Scovato da Nancy Carpentier Brown, ecco cosa vi proponiamo...:
Si tratta della partitura "illustrata" del canto How far is it to Bethlehem? il cui testo è stato scritto da Frances Blogg sposata Chesterton, la moglie del nostro caro Gilbert.
E' originale di quei giorni, come vedete.
Di questo canto abbiamo parlato anche altrove, grazie alla nostra cara Nancy Carpentier Brown, elemento di spicco del braccio di Chicago della American Chesterton Society, che abbiamo avuto modo di conoscere lo scorso settembre, avendoci invitato ad uno dei loro raduni chestertoniani in uno splendido pub alle porte di Chicago, con tanto di pelle d'orso e testa di bisonte appese ai muri!
Trovate altre belle tracce qui e qui. Nancy sta lavorando molto sulla persona di Frances, di cui non si è ancora detto abbastanza, e la ringraziamo per questo.
giovedì, ottobre 30, 2014
mercoledì, ottobre 29, 2014
USA UN PAESE SURREALE: MENTRE I MARITI VANNO IN GUERRA LE MOGLI PARTORISCONO PER CONTO TERZI. di Antonio de Martini:
Una storia americana che non riesco a commentare tanto è il senso di sgomento e inadeguatezza che provo. O sono io ad essere ormai superato da questi bagliori di nuovo mondo, oppure la psicologia degli appartenenti al mondo militare americano richiede interventi in profondità , così come il trattamento economico della truppa.
http://www.nationalreview.com/article/352254/wombs-rent-http://
abcnews.go.com/GMA/Parenting/military-wives-surrogates-carrying-babies-love-money/story?id=11882687
http://www.ozy.com/acumen/serve-our-country-serve-as-a-surrogate/33106
Faccio precedere questo post da ben tre collegamenti con articoli di giornali americani sull’argomento perché , a mio avviso, questa notizia ha dell’incredibile e la nostra cultura europea ci porterebbe a pensare che si tratta di uno scherzo.
L’ultimo dato statistico USA disponibile sulle madri surrogate è del 2008 e ci dice che vi furono in tutto il paese 1400 gestazioni per conto terzi.
Una ricerca sui casi di madri surrogate ( le donne che affittano a pagamento l’utero a terzi che non vogliono o non possono avere una gestazione classica) ha rivelato che una alta percentuale di queste persone – dal 19 al 50% – sono mogli di militari in missione e che lo fanno ” per arrotondare lo stipendio e anche per dare un figlio alla Patria”.
Cosa spinge queste persone pare sia il fatto che una famiglia raddoppia i suoi proventi. Ai 30.000 dollari annui dello stipendio del marito , si aggiungono i trentamila che vengono dall’affitto dell’utero della moglie. C’è chi ha calcolato che, a questi prezzi, una gestazione completa costa tre dollari l’ora.
Una seconda motivazione dice che la signora con questo sistema riesce a stare a casa per accudire i figli invece di andare al lavoro.
A ben vedere c’è una sorta di tragico contrappasso in questo: lui guadagna uccidendo, lei creando una nuova vita.
Lui viene visto come un eroe, lei come una poco di buono.
La parte più aberrante di questo fenomeno è la protesta di chi dice che la puerpera froda lo stato godendo dell’assistenza sanitaria gratuita mentre in realtà sta sta facendo un affare privato e quindi non dovrebbe godere delle cure gratuite, ma accollarsi il costo produttivo di reddito imponibile.
Una fiera delle aridità .
Come può un popolo del genere aspirare a dettare codici etici al resto del mondo? Come fanno a non rendersene conto?
Il solo comportamento moralmente ancora più discutibile è quello dei giornalisti che non scrivono o commentano queste notizie.
Fatele girare voi.
http://www.nationalreview.com/article/352254/wombs-rent-http://
abcnews.go.com/GMA/Parenting/military-wives-surrogates-carrying-babies-love-money/story?id=11882687
http://www.ozy.com/acumen/serve-our-country-serve-as-a-surrogate/33106
Faccio precedere questo post da ben tre collegamenti con articoli di giornali americani sull’argomento perché , a mio avviso, questa notizia ha dell’incredibile e la nostra cultura europea ci porterebbe a pensare che si tratta di uno scherzo.
L’ultimo dato statistico USA disponibile sulle madri surrogate è del 2008 e ci dice che vi furono in tutto il paese 1400 gestazioni per conto terzi.
