIONI IRLANDESI (Edizioni Medusa, 2013)
Intervengono Alessandro Zaccuri ed Enrico Reggiani.
Ingresso libero

mercoledì, dicembre 04, 2013

Il BOTTONE, dicono di lui

Il BOTTONE, dicono di lui:
E' il confine immaginario e fisico tra il mondo esteriore e il mondo interiore. Gianni Veneziani
E' uno degli oggetti che esprimono meglio il rapporto interno-esterno. L’ho usato spesso per rappresentare questo binomio in architettura e nel design. Ugo la Pietra
bottone in piombo 1970
E' il confine fra la realtà e la fantasia. Giuseppe di Somma
bottone inglese 1800 in vetro pitturato a mano con oro
E' un piccolo oggetto che apre e chiude anche i ricordi. Greco e Politi
bottone 1920 in metallo
E' chiave d’accesso a segrete intimità corporee. Pino Micella
E' entrare, uscire, chiudere, aprire, attraversare ed essere attraversato. P. Rosulo
Accedere all’intimità altrui attraverso il pertugio lasciato aperto dal bottone slacciato. Quanti lo vogliono? E’ più facile creare una cortina fumogena,una diga, una barricata, un filo spinato. Occhiomagico
Ad ogni apertura una nuova esperienza. Nenad Javanovich
bottoni Swarovski
E' il è il padre della zip. E. Spicciolato
E' più silenzioso di una zip, più armonioso di uno strap, accende e spegne la fantasia, apre e chiude spiragli e possibilità. Vannicola e Palma
bottoni 1980 in metallo e strass azzurri
E' un gioco di società che invita gli altri a farsi manipolare per farti scoprire. Lillo Milici
bottone gioiello 190
E' il limite oltre l’immaginario. Silvio De Ponte Conte
E' sempre magico. Claudia Batzing
E' un elemento di soglia, il limite ultimo che schiude su la nudità. Aprire un bottone è un gesto non necessariamente autonomo, può coinvolgere una seconda persona, qui entrano in gioco rapporti spesso non codificati, che comportano una complessità di rapporto con l’ oggetto, che diventa il nucleo su cui si giocano i drammi del rapporto interpersonale. Allacciare un bottone e quasi sempre un gesto drammaticamente individuale. Mario Cananzi
E' una lunga e noiosa chiacchierata. Andre Natrell
bottoni poliestere 2013
Tomber dans la magie d’una surprise. Pietro Del Vaglio
E' positivo e negativo. Hakan Gengol
bottone argento con cuore in smalto 1920
E’ il contatto con il bottone che si accende la fantasia e il desiderio …Giorgio Gallavotti

