martedì, aprile 22, 2025

I trappisti, monaci taciturni

 Ausculta, o fili. Obedientiam sine mora. Ora et labora.


I tre motti di San Benedetto si incontrano all’inizio del viale che conduce alla celebre clausura. Intorno, uno stormire di alberi giganti, una sinfonia solenne di venti, come un’orchestra al passaggio dell’Apostolo delle genti, che qui subì il martirio.
Salutato il principe degli Apostoli sulla via Ostiense con l’ultimo abbraccio fraterno, Paolo saliva quassù per essere decapitato. Pietro, invece, si avviava al Gianicolo, per affrontarvi la crocifissione.

Se ad Assisi spira un’aria francescana, qui si respira chiaramente aria paolina e petrina, che si effonde per tutta l’Urbe e pare conferire austerità alle sue mura.

Come fossi attratto lungo la via Laurentina, fino alle Acque Salvie, me lo chiesi leggendo i molti benedettini. E mi rispose un passo delle celebri Lettere di Celestino VI, là dove — questo Papa di fuoco — rivolgendosi ai monaci e ai frati, li chiama: «Avanguardie di arietatori e pionieri dell’Armata di Dio; falangi spartane e macedoni della Chiesa; ora lance spezzate, ora opliti, ora cavalieri catafratti, ora fantaccini eroici nella gigantesca battaglia contro l’Avversario».

Ma tutto ciò riguarda il passato.

«Il monachesimo — continua Celestino VI — fu, in origine, fuga dal mondo; oggi appare, per molti aspetti, fuga dalle regole accettate e dalle responsabilità liberamente assunte. Negli Ordini che posero come obbligo il lavoro delle mani, non si lavora quasi più, o appena si rassetta un orticello poco più grande d’una tovaglia d’altare.»

— Vede questo cuoio? — mi dice padre Bernardino, mostrandomi la cinghia che gli cinge i fianchi — Spesso si è bagnato di sudore.

— E come, padre?

— Lavorando nei campi — e me li indica, distesi a perdita d’occhio — zappare, seminare, potare, mietere, vendemmiare.

— Stretta osservanza?

— Sveglia alle due; fino alle cinque in chiesa per l’Ufficio, la Messa, la meditazione. Poi venti minuti di intervallo. Di nuovo in chiesa per l’Ufficio di «prima», poi lettura di un capitolo della Regola o del «capitolo delle colpe».
Mezz’ora di libertà, da dedicare alla lettura. Poi Messa cantata. Non meno di tre ore di lavoro sulla terra. Ancora Ufficio, quindi pranzo.

— In cosa consiste?

— Una minestra e una porzione: abolita la carne, il pesce, le uova.

Hai capito, Celestino? Poco pane e poco vino, come alle origini. E il pane guadagnato sulla dura zolla che i cisterciensi bonificarono anche con il sacrificio della vita. Silenzio ermetico.
La giornata si chiude tra preghiera e lavoro, con un cantuccio di pane e una mela. È la cena dei trappisti.

Comprendo allora perché Pio IX, quando volle restituire splendore alle Tre Fontane — ricordando che i cisterciensi avevano retto con onore l’abbazia per sette secoli e che san Bernardo, con la visione di Scala Coeli, ne aveva assicurato loro il possesso — vi stabilì proprio i trappisti, i monaci taciturni e dissodatori, autentici eredi di quelle avanguardie care anche a Giovanni Papini.

Padre Bernardino si è congedato per correre in chiesa. Non mi resta che incamminarmi, da solo, giù per il viale che porta alla Chiesa delle Tre Fontane, sorta sul luogo dove Paolo fu decollato.

S. Paulus Apostolus – Martyrii locus – Ubi tres fontes - Mirabiliter eruperunt.

La bella testa, spiccata dal busto sulla mozza colonna miliare, sprizzò sangue e latte, in segno di grazia. E ad ogni balzo scaturì dalla terra una fonte d’acqua viva.

Il fariseo crudele, il rastrellatore inesorabile di cristiani, ora mi è dinanzi, crollato dal suo cavallo bianco sulla via di Damasco. Gesù gli grida:

«Saulo, perché mi perseguiti?»

Perseguitava il suo Corpo Mistico e non sapeva di essere già strumento eletto, per portare il Suo nome davanti ai Gentili, ai re e ai figli d’Israele.

— Signore, che vuoi ch’io faccia? — risponde Paolo, tramortito d’amore. — Alzati ed entra in città: ti sarà detto.

I suoi compagni di viaggio rimasero attoniti: udirono la voce, ma non videro nessuno. Un’eco di quella voce è rimasta tra bosco e abbazia, vivificata nei secoli dalla luce del martirio.

Benigno

 

27 aprile 1947

lunedì, aprile 21, 2025

Arsura

Il traffico dei talenti


Ogni volta che m’accade di avvicinare un potente, o comunque chi abbia governo d’uomini, mi studio di sapere come spenda i suoi talenti. E se vengo a conoscere che li sotterra, cioè li spende male, lo considero un reprobo, anche e soprattutto se gode del benessere materiale. So che il Signore non gli perdonerà dinanzi al suo Tribunale, specie se la superbia lo affligga.