Una ricerca sui casi di madri surrogate ( le donne che affittano a pagamento l’utero a terzi che non vogliono o non possono avere una gestazione classica) ha rivelato che una alta percentuale di queste persone – dal 19 al 50% – sono mogli di militari in missione e che lo fanno ” per arrotondare lo stipendio e anche per dare un figlio alla Patria”.
Cosa spinge queste persone pare sia il fatto che una famiglia raddoppia i suoi proventi. Ai 30.000 dollari annui dello stipendio del marito , si aggiungono i trentamila che vengono dall’affitto dell’utero della moglie. C’è chi ha calcolato che, a questi prezzi, una gestazione completa costa tre dollari l’ora.
Una seconda motivazione dice che la signora con questo sistema riesce a stare a casa per accudire i figli invece di andare al lavoro.
A ben vedere c’è una sorta di tragico contrappasso in questo: lui guadagna uccidendo, lei creando una nuova vita.
Lui viene visto come un eroe, lei come una poco di buono.
La parte più aberrante di questo fenomeno è la protesta di chi dice che la puerpera froda lo stato godendo dell’assistenza sanitaria gratuita mentre in realtà sta sta facendo un affare privato e quindi non dovrebbe godere delle cure gratuite, ma accollarsi il costo produttivo di reddito imponibile.
Una fiera delle aridità .
Come può un popolo del genere aspirare a dettare codici etici al resto del mondo? Come fanno a non rendersene conto?
Il solo comportamento moralmente ancora più discutibile è quello dei giornalisti che non scrivono o commentano queste notizie.
Fatele girare voi.
lunedì, ottobre 27, 2014
In Memoriam: Stratford Caldecott (1953-2014) | Collections | dalla rivista Communio
In Memoriam: Stratford Caldecott (1953-2014) | Collections | dalla rivista Communio:
www.communio-icr.com/collections/view/in-memoriam-stratford-caldecott
Tutti gli articoli di Stratford Caldecott usciti sulla rivista Communio in questo collegamento.
domenica, ottobre 26, 2014
giovedì, ottobre 23, 2014
Così Giovanni Reale svelava tutti gli enigmi del Simposio
Così Giovanni Reale svelava tutti gli enigmi del Simposio:
È scomparso Giovanni Reale. Per ricordarlo pubblichiamo una sua intervista con Giancarlo Bosetti uscita su Repubblica nel febbraio del 2005.
Diceva Werner Jaeger, il grande grecista tedesco, che nessuna parola umana e nessuna analisi critica possono rendere giustizia alla suprema perfezione artistica del Simposio. Ma questo non ha mai spaventato Giovanni Reale che su quelle pagine di Platone è tornato tante volte nella sua vita, traducendole, commentandole, portandole in teatro, disseminando per ogni genere di collezione, tascabile o accademica, i suoi saggi e le sue annotazioni alle parole del filosofo.
L’amore è un enigma per tutti i mortali, ma nel Simposio, bestseller più che bimillenario (fu scritto in un anno imprecisato intorno al 370 a.C.), l’enigma diventa un labirinto giocoso di enigmi, popolato di maschere, di messaggi cifrati, di allusioni, di scambi di ruolo, di teorie false presentate per vere e di vere camuffate da false. C’è da perdersi come in un ballo in maschera in cui non si sa più chi è chi e che cosa, se non si dispone di una guida come Giovanni Reale; il quale nel labirinto abita stabilmente con la dimestichezza di un giardiniere che si occupi della manutenzione delle siepi e ne conosca tutti gli angoli. Con il suo aiuto allora vediamo di sciogliere una manciata di enigmi e di togliere la maschera a qualcuno dei personaggi. Chi voglia fare una visita completa dovrà andarlo a sentire in teatro oppure leggere il suo Eros dèmone mediatore (Rizzoli), dove ognuno dei personaggi del banchetto viene smascherato nella sua funzione scenica, poetica e filosofica.
Togliamo una prima maschera, Reale, quella di Pausania, il politico, quello che distingue tra Afrodite celeste e Afrodite terrestre, amore nobile e amore volgare, amore per gli uomini e per le donne.
