Savita Halappanavar, giovane di origine indiana, è morta nei giorni scorsi in Irlanda a causa dell’aggravarsi delle proprie condizioni in seguito ad un aborto che i medici, nonostante i forti dolori accusati e le sue richieste, hanno tardato a praticarle motivando questo diniego – così si dice – sulla base della loro fede cattolica. Non è chiaro se l’aborto, se fosse stato praticato quando lei lo chiese, e cioè pochi giorni prima rispetto a quando poi è stato effettuato, le avrebbe allungato l’esistenza; sta di fatto che a questo dramma sta già facendo seguito, com’era prevedibile, una fortissima campagna a favore di una legislazione abortista in un Paese, l’Irlanda appunto, che a tutt’oggi ne è privo. La notizia ha naturalmente sollevato forti polemiche anche in Italia come dimostra, per esempio, il portale dell’Uaar, nel quale è addirittura riportato che Savita è «morta perché l’Irlanda “è un paese cattolico”. Tanto è cattolico, che vi si può morire perché i medici rifiutano un aborto, anche se è in pericolo la vita di una madre» [1].
Ora, dinnanzi a simili sparate sono necessarie, per depurare la realtà da pregiudizi e insinuazioni, alcune brevi ma essenziali precisazioni, anzitutto di natura giuridica: in Irlanda l’aborto è sì illegale, ma il cosiddetto “aborto terapeutico [2]” – quello che, se effettuato qualche giorno prima, avrebbe potuto impedire (anche se non è certo) la morte della povera Savila – è consentito. Infatti, l’articolo 40.3.3 della Costituzione irlandese riconosce a chiare lettere «il diritto alla vita del nascituro unborne, salvo restando il diritto alla vita della madre» [3] e la Suprema Corte ha specificamente riconosciuto che, nel caso in cui la gravidanza costituisca un rischio reale e sostanziale per la vita (non per la salute) della donna, ivi incluso un rischio di suicidio, la protezione accordata al diritto alla vita consente, ancorché in via eccezionale, l’aborto [4].
Ora, dinnanzi a simili sparate sono necessarie, per depurare la realtà da pregiudizi e insinuazioni, alcune brevi ma essenziali precisazioni, anzitutto di natura giuridica: in Irlanda l’aborto è sì illegale, ma il cosiddetto “aborto terapeutico [2]” – quello che, se effettuato qualche giorno prima, avrebbe potuto impedire (anche se non è certo) la morte della povera Savila – è consentito. Infatti, l’articolo 40.3.3 della Costituzione irlandese riconosce a chiare lettere «il diritto alla vita del nascituro unborne, salvo restando il diritto alla vita della madre» [3] e la Suprema Corte ha specificamente riconosciuto che, nel caso in cui la gravidanza costituisca un rischio reale e sostanziale per la vita (non per la salute) della donna, ivi incluso un rischio di suicidio, la protezione accordata al diritto alla vita consente, ancorché in via eccezionale, l’aborto [4].
Quel che in Irlanda manca non è quindi la possibilità per donne nelle condizioni di Savila di abortire, bensì un provvedimento che definisca accuratamente la procedura «da seguire per comprendere se un caso concreto» ricade o meno «nell’ipotesi eccezionale di rischio reale e sostanziale per la vita della madre» [5], anche se su Irish Indepedent l’avvocato Eilís Mulroy ha ricordato come «la scelta di indurre il travaglio precoce», oltre ad essere conforme – come abbiamo visto – alla legge, sia esplicitamente prevista dalle linee guida emanate dal Consiglio dei medici irlandesi [6]. Ne consegue che il diniego alle richieste di Savita (sul cui decesso sono in corso opportuni accertamenti) di abortire, non sarebbe da ascriversi – come viene fatto ingannevolmente credere – a dei divieti ma, tutt’al più, alla mancata chiarezza di alcuni regolamenti attuativi.
Continua qui.