 

Preghiera


Signore, come hai cambiato in Cefa (= pietra, roccia) il nome di Simone, degnati di volgere anche sul mio povero nome il tuo sguardo. Sono ormai giunto ad una svolta che, come Pietro, posso dirti con tutta l’anima: «A chi ne andremo? Tu solo hai parole di vita eterna». Tu non m’hai fatto pescatore d’uomini, ma vedi, per quanto sia angusta la barca della mia vita, c’è sempre posto, il primo posto, per Te, se vuoi salirvi.
Ho tanta ansia e desiderio di toccare un lembo della tua veste; così forte è l’anelito di quest’anima che non riposa se non in Te, da suscitare lo stesso grido dal profondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E non te lo dico per solo timore, ma per Amore. Te lo dico perché non trovo pace se non in Te, perché il dolore è nello stesso attimo del peccato, perché dopo averti offeso, sempre, ho il coraggio di venire a trovarti per ritrovarmi in Te.

 

Il governo

«Chi ascolta si salva, chi non ascolta sarà condannato per l’eternità». Ecco fissata l’infallibilità della Chiesa: perché sarebbe non degno — dice il teologo — obbligare a credere chi fosse soggetto ad errore. L’infallibilità è sanzionata da Dio stesso per mezzo del Figlio suo: «In verità vi dico che tutto quello che avrete legato sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto anche in cielo».
Egli, il Figlio, trasmette il governo a chi resta in suo nome: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». È chiaro, perciò, che chi non crede alla sua Chiesa, non crede in Lui.

 

Presunzione santa

Come in ogni vero cristiano, così in te c’è l’anelito alla santità, senza di che non concepisco la vera Fede. Ecco perché t’avviene di pregare per il tuo nemico. Per i defunti, invece, t’accada spesso di dire: «Prendo su di me anche le loro colpe, o Signore, perché siano abbreviate le loro pene!».

BENIGNO

 

27 luglio 1947

domenica, aprile 20, 2025

Nostra cittadinanza

Ricorda sempre la tua duplice cittadinanza: se sei membro della città terrena, dominata cioè dalle tenebre, sei altresì membro della Città di Dio, realizzata nel mondo dalla sua Chiesa. Questa nuova «civitas», organizzata tra gli uomini e per gli uomini, con elementi soprannaturali, ti conduce all’eternità e però è universale, ha superato cioè ogni gretta concezione nel concetto di regno messianico.

Il pascolo

Ci vollero tre domande e tre risposte (certo perché i sordi sentissero e parlassero i muti) prima che Gesù risorto concedesse a Pietro, dinanzi agli altri Apostoli, sulle rive del lago di Tiberiade, la grande investitura. Come sempre generoso e ardente, entusiasta e temerario, per quanto era stato pavido, Pietro che ricordava di aver pianto lacrime di sangue per averlo rinnegato tre volte, risponde trasecolato alla triplice domanda del Maestro: «Tu lo sai, Signore, se ti amo!».
L’aveva rinnegato tre volte; doveva confermare tre volte la sua fede e il suo amore.
Risuona da allora nei secoli e nei millenni la divina consegna: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».
Simone, già pietra d'angolo e clavigero celeste, diventa così Pastore umano e divino.

 

Il corpo mistico


Avevo pensato alla Chiesa come a un grande albero che ha le sue radici irrorate dal sangue della Croce. Papa, vescovi, sacerdoti, semplici fedeli salgono per i rami, si protendono verso il Cielo dove Egli è tornato, dove tutti dobbiamo tornare per i meriti di quel sangue prezioso.
I germogli più alti, i più verdi, i più teneri sono le anime dei puri: i più lontani dalle radici, ma i più gonfi della linfa di Vita che da quelle sale, nutrimento perpetuo. Quanti toni di verde prima di arrivare lassù, quanti gradi nella scala della perfezione!

Nulla di ciò che pensa il cristiano è suo. Ho aperto a caso il Vangelo di Giovanni ed ho letto: «Io sono la vite, voi i tralci».
L’immagine bella dunque era di Gesù, poeta insuperabile, che è in me com’è in te, fratello, se l’occhio, che è la lampada del corpo, resterà puro.

BENIGNO

 

18 luglio 1947

sabato, aprile 19, 2025

Arsura

SUPREMA RICERCA

Sento a volte una grande pietà dei giovani, anche se parlano di Dio, anche se si macerano nella ricerca spasmodica di Dio. «Sapeste quante svolte, quante rampe, quali cadute, quali voragini prima di trovarlo!».

E ad ogni svolta, rampa, abisso, quando sembra di averlo intravisto, eccoti di là del gomito, ai piedi della salita, in fondo al baratro, a ricominciare. Gli è che se non hai stoffa di santo, Iddio lo troverai solo sull’altro versante, quando la vita avrà bruciato molte, se non tutte le scorie, e avrai toccato con mano che tutto è illusione: tutto, fuorché Lui, suprema certezza.