«È il retore sofista alla moda, colui che spiega le regole della Atene-bene per l’amore comme il faut, formula per esteso il bon ton del corteggiamento, teorizza l’amore pederastico, che è alla base della cultura ateniese dell’epoca, quasi come una legge dello scambio: i favori della bellezza contro la sapienza e la virtù; il giovane conceda i suoi favori per diventare migliore. Ma gli risponderà alla fine del dialogo la scena d’amore (non consumato) tra Socrate e Alcibiade. Il secondo, bellissimo, giovane e potente, voleva. Il primo, sapiente e bruttissimo, no, si nega, e spiega: “Caro Alcibiade, se credevi di scambiare la bellezza straordinaria che vedi in me con la tua avvenenza fisica, tu pensavi di trarre vantaggio ai miei danni. In cambio dell’apparenza del bello, tu cerchi di guadagnarti la verità del bello, e veramente pensi di scambiare armi d’oro con armi di bronzo”.»
Le tesi di Pausania sono dunque ben presentate ma non accolte da Platone.
«Per Platone Eros e sapienza vanno congiunte ma in un modo differente. Pausania vuol mediare cose non mediabili in quel modo, perché l’Eros sessuale è solo il primo gradino della scala d’amore; l’Eros filosofico va molto più in alto fino a congiungersi con il Bello assoluto.»
E sciogliamo adesso un enigma. Perché Socrate arriva in ritardo al banchetto al punto che devono cominciare senza di lui?
«Socrate si ferma fuori della casa di Agatone perché riceve una ispirazione divina; arriverà a metà della cena, così come il suo discorso arriverà a metà delle pagine del Simposio. E l’ispirazione era indispensabile – andava rimarcata con il ritardo – perché in questo modo non è lui a confutare direttamente gli altri, distruggendone le idee. Potrà fingere di essere stato confutato lui stesso dalle idee che ha ricevuto attraverso l’ispirazione. Non è solo una questione di eleganza. Un contrasto così forte sarebbe stato dissacratore della sacralità del simposio, avrebbe introdotto una dialettica distruttiva, mentre il simposio deve essere una sinfonia.»
Questo è più Platone che Socrate.
«È infatti un Socrate ricreato; quello vero invece si faceva anche picchiare, per come era a volte urtante, ma Platone vuole che il simposio sia armonioso e che le sue idee passino attraverso mezzi poetici e delicati. E dunque impone a Socrate una doppia maschera.»
Perché doppia? Che cosa deve rappresentare Socrate?
«Socrate finge di fare sue le posizioni di Agatone, il poeta tragico, padrone di casa, reduce da una grande trionfo teatrale che il simposio ha appunto lo scopo di festeggiare. Il discorso di Agatone è purissima musica di parole, Eros è il più bello, il più felice, il più buono degli dèi, e reca una infinità di doni agli uomini, è una guida bellissima e bravissima che tutti devono seguire. Quando poi prenderà la parola Socrate, raccontando il suo incontro con la sacerdotessa Diotima di Mantinea, il gioco teatrale delle maschere farà sì che questa gli parli come se lui fosse Agatone. Ma lui a sua volta si rivolge ad Agatone come se fosse Diotima, mettendosi dunque questa seconda maschera. Per far passare, e trionfare, il suo celebre discorso (quello di Diotima) finge di essere stato confutato, si finge ambasciatore delle confutazioni.»
E il rovesciamento delle tesi di Agatone (come degli altri che spiegano quel che «l’amore non è») lascia il posto al celebre discorso di Socrate-Diotima sul quello che «l’amore è».
«Con la confutazione di Agatone, presentata come il discorso di una veggente, si entra un clima nuovo, si apre il sipario alla presentazione della Verità, veniamo iniziati ai misteri dell’amore, facciamo la conoscenza di Eros come dèmone mediatore, come quello che connette le cose e rende unitario l’essere. Non la bellezza ma la mancanza della bellezza, perché si ama e si desidera ciò che ci manca. Ed è un mito a spiegare la natura di Eros, figlio di Penia e di Poros, della povertà e dell’astuzia, un figlio “ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo, che si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e sulle strade” per parte di madre; e “mirabile cacciatore, che intreccia sempre astuzie” per parte di padre.»
Abbiamo lasciato da parte un altro enigma, quello di Aristofane, uno dei banchettanti. Il suo discorso è quello del mito delle due metà, separate da Zeus. Perché un comico fa un discorso tanto importante nell’equilibrio del dialogo?
«Perché Platone così, ridendo, riesce a dire cose in cui credeva, evitando di essere deriso, perché protetto dalla maschera di Aristofane, la maschera del comico. Forse è questo il momento più magico del dialogo, quello in cui si spiega l’amore come il desiderio di ricongiungersi con l’altra metà. Gli esseri umani erano una unità androgina, che fu divisa in due da Zeus per punirla dei tentativi di assalire gli dèi. Il male nasce dalla divisione, dalla diade e il bene consiste nel cercare di superarla, di fare di due uno. L’amore è nostalgia dell’unità perduta.»
