Quei due maledetti benedetti cattivi bravi ragazzi: Andy Warhol e Lou Reed:
di Luca Dombré Papaplepapale.it
Sono stati non pochi quelli che, a seguito dell’
articolo del sito Papalepapale (
e rilanciato domenica scorsa su questo blog) sulla conversione al cattolicesimo di Lou Reed, morto lo scorso 27 Ottobre, hanno espresso grande sorpresa per questa notizia. <<Ma come? Lui, la leggenda dei Velvet Underground cantore della sadomaso “Venere in pelliccia” e dei paradisi artificiali spalancati dall’eroina?>>. Eh sì, proprio lui, il monumento del rock newyorchese lanciato da Andy Warhol, totem poliedrico quanto ambiguo della pop art novecentesca.
Uno stupore che, in realtà, un po’ stupisce esso stesso, specie pensando al Vangelo della domenica trascorsa tra il decesso di Reed e il momento in cui scrivo; vi si narra infatti l’episodio del pubblicano Zaccheo, disprezzato da tutti, ma salvato da Cristo con parole stupefacenti, speranza sconvolgente per gli uomini d’ogni tempo: <<Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto>>.
Già, a volte sembriamo duri a comprendere l’accessibilità della salvezza per chiunque, pentito, sia assetato della Verità che rende liberi. Nessuna accusa personale, sia chiaro: solo l’osservazione di come la protestantizzazione del buon senso ci abbia un po’ tutti instupiditi di puritanesimo, spesso persuasi che solo per gli irreprensibili sia il Regno dei cieli. Eppure fu un’altra, travisatissima icona del ribellismo moderno, Oscar Wilde, a sua volta convertito al cattolicesimo al finale della vita, a chiarire: <<La Chiesa Cattolica è per i santi e i peccatori. Per le persone perbene è sufficiente la Chiesa Anglicana>
Ma oltre a queste considerazioni di basilare percezione della cattolica ragionevolezza che sempre discerne tra peccato e peccatore, va osservato che la religiosità dei due vecchi amici Reed e Warhol non era, in realtà, radicalmente sconosciuta. Infatti, sebbene la conversione al cattolicesimo del primo sia rimasta notizia confinata ad una cerchia privata di amici, la fede cattolica del secondo (per quanto poco nota ai più, specie in vita) è argomento affrontato in passato con una certa dovizia. Basti ad esempio pensare ad una mostra organizzata a Roma nello scorso decennio ed intitolata “Andy Warhol ci ha ingannati” (
qui un ragguaglio) dove il tema ignorato della spiritualità dell’artista americano fu trattato in profondità. Il preconizzatore dei “quindici minuti di celebrità”, sintesi perfetta della vanità contemporanea, era infatti figlio di immigrati slovacchi di confessione cattolica uniate, e fu dunque cresciuto in una religiosità a cavallo tra il cattolicesimo e l’ortodossia orientale, influenze riscontrabili da un’analisi non superficiale della sua opera (si pensi solo alle modalità rappresentative delle icone orientali riprese nei famosi ritratti seriali delle icone mondane tipo Elvis o Marilyn Monroe). Tuttavia non serve qui entrare nei dettagli di questo tema – eviscerato dagli esperti e che si offre tuttora ad approfondimenti interessanti non solo per gli appassionati d’arte-, quanto coglierlo come opportunità di riflessione sul perenne scandalo cristiano, ostinato nel sottrarsi alle comode categorizzazioni della sapienza secondo il mondo.
Vi è qualcosa di immensamente più grande su cui ragionare, andando ben al di là di una mera rivendicazione di “schieramento”: attestare come l’anima di un grande artista o di qualunque semplice uomo alla ricerca della verità non possa girare lo sguardo altrove qualora si soffermi stupito, laceratone dallo splendore, su quello di Cristo. E’ necessario, oggi più che mai, testimoniare ciò per dare un piccolo contributo affinché si crepi la corazza di nichilismo e sentimentalismo che asfissia i nostri giorni; aiutare ad instillare anche in un solo uomo il dubbio che instradi alla ricerca dell’unica risposta credibile (che è un Volto, non una filosofia aleatoria) all’afflizione e al tormento.