COLPI D’ALA

«La letteratura su Dio è più nei silenzi pieni di idee e di voli che nelle parole», ho letto in una nutrita rivista di lettere. E m’è sembrato suonasse rimprovero a questi colpi d’ala, fatti più di terra che di cielo.

Ma Iddio sa che l’anelito alle grandi falcate c’è: mancano soltanto le ali. E se Lui vuol darmele, mi perdona, certo, l’ardire.

LA GRANDE CALAMITÀ

L’infelicità degli uomini risiede in ciò: si crucciano d’ogni calamità, ma non vogliono convincersi che la calamità più grande è quella di perdere l’anima: e perciò non operano in conseguenza.

SAPORE DELL’ARTE

Nego che si possa apprezzare compiutamente l’arte in genere e la poesia in ispecie nell’età giovanile. L’arte è frutto di esperienza maturata col dolore. Rileggere nella tarda età è gustare, godere, soffrire della gioia e del martirio dell’artista creatore.

L’AFFARE PIÙ IMPORTANTE

Si pensa, se non si dice, che per rivolgersi a Dio, per recitare cioè le preghiere del cristiano, c’è sempre tempo.
I colloqui con Dio vengono sempre dopo i colloqui con gli uomini e, comunque, dopo aver sbrigato gli affari della giornata, se avanza tempo.
Eppure è il solo affare della giornata, davvero importante, il solo colloquio fruttifero.

NOSTRA IGIENE

Bisogna prenderti spesso. Ostia divina. Chi, dopo averti gustato, oserà insozzare le labbra anche con una parola scorretta?
Gesù è la vera, ineguagliabile profilassi dell’anima e del corpo.
Provate.

BENIGNO

 

29 giugno 1947


venerdì, aprile 18, 2025

La vite

 

Un racconto di Benigno


Quando Tonio morì, Paolo lo sognò. Gli disse che s’era scordato di potare una vite e che lo facesse presto se voleva evitare grossi guai. Gli intimò poi di ascoltare la predica. La sera il parroco commentò dal pulpito un brano del Discorso della Montagna:
«Voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, e chi ucciderà merita di essere sottoposto a giudizio. Io invece dico a voi: chiunque si adira contro il suo fratello, merita di essere giudicato. Se dunque nel fare la tua offerta sull’altare, ti sovvieni che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta all’altare e prima riconciliati col tuo fratello, poi ritorna a fare l’offerta».

Cosa c’entrasse tutto questo con la vite da potare, Paolo non capì. Attribuì il sogno a un’altra stranezza del fratello che, anche da morto, voleva prendersi giuoco di lui: tanto più che per cercare la vite non potata, aveva percorso in lungo e in largo tutta la vigna senza trovarla.

Così non ci pensò più. Aveva ben altro da fare lui che dare ascolto a chi se ne stava ormai in posizione orizzontale, cioè in permanente riposo, beato lui! Pensò invece a rimettere in ordine quel po’ di terra che gli era rimasta, ché negli ultimi anni Tonio s’era dato alla bella vita, e quelle sue gite frequenti in città erano costate alla famiglia forti salassi in liquidi e appezzamenti. Se la famiglia ancora numerosa non era caduta in miseria si doveva proprio a lui, Paolo, che fu irremovibile quando si trattò di vendere al confinante il brolo che dava i più bei frutti della contrada.

Ma compare Pietro se l’era legata al dito. Ogni volta che capitava in fattoria non faceva che rimproverargli la vita che Tonio menava e che era diventata scandalosa: se ne parlava per venti leghe intorno, né valeva a compensarla la ferita di guerra, ché «quella» guerra il popolo non l’aveva voluta.

Paolo era caparbio, di quella caparbietà che talvolta si chiama «un carattere forte». Ne nacque una specie di sordo rancore, che, se non era proprio odio, gli somigliava: ma di confessarlo non se ne parlava, tanto è bendato l’uomo quando si tratta di giudicare se stesso, anche al cospetto di Dio. Avrebbe lavorato magari fino all’ultimo respiro, e con lui i figli e i nepoti, ma non gliel’avrebbe data per vinta a quell’usuraio che aveva preso alla gola il povero Tonio ed ora voleva ricattarne la famiglia, che sapeva sull’orlo della rovina.

Pane e cipolla per tre generazioni, se ci fosse stato bisogno, ma il brolo più ricco di contrada Taverna non l’avrebbe avuto quel cane!

Un mattino di marzo Paolo s’era accasciato sul solco, stracco. La primavera scoppiava dappertutto in tenere gemme su per gli alberi e le siepi inverdite. Pensava che se ci fosse stato Tonio, avrebbe dato sotto a rivoltare la terra con quelle sue braccia nerborute che lo facevano rassomigliare a un torello, ed egli non si sarebbe sfiancato così. Allegro e generoso con tutti, Tonio lo era specialmente con la buona terra alla quale dava con letizia sudore come aveva dato sangue alla guerra, da gran signore.