L’altra metà, una tesi anche molto romantica e moderna.
«E che spiega il desiderio di unità e fusione che c’è nella relazione amorosa, spiega come l’incontro degli amanti corrisponda al ritorno a qualche cosa di antico. Ma la forza della poesia filosofica consiste qui nel fatto che Platone allude in modo cifrato alle dottrine interne dell’Accademia, non segrete ma riservate alle comunicazioni verbali, non scritte: l’Uno causa del Bene, la Diade causa del Male. Platone ha due linguaggi: uno per tutti, e uno soltanto per quelli che seguivano le sue lezioni; quando in qualche occasione accettò di esporre a un grosso pubblico la sua dottrina dell’Essere tutti si aspettavano che, arrivato al nocciolo, dicesse che il bene è la bellezza e cose simili. Quando gli sentirono dire che il Bene è l’Uno – ce lo racconta Aristotele – raccolse reazioni di scherno. Quelle idee non sarebbero state bene accolte per molto tempo, fino a Plotino. Il gioco poetico delle maschere era dunque necessario a Platone e gli consentiva di rivelarsi attraverso il sublime, in un linguaggio che riesce a parlare anche agli innamorati di oggi.»
La nostalgia dell’unità perduta nel discorso di Aristofane produce un altro enigma. L’anima degli amanti, dice, parla per enigmi.
«Quando le due metà si ritrovano sono sopraffatte dall’intimità, dall’affetto, dall’amore, e non vogliono più separarsi l’uno dall’altro, neanche per un momento. Questa situazione si presenta come un grande interrogativo. Perché accade? Questo slancio così grande non si può spiegare con un infinito riproporsi dei piaceri amorosi. Spiega Aristofane-Platone: “È evidente che l’anima di ciascuno di essi desidera qualche altra cosa che non sa dire, eppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi”. L’inseguimento dell’intero perduto continua indefinitamente, e guarda verso l’ulteriore, l’al di là, il trascendente. Eros porta con sé quest’altra domanda e insieme anche la speranza di un ricongiungimento, che ricostituisca la nostra natura antica e ci renda beati e felici. La sua natura di demone, di intermedio, dà a Eros la sua forza creatrice, lo spinge ad entrare in possesso del Bene per sempre.»
Ultimi due enigmi, almeno per il momento: quello che apre il Simposio e quello che lo chiude. L’inizio: il Simposio è un racconto di terza mano. Apollodoro, che al banchetto leggendario non c’è mai stato, racconta a un compagno di viaggio, Glaucone, quel che ha saputo anni prima da un vecchio amico di Socrate, Aristodemo, che c’era.
«Il significato è chiaro: le dottrine non scritte rischiano di essere tradite nella catena della trasmissione orale. Dunque Platone dice ai suoi: fate attenzione, i racconti vanno controllati, facendo delle verifiche, perché girano versioni lacunose e sbagliate persino su chi c’era e chi no. E poi il simposio viene collocato così in una dimensione leggendaria, come leggendaria è la figura del vincitore della competizione intellettuale: Socrate. Chi lo racconta era bambino all’epoca dei fatti. In questo modo Platone non inventa il banchetto ma lo ricrea trasfigurando qualche cosa di realmente avvenuto.»
E infine quella che lei chiama la «firma d’autore» nelle ultime righe.
«Socrate trionfante a notte fonda costringe Agatone, poeta tragico, e Aristofane, comico, ad ammettere che “è proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie, e che chi è poeta tragico per arte per arte è anche poeta comico”. I due ciondolavano la testa e crollarono per il sonno. Palesemente nessuno di loro sapeva fare entrambe le cose, uno solo comico, l’altro solo tragico. Con eleganza squisita, senza dirlo, Platone parlava della sua propria arte, della poesia filosofia fondata sul vero. O, se preferite, della vittoria di Apollo su Dioniso.»
È scomparso Giovanni Reale. Per ricordarlo pubblichiamo una sua intervista con Giancarlo Bosetti uscita su Repubblica nel febbraio del 2005.
Diceva Werner Jaeger, il grande grecista tedesco, che nessuna parola umana e nessuna analisi critica possono rendere giustizia alla suprema perfezione artistica del Simposio. Ma questo non ha mai spaventato Giovanni Reale che su quelle pagine di Platone è tornato tante volte nella sua vita, traducendole, commentandole, portandole in teatro, disseminando per ogni genere di collezione, tascabile o accademica, i suoi saggi e le sue annotazioni alle parole del filosofo.
