Più del pianto, è il riso che aiuta l’uomo a sopportare l’imperscrutabilità del mondo e della divinità che su di esso domina. Ma il riso è spesso solo la maschera indossata dal dolore per non turbare la divinità. L’autore della Torah lo sapeva bene.
Nella Genesi (21,5-7) scrive: «Ora Abramo aveva cento anni, quando gli nacque suo figlio Isacco. E Sara disse: Dio mi ha dato di che ridere; chiunque lo udrà riderà con me. E disse pure: Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara allatterebbe figli? Poiché io gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia».
Il figlio di Abramo, Isacco, il secondo patriarca del popolo della Bibbia, nasce sotto il segno del riso. Un riso provocato da Dio che rende possibile l’impossibile, che una donna vecchia e ormai sterile partorisca un figlio? Ismaele (il figlio primogenito avuto da Abramo da un’egiziana) e Isacco sono due casi unici nel Libro, ricevono il nome prima di essere partoriti (Ismaele) e prima di essere concepiti (Isacco). La radice del nome di Ismaele è nel verbo ascolto (di Dio), la sua forza è nella preghiera. La radice del nome Isacco è invece nel verbo ridere. Ma il riso di chi, celebra quel nome? Quello di Abramo e Sara stupefatti davanti alla promessa di Dio? Oppure quel ridere è il ridere del mondo che vede la nascita di Isacco come una cosa ridicola. O ancora non potrebbe quel riso alludere al fatto che la stessa esistenza di Isacco mette in ridicolo il mondo?
Il biblista Gian Franco Ravasi scrive: «Quando Dio aveva annunziato loro la futura generazione, essi erano scoppiati a ridere. Il nome che Abramo imporrà al figlio sarà, allora, Isacco, che l’autore biblico interpreta: “Il Signore ha riso”. Al riso scettico dei genitori si era opposto, dunque, il riso vivo, efficace e gioioso di Dio, incarnato nel piccolo Isacco. Ma ben presto quella felicità sarebbe stata incrinata da un ordine incomprensibile e crudele di Dio: “Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò” (Genesi 22,2)».
Il riso della vecchia coppia e il riso «vivo, efficace e gioioso di Dio» sono presto incrinati da un ordine crudele che genera angoscia, pianto. Il riso e il pianto, quell’intreccio che anche chi non ha mai letto la Bibbia - ma ha gettato uno sguardo seppur distratto su un film di Billy Wilder o dei Fratelli Marx - riconosce come centrale nella cultura ebraica è, come accade, un legame anche lessicale che nel nome di Isacco trova il suo nodo. Quale? Lo spiega il rabbino Avi Weiss. «E’ interessante notare», scrive Weiss in un saggio apparso nel 1997 sul Jewish News Weekly, «che in ebraico il verbo ridere, litzhok, è simile al verbo piangere, lizok. Nella lingua ebraica le lettere tzaddi e zayyin, così come het e ayin spesso sono interscambiabili, rendendo così litzohk e lizok la stessa cosa, dimostrando così il collegamento di fondo tra il riso e le lacrime».
Una storia talmudica racconta che dopo la seconda distruzione del Tempio, il rabbino Akiba passeggiando tra le rovine con alcuni colleghi si mise a ridere. «Perché ridi?», gli chiesero quelli. «E voi perché piangete?», gli rispose lui. «Il Tempio adesso è in rovina», dissero quelli. E Akiba replicò: «Finché non si è avverata la profezia secondo la quale il Tempio sarebbe stato distrutto, non ero sicuro che si sarebbe avverata poi la profezia della sua ricostruzione. Adesso che il Tempio è stato distrutto, la sua rinascita è certa».
Il riso, dunque, è inestricabilmente legato al pianto. E il riso - quel riso mistico donato da Dio ad Abramo e Sara - è un’anticipazione del riscatto dal dolore del mondo e, insieme, una promessa messianica. Quale? Il Talmud, dell’avvento del Messia, dice: «Allora le nostre bocche saranno ricolme di riso». E il profeta Isaia aggiunge (11,6) che in quel tempo «il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà».
Il riso segna il percorso verso il riscatto anche per un altro ebreo che trascorse la vita appartato e isolato dalla sua stessa comunità. «Il riso come anche il gioco è pura gioia; e perciò, purché non abbia eccesso, è di per sé buono», scrive Spinoza nella proposizione 45 del libro IV della sua Etica. «Le lacrime», aggiunge, «i singhiozzi, il timore e altre cose di questo genere (..) sono segni di un animo impotente».
Ludwig Wittgenstein cercò di nascondere, per tutta la vita, le sue radici ebraiche, ma la sua opera gli fu pessima alleata. Il filosofo austriaco che, nel Tractatus Logico-Philosophicus, rivestì la sua ossessione teologica dell’uniforme accademica della logica, era convinto che «un’opera filosofica buona e seria potrebbe essere composta interamente di barzellette».
Nel simbolismo della tradizione ebraica il pavone rappresenta la bellezza dell’eternità che attende gli uomini nell’altro mondo. Sull’immagine del pavone che «allarga la sua ruota mortale» si chiude una delle più belle canzoni di Leonard Cohen, «La storia di Isacco».
«Quando tutto si ridurrà a polvere», dicono gli ultimi versi, «ti ucciderò se devo, ti aiuterò se posso, ti aiuterò se devo, ti ucciderò se posso». E’ la voce del Dio arbitrario della Genesi che parla nella canzone dell’ebreo della Diaspora? Cohen, poeticamente, non lo spiega. Il suo giudizio lo affida all’immagine conclusiva del pavone che dispiega la ruota mortale. E quel ventaglio assomiglia all’arco rovesciato del sorriso dell’uomo.
Giuliano Di Tanna, Il Centro (20.1.2006).