Ad un tratto s’accorse che dai tralci dell’ultima vite, quasi addosso al muretto di cinta, colava un umore vermiglio che s’accendeva al sole. S’accostò, protese una mano e la ritirò insanguinata. Trasalì, si ricordò del sogno e della predica e si vergognò del rancore che sentiva per compare Pietro.

Capì che l’anima è come la vite: bisogna potarne i rami secchi, fra i quali, primo, è l’odio contro il prossimo.

È per quell’odio che la terra non dà più frutti per sfamare gli uomini tutti.

Tonio, sempre generoso, gli aveva fatto in sogno un dono immenso. Capì pure perché il parroco aveva detto che il cristiano si vendica vincendo il male col bene.

Lo stesso giorno strinse la mano a compare Pietro. E la vite potata non sanguinò più.

 

22 giugno 1947

 

giovedì, aprile 17, 2025

Infanzia martoriata

Un poeta, in nome di tutti i poeti — che per umano e divino privilegio sono i più vicini alla fanciullezza, perché non v’è fanciullo che non sia poeta, né poeta che non conservi un’anima dolce e mite da fanciullo — ha detto di recente che la più terribile, l’inespiabile colpa frutto di questa guerra è lo scempio dell’infanzia, il martirio dell’innocenza.

Ed è vero. Noi li abbiamo visti, durante le tremende incursioni, i nostri bambini stringersi terrorizzati al petto dei grandi, con una invocazione suprema negli occhi smarriti: un’invocazione che era già condanna per chi aveva scatenato il flagello. Anche quando la morte non li ghermiva, quei piccoli cuori ne uscivano così sgomenti da restarne intimamente feriti. Ci è toccato, proprio in questi giorni, assistere — in una corsia d’ospedale — all’agonia lenta e disumana di una bimba ridotta a pelle e ossa. Il cuore, malato per i troppi spaventi, le batteva forte in gola; si fermava, riprendeva la corsa fino a sgranarle gli occhi — due fiamme — in un visino terreo, dove già soffiava l’alito della morte.

A quella, a tutte le creaturine vittime dell’odio degli uomini, abbiamo pensato giorni fa, quando la piccola Luciana Sisti è caduta sotto il tallone del proprio genitore. Padre? O belva in sembianze umane? Belva? E perché riabilitare così la specie animale, se la belva difende i suoi piccoli fino a immolarsi?

La cronaca è un rigurgito d’innominabili delitti contro l’infanzia. L’uomo, che ha perduto ogni senso di bontà e pudore, sembra volersi vendicare di se stesso, della propria follia, accanendosi contro chi ancora gli parla di bontà e d’innocenza. Contro i teneri virgulti della sua stessa carne, che gli ricordano un tempo beato, quando i cavalieri erano prodi perché conoscevano e facevano rispettare le leggi dell’onore e del focolare domestico, dove accanto al talamo dondolava la culla avita, candida come un altare.

La piccola Luciana Sisti era di carattere dolce e affettuoso. Abbandonata dalla madre, aspettava che suo padre rincasasse per sentire un po’ di tepore, il calore di casa. Tremava, forse, perché temeva l’orco della favola — che nessuno sapeva più raccontarle. Così gli andò incontro fiduciosa, senza immaginare che l’orco si fosse rifugiato proprio in quel petto villoso, in quelle zanne rapaci.

«Senza mandare un piccolo grido, la bambina fu sbattuta a terra e colpita ciecamente a calci e a pugni. Ben presto, dal viso dell’innocente il sangue sgorgò copioso. Il padre, alla vista del sangue, infierì con maggior furore sul corpicino…».

Assisteva al martirio,  forse complice, un’altra donna, e non è difficile intuire chi fosse.

È un brano di cronaca, disadorna cronaca, di un atto abominevole che — Dio non voglia! — si ripeterà, finché l’umanità non torni sui propri passi, non risalga l’abisso in cui è caduta, non ricostituisca atomo per atomo la cellula della famiglia, disintegrata da questa ventata di follia che minaccia di abbattere gli ultimi pilastri del ponte.

Dall’alto della Croce, con gli estremi aneliti del suo passaggio terreno, una voce eterna risuona, a esaltazione degli innocenti e condanna degli orbi: «In verità vi dico: se non vi farete umili come questi fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli!»

 

Benigno

8 giugno 1947


mercoledì, aprile 16, 2025

Il monito

Un relitto di tabacco caduto tra i relitti di pellicole ha provocato una strage: ventinove creature umane trasformate in torce viventi. Per pochi, terribili minuti hanno continuato a consumarsi, a bruciare tutto di sé: venti, trenta, quarant'anni di vita cancellati in un attimo, con le loro speranze e le loro delusioni, le gioie, gli affetti, i dolori, le aspirazioni, i sogni — tutti bruciati vivi.