L’amore è un enigma per tutti i mortali, ma nel Simposio, bestseller più che bimillenario (fu scritto in un anno imprecisato intorno al 370 a.C.), l’enigma diventa un labirinto giocoso di enigmi, popolato di maschere, di messaggi cifrati, di allusioni, di scambi di ruolo, di teorie false presentate per vere e di vere camuffate da false. C’è da perdersi come in un ballo in maschera in cui non si sa più chi è chi e che cosa, se non si dispone di una guida come Giovanni Reale; il quale nel labirinto abita stabilmente con la dimestichezza di un giardiniere che si occupi della manutenzione delle siepi e ne conosca tutti gli angoli. Con il suo aiuto allora vediamo di sciogliere una manciata di enigmi e di togliere la maschera a qualcuno dei personaggi. Chi voglia fare una visita completa dovrà andarlo a sentire in teatro oppure leggere il suo Eros dèmone mediatore (Rizzoli), dove ognuno dei personaggi del banchetto viene smascherato nella sua funzione scenica, poetica e filosofica.
Togliamo una prima maschera, Reale, quella di Pausania, il politico, quello che distingue tra Afrodite celeste e Afrodite terrestre, amore nobile e amore volgare, amore per gli uomini e per le donne.
«È il retore sofista alla moda, colui che spiega le regole della Atene-bene per l’amore comme il faut, formula per esteso il bon ton del corteggiamento, teorizza l’amore pederastico, che è alla base della cultura ateniese dell’epoca, quasi come una legge dello scambio: i favori della bellezza contro la sapienza e la virtù; il giovane conceda i suoi favori per diventare migliore. Ma gli risponderà alla fine del dialogo la scena d’amore (non consumato) tra Socrate e Alcibiade. Il secondo, bellissimo, giovane e potente, voleva. Il primo, sapiente e bruttissimo, no, si nega, e spiega: “Caro Alcibiade, se credevi di scambiare la bellezza straordinaria che vedi in me con la tua avvenenza fisica, tu pensavi di trarre vantaggio ai miei danni. In cambio dell’apparenza del bello, tu cerchi di guadagnarti la verità del bello, e veramente pensi di scambiare armi d’oro con armi di bronzo”.»
Le tesi di Pausania sono dunque ben presentate ma non accolte da Platone.
«Per Platone Eros e sapienza vanno congiunte ma in un modo differente. Pausania vuol mediare cose non mediabili in quel modo, perché l’Eros sessuale è solo il primo gradino della scala d’amore; l’Eros filosofico va molto più in alto fino a congiungersi con il Bello assoluto.»
E sciogliamo adesso un enigma. Perché Socrate arriva in ritardo al banchetto al punto che devono cominciare senza di lui?
«Socrate si ferma fuori della casa di Agatone perché riceve una ispirazione divina; arriverà a metà della cena, così come il suo discorso arriverà a metà delle pagine del Simposio. E l’ispirazione era indispensabile – andava rimarcata con il ritardo – perché in questo modo non è lui a confutare direttamente gli altri, distruggendone le idee. Potrà fingere di essere stato confutato lui stesso dalle idee che ha ricevuto attraverso l’ispirazione. Non è solo una questione di eleganza. Un contrasto così forte sarebbe stato dissacratore della sacralità del simposio, avrebbe introdotto una dialettica distruttiva, mentre il simposio deve essere una sinfonia.»
Questo è più Platone che Socrate.
«È infatti un Socrate ricreato; quello vero invece si faceva anche picchiare, per come era a volte urtante, ma Platone vuole che il simposio sia armonioso e che le sue idee passino attraverso mezzi poetici e delicati. E dunque impone a Socrate una doppia maschera.»
Perché doppia? Che cosa deve rappresentare Socrate?
«Socrate finge di fare sue le posizioni di Agatone, il poeta tragico, padrone di casa, reduce da una grande trionfo teatrale che il simposio ha appunto lo scopo di festeggiare. Il discorso di Agatone è purissima musica di parole, Eros è il più bello, il più felice, il più buono degli dèi, e reca una infinità di doni agli uomini, è una guida bellissima e bravissima che tutti devono seguire. Quando poi prenderà la parola Socrate, raccontando il suo incontro con la sacerdotessa Diotima di Mantinea, il gioco teatrale delle maschere farà sì che questa gli parli come se lui fosse Agatone. Ma lui a sua volta si rivolge ad Agatone come se fosse Diotima, mettendosi dunque questa seconda maschera. Per far passare, e trionfare, il suo celebre discorso (quello di Diotima) finge di essere stato confutato, si finge ambasciatore delle confutazioni.»