Meditare, dunque, sugli infiniti modi in cui la Grazia scende a toccare gli uomini “sporcandosi”, incontrandoli misteriosamente nella loro sete di assoluto, sebbene lerci della melma del peccato. Come detto: la Salvezza non è già decisa per una setta di prescelti moralisti, ma è offerta ad ogni essere umano. Non so perché, ma ci ho pensato spesso fin dalle prime volte che iniziai a inginocchiarmi nella chiesa di St.Vincent Ferrer. Scoprii infatti presto che, in quel tempio fatto costruire dai domenicani sulla Lexington Avenue, il cattolico bizantino Andy Warhol frequentava quotidianamente la Messa. Così, durante le mie consuete visite al confessionale o per qualche minuto di preghiera, un pensiero mi rimanda spesso ad immaginarlo seduto tra i banchi alla ricerca di raccoglimento, un nascondimento quasi contraddittorio per un talento superato persino dalla sua stessa fama.
E fino a pochi giorni fa, prima del trapasso di Lou Reed, assieme a questo pensiero ne pulsava un altro subliminale, che si è manifestato fulmineamente alla notizia della morte: quante volte i due vecchi amici avranno parlato fra loro di Dio? Si saranno mai preoccupati di confrontarsi sulle cose ultime l’ambiguo (e malinteso) profeta della civiltà dell’effimero e il cantore ex eroinomane degli “outcasts”, i rifiuti imbarazzanti ed inevitabili di quella stessa società? Era, il loro, solo un attestare l’imperio della vanitas erta a sistema di vita planetario e l’abiezione e gli effluvi di morte che ne conseguono, oppure si saranno chiesti a vicenda dove tutto ciò avrebbe portato l’uomo?
Ecco, queste ed altre domande avevo sempre avute con me senza rendermene conto, ogni volta che mi balenava l’istanteanea di Warhol sotto la statua del santo valenciano. Le avevo perché non si può, come l’immaginario comune vorrebbe, ridurre quei due amici a degli ambigui bohémiennes, come tanti altri loro contemporanei icone iconoclaste di anni conturbanti e, oggi lo sappiamo, iniettati di vane speranze e ideologie putriscenti. No, non si può ridurne il genio e il tormento ad ubbie di pervertiti convinti che sia solo il “qui ed ora” a contare e che un “dopo” non c’è, e se anche ci fosse nulla conta.
Eppure tante banalità simili si sono sentite e lette negli obituari su Lou. Perfino le puttanate da barricaderi (il collettivo di scrittura che si firma Wu Ming) che, cercando di appropriarsene in esclusiva, lo hanno etichettato erede dell’anarchico pistolero Gaetano Bresci, delirio di ciechi incapaci di contemplare nell’opera di Reed una dimensione estremamente spirituale nell’abbassarsi e addentrarsi nella disperazione dei reietti che ha a che fare più con le domande di un cristiano che non con le categorizzazioni perentorie del loro materialismo fuori tempo massimo.
Ecco, quelle domande pare che siano arrivate ad un punto della vita di Reed ed abbiano trovato la risposta nel battesimo che porta a Cristo, la sola e vera fonte di vita eterna. Una risposta protetta discretamente, in un silenzio orante, proprio come dal suo vecchio amico Andy. E chissà che anche di questa possibilità non avessero già conversato insieme, lontani per un istante dal frastuono della Factory e la vacuità di un mondo ridotto a contenitore senza contenuto. Chissà che, avendo scoperto solo pochi giorni fa di questa silenziosa conversione, io stesso non abbia avuto un’inspiegabile intuizione augurandomi che fosse infine giunto a godere, per sempre, del Volto Divino. Chissà che, varcando la soglia inesorabile, il lontano fruscio di Lou non mi avesse avvertito della risposta finalmente chiara, in eterno: che i defunti sono in realtà tutti vivi.