Quando la casa era ormai un rogo, e orribili ustioni straziavano le povere carni, qualcuno ha tentato di salvarsi aggrappandosi disperatamente alle grondaie, ai cornicioni, ai davanzali. Ma è precipitato sulla strada, in fiamme.

Scene terrificanti — che la mente umana non riesce a contenere, tanto la realtà supera la fantasia — si sono svolte attorno alla casa maledetta, nell’obitorio dove, sul freddo marmo, erano allineate le salme carbonizzate, e negli ospedali dove venivano accolti i superstiti.

Alle grida di terrore, al panico, agli atti di eroismo, alla disperazione, è subentrato il silenzio. Ma un silenzio pesante come un incubo. Qualcuno ha parlato di supremo avvertimento.

Il giorno luminoso dell’Ascensione è trascorso quanto mai triste. Solo una pausa di respiro: quando le campane, da San Pietro a San Giovanni, hanno suonato a distesa per annunciare al mondo che la Chiesa di Cristo ha un nuovo Santo.

Poi, alla sera, il popolo è salito sui colli, sulle terrazze, alle finestre alte, per cogliere il riflesso di una certezza eterna: nella visione incomparabile della cupola michelangiolesca illuminata a giorno.

Avvertimento? Ma perché pochi hanno pagato per tutti, se tutti siamo colpevoli d’aver ridotto la terra a un immenso mattatoio, dove perfino gli agnelli aspirano a diventar lupi come i lupi?

Domande cominciano a trovare, qua e là, una risposta precisa, inesorabile. Eppure, consolatrice.

Intanto, dalle salme straziate si è levato un monito che i superstiti hanno raccolto, affratellati — come non accadeva da tempo immemorabile — da un dolore comune, acerbo. Dal Sommo Pontefice al più umile cittadino, enti, istituti, associazioni e privati si stringono in nobile gara intorno alle famiglie delle vittime. Vittime benedette, che hanno saputo ridestare sentimenti che parevano inariditi nei cuori devastati dall’odio. È come una schiarita di cielo sulle coltri funebri, un respiro ampio di solidarietà umana che avvolge chi soffre.

È la pietas romana che rifiorisce, raccogliendo frutti d’amore per infiorare le tombe precoci di chi ci ha soltanto preceduto. Perché noi non crediamo alla morte. Noi crediamo alla Vita.

 

Benigno

25 maggio 1947

martedì, aprile 15, 2025

Auro d’Alba: il poeta nascosto dietro la carità

 


Dal 1948, per oltre vent’anni, L’Osservatore della Domenica ospitò la rubrica “L’Appuntamento della Carità”, dedicata alla raccolta di aiuti per persone in difficoltà.

Nel dare notizia dell’improvvisa scomparsa del curatore della rubrica, avvenuta sessant’anni fa, il 15 aprile 1965, il direttore Enrico Zuppi rivelò ai lettori che dietro lo pseudonimo “Benigno” si celava il poeta Auro d’Alba. Un nome che, nella discrezione dell’anonimato, aveva fatto della carità una missione silenziosa ma concreta.

La rubrica era nata quasi per caso quando a Benigno, che già scriveva meditazioni religiose per il giornale, fu chiesto di presentare un caso particolarmente grave. In pochi giorni arrivarono, inaspettate, numerose offerte da parte di lettori colpiti dalla delicatezza delle sue parole. Da quel momento, l’appuntamento divenne fisso.

Erano gli anni difficili, quelli del dopoguerra. Benigno si occupava quotidianamente di selezionare fasci di lettere, verificarne l’autenticità, valutare il reale bisogno, e infine proporre ai lettori i casi più urgenti. L’assistenza non era soltanto economica: tramite la mediazione del giornale venivano distribuiti viveri, medicinali, indumenti, apparecchi ortopedici, protesi, persino mezzi di locomozione, sia ad individui che ad istituzioni.

Ma chi era Auro d’Alba? Nato a Roma nel 1888 da una famiglia di origini abruzzesi, pubblicò a soli 17 anni la sua prima raccolta di versi, Lumi d’argento, firmata con il suo vero nome, Umberto Bottone. Erano componimenti di ispirazione crepuscolare, recensiti con interesse dall’amico Sergio Corazzini.

Negli anni Dieci fu coinvolto da Filippo Tommaso Marinetti nell’esperienza futurista, pubblicando anche su Lacerba di Papini e Soffici, per poi avvicinarsi all’avanguardismo della rivista napoletana La Diana.

Militante politico, nel 1916 fu arrestato insieme ai futuristi Marinetti, Balla, Depero, Cangiullo e Jannelli  in occasione di una manifestazione interventista. Coerente con le sue convinzioni, partecipò alla Prima guerra mondiale, combattendo tra i bersaglieri. L’esperienza al fronte gli valse una medaglia d’argento e una croce di guerra, ma anche materiale per i racconti e le poesie degli anni immediatamente successivi.