E il rovesciamento delle tesi di Agatone (come degli altri che spiegano quel che «l’amore non è») lascia il posto al celebre discorso di Socrate-Diotima sul quello che «l’amore è».
«Con la confutazione di Agatone, presentata come il discorso di una veggente, si entra un clima nuovo, si apre il sipario alla presentazione della Verità, veniamo iniziati ai misteri dell’amore, facciamo la conoscenza di Eros come dèmone mediatore, come quello che connette le cose e rende unitario l’essere. Non la bellezza ma la mancanza della bellezza, perché si ama e si desidera ciò che ci manca. Ed è un mito a spiegare la natura di Eros, figlio di Penia e di Poros, della povertà e dell’astuzia, un figlio “ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo, che si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e sulle strade” per parte di madre; e “mirabile cacciatore, che intreccia sempre astuzie” per parte di padre.»
Abbiamo lasciato da parte un altro enigma, quello di Aristofane, uno dei banchettanti. Il suo discorso è quello del mito delle due metà, separate da Zeus. Perché un comico fa un discorso tanto importante nell’equilibrio del dialogo?
«Perché Platone così, ridendo, riesce a dire cose in cui credeva, evitando di essere deriso, perché protetto dalla maschera di Aristofane, la maschera del comico. Forse è questo il momento più magico del dialogo, quello in cui si spiega l’amore come il desiderio di ricongiungersi con l’altra metà. Gli esseri umani erano una unità androgina, che fu divisa in due da Zeus per punirla dei tentativi di assalire gli dèi. Il male nasce dalla divisione, dalla diade e il bene consiste nel cercare di superarla, di fare di due uno. L’amore è nostalgia dell’unità perduta.»
L’altra metà, una tesi anche molto romantica e moderna.
«E che spiega il desiderio di unità e fusione che c’è nella relazione amorosa, spiega come l’incontro degli amanti corrisponda al ritorno a qualche cosa di antico. Ma la forza della poesia filosofica consiste qui nel fatto che Platone allude in modo cifrato alle dottrine interne dell’Accademia, non segrete ma riservate alle comunicazioni verbali, non scritte: l’Uno causa del Bene, la Diade causa del Male. Platone ha due linguaggi: uno per tutti, e uno soltanto per quelli che seguivano le sue lezioni; quando in qualche occasione accettò di esporre a un grosso pubblico la sua dottrina dell’Essere tutti si aspettavano che, arrivato al nocciolo, dicesse che il bene è la bellezza e cose simili. Quando gli sentirono dire che il Bene è l’Uno – ce lo racconta Aristotele – raccolse reazioni di scherno. Quelle idee non sarebbero state bene accolte per molto tempo, fino a Plotino. Il gioco poetico delle maschere era dunque necessario a Platone e gli consentiva di rivelarsi attraverso il sublime, in un linguaggio che riesce a parlare anche agli innamorati di oggi.»
La nostalgia dell’unità perduta nel discorso di Aristofane produce un altro enigma. L’anima degli amanti, dice, parla per enigmi.
«Quando le due metà si ritrovano sono sopraffatte dall’intimità, dall’affetto, dall’amore, e non vogliono più separarsi l’uno dall’altro, neanche per un momento. Questa situazione si presenta come un grande interrogativo. Perché accade? Questo slancio così grande non si può spiegare con un infinito riproporsi dei piaceri amorosi. Spiega Aristofane-Platone: “È evidente che l’anima di ciascuno di essi desidera qualche altra cosa che non sa dire, eppure presagisce ciò che vuole e lo dice in forma di enigmi”. L’inseguimento dell’intero perduto continua indefinitamente, e guarda verso l’ulteriore, l’al di là, il trascendente. Eros porta con sé quest’altra domanda e insieme anche la speranza di un ricongiungimento, che ricostituisca la nostra natura antica e ci renda beati e felici. La sua natura di demone, di intermedio, dà a Eros la sua forza creatrice, lo spinge ad entrare in possesso del Bene per sempre.»
Ultimi due enigmi, almeno per il momento: quello che apre il Simposio e quello che lo chiude. L’inizio: il Simposio è un racconto di terza mano. Apollodoro, che al banchetto leggendario non c’è mai stato, racconta a un compagno di viaggio, Glaucone, quel che ha saputo anni prima da un vecchio amico di Socrate, Aristodemo, che c’era.