lunedì, dicembre 02, 2013

Luci e ombre nella ripresa della Tigre Celtica, l’Irlanda

Ospitiamo questo articolo di Giacomo Giglio della Rivista di Affari Europei Europae:
Ireland MODIS 218x300 Luci e ombre nella ripresa della Tigre Celtica, l’Irlanda
Il 29 novembre 2010 l’Irlanda, glorificata nei libri di economia di mezzo mondo come mirabile esempio di economia dinamica in espansione e assediata dalle richieste delle multinazionali di poter aprire la sede legale sul suo territorio, vista la tassazione degli utili d’impresa all’aliquota bassissima del 12,5%, entrò nel girone dannato dei Piigs, affiancando la Grecia nella sua richiesta di aiuto alla Troika composta da BCE, Commissione Europea e FMI. Proprio pochi giorni fa, l’incubo è finito: Dublino è uscita dalla procedura di salvataggio, rimborsando gli ultimi prestiti internazionali.
Molti osservatori hanno colto la palla al balzo per esaltare le virtù delle politiche di austerità. Per una volta, l’austerità sembra non aver creato un Frankenstein, ma un bel principe pronto a nuove avventure, tanto che l’Irlanda si dice già pronta a tornare sul mercato dei capitali. Tuttavia, sbandierare il successo della rinata Tigre Celtica potrebbe rivelarsi pericoloso: non solo perché è stato dimostrato che l’austerità nei piccoli Stati tende a fare danni minori, ma anche perché la ripresa irlandese è dovuta, in massima parte, all’indebitamento statale, come reso chiaro dal seguente grafico.
Schermata 2013 11 27 alle 20.23.36 300x163 Luci e ombre nella ripresa della Tigre Celtica, l’Irlanda
Fonte: www.cso.ie
Ebbene, rispetto al periodo ante-crisi, identificabile grosso modo con il secondo trimestre 2007, il debito pubblico è aumentato, in rapporto al PIL, di quasi sei volte, un aumento davvero esponenziale. Questo fatto, a dir la verità non così pubblicizzato dai media che hanno parlato repentinamente di “miracolosa” uscita dalla crisi, permette di dedurre due lezioni:
• Senza un salvataggio pubblico, l’Irlanda non ce l’avrebbe mai fatta. Certo, gli investimenti esteri sono importanti, ma bisogna ricordare di non fare troppo affidamento su di loro, come insegna bene la crisi asiatica del 1997-98. I capitali esteri tendono a scappare ai primi scricchiolii, anche se, come ha fatto e continua a fare il Paese del Trifoglio, si mantiene un regime fiscale di favore per le grandi imprese.
• Il “propellente” del debito non è necessario nella fase del crollo, ma è strategico anche per ottenere una ripartenza dell’economia reale. La soglia del rapporto debito pubblico/PIL del 60% prevista dal Trattato di Maastricht non è la Bibbia.
L’Irlanda nel 2010 era come un corpo che perdeva copiosamente sangue: il debito ha permesso di ristrutturare il sistema finanziario, ridotto in ginocchio dalle sregolatezze del boom immobiliare, e di dare ossigeno ad un’economia reale che, in ogni caso, negli ultimi anni ha continuato ad essere molto flebile, visto che Dublino è cresciuta di appena lo 0,3% nel 2012. In altre parole: il debito non ha risolto tutti i problemi, ma ha certamente evitato un tracollo. Se l’Irlanda si fosse attenuta strettamente al parametro del 60% (che peraltro non è rispettato da quasi nessun Paese dell’Unione Europea, il che fa molto riflettere circa la credibilità di queste soglie), la sua crescita sarebbe stata ancor più anemica.
La risalita di Dublino è stata inoltre corroborata da un forte calo del costo del lavoro unitario, similmente a quanto sta accadendo in Grecia e Spagna. Dal 2008 al 2015 il costo del lavoro unitario calerà quasi del 15%, aumentando l’appeal della manodopera locale. La svalutazione interna resta l’unica via percorribile in un’area valutaria unica in assenza di aggiustamenti dei cambi. Tuttavia, considerato che la disoccupazione nel Paese rimane al di sopra della preoccupante soglia del 13% e che molti giovani stanno emigrando, sussistono molti dubbi circa gli effetti che un calo del costo del lavoro, unito ad una simmetrica stagnazione delle retribuzioni, possano arrecare ad un’economia in convalescenza. Il grafico sottostante pare eloquente.
Schermata 2013 11 27 alle 20.25.56 Luci e ombre nella ripresa della Tigre Celtica, l’Irlanda
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L’Irlanda si sta avvicinando in maniera inquietante alle soglie della deflazione, causata da uno stallo della domanda interna: uno spettro che ormai aleggia sull’intera Europa, ma di cui i tetragoni difensori del rigore – che il premier italiano Enrico Letta ha creativamente definito “ayatollah” – sembrano non curarsi. La stazza della ripresa irlandese dipenderà molto dalle scelte, o dalle non-scelte, che si faranno a Francoforte nei prossimi mesi.


By GPG Imperatrice
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 da Scenari Economici