In quello stesso periodo scrisse versi per l’infanzia destinati al Giornalino della Domenica di Vamba, l’autore di Gian Burrasca.

Fascista della prima ora, fu responsabile dell’ufficio stampa e storico della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il culmine della sua notorietà letteraria coincise con una tragedia che lo riportò a una profonda fede cattolica.

Nel 1930 pubblicò Nostra famiglia, romanzo parzialmente autobiografico, in cui immaginava la famiglia ideale del nuovo regime. Ma pochi mesi dopo la pubblicazione, la figlia diciottenne Ofelia, si tolse la vita nella casa di famiglia. La tragedia cambiò radicalmente la sua esistenza e commosse il mondo letterario italiano.

In un volume commemorativo uscito un anno dopo, troviamo gli omaggi ad Ofelia d’Alba di Salvatore Quasimodo, Grazia Deledda, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi e molte altre firme illustri dell’epoca.

La produzione poetica di Auro d’Alba immediatamente successiva alla tragedia è tutta dedicata alla figlia perduta.

Negli anni seguenti, Auro d’Alba collaborò con Il Frontespizio, prestigiosa rivista fiorentina di ispirazione cattolica e punto di riferimento della cultura letteraria del tempo.

Affiancò nuovamente Marinetti durante la guerra d’Etiopia, distinguendosi in operazioni militari che gli valsero una medaglia d’argento al valor militare e due croci al merito di guerra. In quegli anni fu anche autore di testi di canzoni militari, tra cui Battaglioni M e Cantate di legionari.

Dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale partecipò in ruoli legati alla propaganda, e segnato dalla perdita della moglie, Auro d’Alba tornò alla scrittura. Scelse spesso però di firmare i suoi contributi su riviste con vari pseudonimi, forse nel tentativo di prendere le distanze da un passato politico ormai compromesso.

Collaborò alla terza pagina de Il Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, firmando con lo pseudonimo Benigno Assunti ritratti e profili letterari tratti dai suoi ricordi. Questi testi confluiranno più tardi nel volume di memorie Formato tessera (1956).

Oltre alla critica letteraria, continuò a pubblicare poesie e meditazioni, specialmente sulla rivista fiorentina Città di Vita e su L’Osservatore della Domenica. In quest’ultimo, curò come Benigno la rubrica “Voli”. Inizialmente solo letteraria, divenne in breve “L’Appuntamento della Carità”, dove i casi bisognosi venivano spesso introdotti da brevi, intense riflessioni spirituali.

Benigno dava voce agli indigenti con profonda delicatezza, lasciando molte volte che fossero le loro stesse parole a raccontare il bisogno. Presentava i casi attraverso le lettere ricevute, preservandone l’autenticità e il tono umano. Era come se chi scriveva trovasse finalmente uno spazio d’ascolto, una mano tesa attraverso la pagina.

Settimanalmente, Benigno offriva ai lettori dell’Osservatore della Domenica l’occasione concreta di compiere un gesto di carità. Quando la generosità non bastava a soddisfare il bisogno, interveniva personalmente, colmando le mancanze con discrezione. La sua penna dava voce al dolore, ma anche risposta silenziosa, spesso tangibile, alla sofferenza altrui.

Una delle prime lettere presentate da Benigno non proviene da un richiedente aiuto ma da un benefattore. È il gennaio del 1948 e a scrivere è un reduce dal campo di concentramento di Mauthausen. L’uomo chiede che la sua offerta, inviata in forma anonima, sia destinata attraverso il giornale a un tedesco in difficoltà, come segno di riconciliazione.

“In più del perdono voglio, in questo Natale, aiutare una persona  forse che mi ha fatto del male, ma purtroppo è stata vittima di inganno. Le parole del Papa sono sempre accorate; possano ascoltarlo di più, e guadagnare così, coll’amore e non coll’odio questa pace alla quale il mondo aspira”, scrive il lettore.

Benigno riconosce in questo gesto non solo un atto di generosità ma l’espressione di una santità autentica.

In un commosso articolo di commiato, sessant’anni fa, il direttore Enrico Zuppi ricordava che Auro d’Alba, avendo dovuto affrontare tempeste dolorose, “trovava un particolare conforto nel fare del bene agli altri, con inesausta carità”.

Il poeta, in una delle sue meditazioni introduttive a L’Appuntamento della carità, scriveva: “Il dolore ci rende comprensivi, caritatevoli, ci è più facile tendere la mano al fratello, aprirgli le braccia, ascoltargli il cuore che batte col nostro; infine spartire il pane e la pena con lui. Quante volte invece mi sono accorto che la gioia è egoista, è crudele, come spesso è la giovinezza, che ha tutta la vita dinanzi e non vuol saperne di soffrire. E sapete perché è egoista? Perché vorrebbe non finir mai; è crudele perché l’altrui tristezza fa ombra, le dà noia, la disturba, la richiama a un dovere che preferisce trascurare, ignorare, disdegnare forse … E dimentichiamo la più alta verità della nostra Fede: «Un bicchiere d’acqua dato con amore è meritevole di vita eterna».”