«Il significato è chiaro: le dottrine non scritte rischiano di essere tradite nella catena della trasmissione orale. Dunque Platone dice ai suoi: fate attenzione, i racconti vanno controllati, facendo delle verifiche, perché girano versioni lacunose e sbagliate persino su chi c’era e chi no. E poi il simposio viene collocato così in una dimensione leggendaria, come leggendaria è la figura del vincitore della competizione intellettuale: Socrate. Chi lo racconta era bambino all’epoca dei fatti. In questo modo Platone non inventa il banchetto ma lo ricrea trasfigurando qualche cosa di realmente avvenuto.»
E infine quella che lei chiama la «firma d’autore» nelle ultime righe.
«Socrate trionfante a notte fonda costringe Agatone, poeta tragico, e Aristofane, comico, ad ammettere che “è proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie, e che chi è poeta tragico per arte per arte è anche poeta comico”. I due ciondolavano la testa e crollarono per il sonno. Palesemente nessuno di loro sapeva fare entrambe le cose, uno solo comico, l’altro solo tragico. Con eleganza squisita, senza dirlo, Platone parlava della sua propria arte, della poesia filosofia fondata sul vero. O, se preferite, della vittoria di Apollo su Dioniso.»
lunedì, ottobre 20, 2014
Cristiada, un'epopea che riaffiora - di Paolo Gulisano (da Il Sussidiario)
Cristiada, un'epopea che riaffiora - di Paolo Gulisano (da Il Sussidiario):
Da oggi in Italia è finalmente distribuito il film Cristiada. Una lunga inspiegabile attesa ha termine, e finalmente sarà possibile vedere sul grande schermo questo film che rievoca una delle pagine più drammatiche e commoventi della storia del Ventesimo secolo: l'epopea dei Cristeros, i martiri messicani uccisi per la fede negli anni 20 e 30 dello scorso secolo. Un film a sua volta epico, commovente, con grandi interpreti come Andy Garcia e un intensissimo Peter O'Toole, con il grande attore irlandese recentemente scomparso alla sua ultima interpretazione. Come spiegare il lungo boicottaggio subito da questo film, che ha tutti gli ingredienti per avere successo: spettacolarità, plot narrativo avvincente, grandi interpreti? Cosa disturba di questa storia di martirio di un popolo? Occorre anzitutto partire da una premessa ineludibile: La storia viene scritta dai vincitori: tale affermazione è comunemente e largamente accettata. Gli stessi vinti hanno imparato a leggere tra le righe di quanto viene detto sulle loro vicende. Spesso dalle versioni ufficiali prendono vita le contro- storie, i tentativi -magari ostacolati anche duramente - di proporre ipotesi diverse, di far sentire altre voci, di cercare altre ragioni. Il dramma è quando la storia non viene scritta.
Peggio della damnatio memoriae non c'è che l'assenza di memoria: dimenticare, come se nulla fosse accaduto, o far finta di non ricordare, che comunque dà il medesimo esito: la relegazione nell'oblio. Tale operazione - sempre e comunque scorretta - appare addirittura paradossale in un 'epoca come la nostra che si avvale di numerosissimi strumenti di lavoro per gli storici nonchè possibilità di comunicazione e accesso all'informazione. Nel corso del Ventesimo secolo, dolorosamente percorso da immani tragedie, risultato non solo dei diversi totalitarismi ma soprattutto del clima ideologico e culturale venutosi a determinare dopo duecento anni di sogni (o sarebbe meglio dire incubi) della ragione, che ha voluto violentare la natura e l'uomo in forza delle pretese dell'utopia e delle sue realizzazioni pratiche, si è verificato un evento di considerevole importanza e che incredibilmente è stato soggetto ad una lunga censura storiografica, la rivolta dei Cristeros. Si trattò di una grande insurrezione, di una guerra civile che ebbe luogo in un paese importante come il Messico, che durò tre anni e che si trascinò poi per moltissimo tempo, lasciando effetti duraturi sulla struttura politica e sociale del paese, e determinando in maniera irreversibile il destino non solo messicano, ma forse dell'intero sub-continente latino- americano. Fu un conflitto che si determinò con caratteristiche che pure dovrebbero attirare l'attenzione degli studiosi , in primo luogo, ma anche di chi abbia a cuore valori come la libertà, i diritti umani, la giustizia sociale: la rivolta dei cristeros fu infatti il più importante moto autonomo contadino avvenuto nell'America Latina in tutto il ventesimo secolo, e certamente uno dei principali a livello mondiale. La rivolta fu soprattutto la reazione di una società contadina, tradizionale, cattolica, all'aggressione perpetrata dallo stato autoritario uscito dalla rivoluzione degli anni Dieci, uno stato formalmente espressione della rivoluzionaria volontà popolare, ma in realtà profondamente estraneo al popolo "vero", quello che viveva nei barrios delle grandi città come quello delle campagne, come gli indios delle foreste.