Enrico Zuppi, nel suo articolo celebrativo, aggiungeva: “Non lo vedremo più tra noi, con quel suo sorriso apparentemente scettico, di uomo di mondo, col quale credeva di poter difendere la sua immensa bontà, il suo altruismo, la sua squisita sensibilità.”

L’Appuntamento della Carità proseguì anche dopo la morte di Auro d’Alba, grazie all’impegno della seconda moglie, Maria Antonietta Pozzi, sua collaboratrice nella vita e nell’opera.

Auro d’Alba è oggi un autore dimenticato. I suoi libri sopravvivono tra le pagine ingiallite di vecchie edizioni, reperibili solo nei negozi di antiquariato o nelle biblioteche. Il suo nome, un tempo noto, è stato oscurato anche da un legame troppo evidente con il Ventennio fascista, che ne ha segnato il destino culturale più di quanto abbia segnato la sua voce interiore. Eppure, l’invisibilità che scelse negli ultimi venti anni della sua vita fu tutt’altro che un rifugio imposto dalla storia. Era, piuttosto, una forma di pudore, di volontaria discrezione. Una rinuncia al riconoscimento personale per lasciare spazio all’urgenza dell’altro, al dolore che chiedeva ascolto. Non si nascose per paura ma per promuovere la carità silenziosa. Dietro Benigno, più che un autore in ritirata, c’era un uomo che aveva imparato a scrivere non più di sé, ma per gli altri.

lunedì, aprile 14, 2025

La Basilica

«Padre, ricordaci che siamo polvere, e polvere ritorneremo. Perché, vedi, nonostante l’età, i guasti, le cadute, le ricadute, e il cammino duro, siamo ancora tanto deboli, e da un momento all’altro, a una svolta, può accadere che il Maligno ci tenti.»

La basilica sembrava emersa da un lago (o che fosse stata raggiunta dallo straripante fiume che, per tre volte quell’anno, aveva invaso i quartieri bassi?) Una luce d’acque diffuse saliva fino ai matronei, fino al soffitto, per ricadere estrosa sul limitare delle cappelle, dove i fedeli prostrati ricordano che tutto è vanità, che la vita è dura con la Croce, ma senza la Croce è insopportabile: e vengono ad abbracciarla.

Da poco riaperta al culto quotidiano, la chiesa era piena di meraviglia: e di questa meraviglia  dei marmi, degli archi, dei chiostri, delle colonne, degli altari, dei tabernacoli partecipavano gli occhi dei fedeli, che tornavano a lei dopo anni di lontananza, fuorviati dal turbine. In verità, se ci guardavamo negli occhi, ci riconoscevamo appena. Ci pareva, sì, di esserci incontrati in un mondo scomparso, ma certe incancellabili orme le avevamo pur lasciate sulle strade percorse. E i volti stanchi, le anime stordite, s’illuminavano ancora di quel sole. Perché si può ben dire che sia sempre lo stesso sole. Ma non è vero: è la nostra giornata, sono le nostre opere, i nostri anni, le diverse svolte della vita che ne rifrangono i raggi. E il sole dell’infanzia non è più quello della giovinezza, e questo non somiglia al sole della maturità se non attraverso i rimpianti, i lutti, le nostalgie: tutto il bagaglio che non vorremmo, ma siamo obbligati a portare. Il bagaglio che altera i segni del viso, la linea delle membra, il passo, lo sguardo, la voce.

Anche la basilica — la nostra basilica — aveva cambiato volto. Ricordavamo un volto rugoso, ed ora ci restituiva un luminoso profilo. Accogliente, l’ambone ci apriva le braccia come per contenerci tutti e portarci ai piedi di Colui che ha sì grandi braccia da condensare nel petto piagato tutto il dolore del mondo.

E sentirsi con Lui volontari della Croce, candidati al perpetuo eroismo. È proprio questa l’epoca più adatta, il clima propizio: quando l’aria stessa è corrotta, fioriscono, prodigiosi nel silenzio e nell’ombra, i gigli della santità.

Benigno Assunti

13 aprile 1947

domenica, aprile 13, 2025

Signore, si fa sera!

«La cattolicità è una nota essenziale della vera Chiesa, e nessuno può dirsi partecipe o devoto alla Chiesa se non partecipa e non è devoto alla sua universalità, cioè al tuo radicarsi e fiorire dappertutto sulla terra. Quei due laici, come il sacerdote loro guida, non trovavano riposo, al solo pensiero che milioni di uomini non conoscevano ancora Cristo. Beati quei tre! Le loro ossa riposano ora insieme, custodite nel reliquiario naturale della collina verdeggiante che s’innalza dolcemente dal fiume dei Mohawks, fluente placido e dolce.»

Il brano è tratto dal radiomessaggio pontificio per i protomartiri del Nord America, e lo riportiamo qui per tre motivi di alta spiritualità: 1.) L’universalità della Chiesa ha un respiro così vasto che tutte le umane ideologie appaiono meschine al suo confronto. 2.) Il richiamo alla vera essenza della cristianità, che è quella di non avere pace, se davvero fedeli alla Croce, finché sulla terra vi sia un’anima che non conosce Cristo. 3.) Il profumo di poesia che emana da queste parole apostoliche, espresse con il tono delle più alate Scritture del Libro eterno.

Giorno certamente verrà in cui le pagine più belle e ispirate dei successori di Pietro saranno raccolte e andranno ad arricchire la serie che compone quel libro senza tempo.

* *

Durante la nostra giornata affannosa, ci capita spesso di ricordare i discepoli di Emmaus e il cammino percorso insieme, mentre Gesù — viandante sconosciuto — spiegava loro le Scritture: «E come furono vicini al villaggio dove si recavano, Egli fece finta di andare oltre.
Ma essi lo trattennero dicendo: “Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto.” Ed entrò con loro. E avvenne che, messosi a tavola, prese il pane, lo benedisse e lo spezzò. Allora si aprirono loro gli occhi, e lo riconobbero.»

Lo riconobbero da quel gesto: era il Maestro. Colui che, nell’ultima Cena, prima del Sacrificio, spezzò il pane e alzò il calice, istituendo il sacramento ineffabile dell’Eucaristia. Affinché, tornando Egli al Padre, l’uomo che tanto amò, per cui diede la vita non si sentisse più solo nelle tentazioni e nelle sofferenze.

Anche a noi accade, ingannati dalle apparenze, di sentirci soli. Anche a noi capita di gridare nel buio: «Signore, rimani con noi, si fa sera!»

E non pensiamo che i discepoli di Emmaus ne avessero meno diritto di noi, loro che avevano conosciuto personalmente Gesù e ascoltato le sue parole.

Noi non abbiamo soltanto la sua Parola, eredità che non passa, ma il suo stesso Vicario, che dalla Cattedra di Pietro parla a tutti coloro che hanno orecchie per udire e pupille per vedere.

Beati coloro che, al di sopra della rissa e del fango che sale, sanno ascoltarlo.

Parlaci, parlaci ancora e sempre, o Padre nostro! Il giorno è già declinato, e non sappiamo se il sole sorgerà ancora sul mondo.

* *

Questo mondo è superbo. Il mondo si inorgoglisce sempre più, ma di che cosa, se non della propria miseria e iniquità?

Il mondo sente che, fuori dalla rete di Pietro, vi è solo buio e perdizione, ma non vuole arrendersi. Resiste, come se doversi umiliare alla presenza di un suo pari fosse un'offesa. Come se Dio fosse un altro uomo già perduto, già condannato. Il mondo si sottomette al giogo duro dell’amor proprio, che già conosce, e respinge quello “soave” dell’umiltà, che gli è ignoto.

Ebbene, dobbiamo essere noi, gli addomesticati dal giogo soave, a ripetere al tuo erede, o Signore, le parole di Simone, quando i discepoli stavano per abbandonare Gesù, tentati di scuotere il giogo. Ci voleva Pietro, soltanto Pietro, a pronunciarle con la sua rude schiettezza marinara. E noi le ripeteremo a te, Padre nostro, che sei in terra per il pascolo benedetto: «Da chi andremo, se lasciassimo te, che possiedi parole di vita eterna?»

Ogni giorno che passa è come se facesse notte prima della sera. Le notti sono in verità troppo lunghe, e talvolta ci opprime il cuore il terrore di respirare nelle tenebre per tutta la vita. Non potrebbe forse il Signore vendicarsi così del male che gli uomini fanno? Non più diluvio , promise a Noè, ma non parlò della tenebra. Egli potrebbe sempre negarci la luce del sole. Non è tenebra, forse, questa che acceca l’uomo e lo spinge ad uccidere il fratello? Non è tenebra quella che ci fa dimenticare le parole terribili: «Vendicherò la vita dell’uomo sopra l’uomo e sopra suo fratello»?

Diluvio no, perché la parola di Dio è una e non mente. Ma tenebra sì. E perciò tu ci parli, Padre nostro che sei in terra, tu, Vicario di Cristo, tu, successore di Pietro. La discendenza ti ispira le stesse parole di Vita, ti suggerisce gli stessi ammonimenti del Cristo, come se fosse ancora tra noi. Ma a molti dei suoi discendenti, fedeli, che pronunciarono soltanto parole di Vita, gli uomini hanno preparato il patibolo. E contro la Chiesa fondata dal Gran Re — il Primogenito di Dio — si accumulano tutte le nefandezze, occulte e palesi, perché il mondo, che ha odiato il Cristo e odia noi, sa che la tenebra della menzogna non prevarrà sulla luce, che è Verità.

Padre, rimani con noi, parlaci sempre, parlaci ancora! Si fa sera, e il giorno è già declinato.

A. D. A.

13 aprile 1947