Una rivoluzione, quella messicana, che ha goduto altresì, rispetto ai cristeros, di ottima ( e immeritata) fama, di vasta pubblicistica, persino dell'onore di essere considerata - sino alla rivoluzione cubana di Fidel Castro- il più importante rivolgimento dell'ordine politico e sociale avvenuto nell'America Latina, in grado di produrre, a differenza degli infiniti "pronunciamientos" succedutisi in precedenza nel continente- una reale e radicale trasformazione. Non eviteremo, in queste pagine, di rivisitare criticamente anche questo mito, consolidatosi comunemente ormai come realtà all'attenzione dell'opinione pubblica.
Il martirio del Messico, dove andò al potere agli inizi degli anni '20 un potere massonico ferocemente antireligioso che si proponeva di sradicare il Cristianesimo dal Messico, è un esempio paradigmatico di storia negata.
I cristeros combatterono, soffrirono e morirono per la loro fede, per difendere la libertà religiosa, ossia, -detto in termini pratici, la possibilità stessa di accedere ai sacramenti. di avere, per sè e i propri figli un'istruzione cristiana , di poter trasmettere e comunicare liberamente la fede stessa. Questo sacrificio di sangue che settant'anni fa vide una intera nazione cattolica brutalizzata da un governo che si era prefisso di estirpare dal popolo ogni radice di religiosità, è senz'altro meritevole di giungere ad interpellare e, perchè no?, a scuotere e a commuovere gli animi e le coscienze spesso pigri, intorpiditi dei credenti Quello dei Cristeros è stato il martirio tipico del XX secolo, epoca caratterizzata dai reiterati tentativi di costruire, oltre che nuove società, "uomini nuovi".
Questi tentativi hanno tutti lasciato dietro di sè una spaventosa scia di sangue. La rivoluzione messicana fa parte, a buon diritto, della schiera di questi "esperimenti" poligenetici, e analogamente agli altri scatenò la furia rabbiosa della persecuzione contro la religione, contro ciò che costituiva l'anima della nazione messicana, il suo tessuto connettivo, il fondamento stesso dell'ordine civile e umano. In una rivoluzione, in ogni tentativo di esercizio arbitrario e totalitario del potere, è necessario colpire anzitutto la Libertas Ecclesiae. Laddove infatti la Chiesa è libera nell'adempimento della sua missione, cioè andare con Cristo incontro agli uomini, laddove c'è libertà per la Chiesa, c'è inevitabilmente libertà per l'uomo: "la Verità vi farà liberi". Per questo motivo nel nostro secolo le guerre sono state, soprattutto, guerre contro la religione. Ogni progetto di nuovo ordine e di uomo nuovo è stato impegnato in primo luogo nello sbarazzarsi, ideologicamente e materialmente, della ingombrante presenza di chi ha avuto la pretesa di definirsi Via, Verità e Vita.
I Cristeros, da Padre Vega al generale Goroztieta fino all'ultimo dei volontari, fino al più piccolo, come il ragazzo-martire Josè Del Rio, come ogni martire per la fede in tutta la storia della Chiesa, erano molto di più che degli avversari politici, dei membri di una fazione avversa al potere di turno: erano dei testimone di questa Verità e di questa Via, testimoni per mezzo di una vita intensa, credibile, affascinante, e per questo insopportabile per il nemico.
Guardare alla storia tragica e splendida dei Cristeros significa comprendere cos'è il Cristianesimo, e perché valga la pena battersi per Cristo Re, anche quando è la Chiesa stessa ( o per meglio dire alcuni prelati) a tradire, per paura, per debolezza, per cercare di compiacere il mondo. I Cristeros, abbandonati dalle gerarchie, abbandonati dalla Curia romana, continuarono a restare aggrappati a Cristo, che non vollero tradire, che non vollero abbandonare. Una tragedia splendida che ci insegna molto per il presente e il futuro della Chiesa.
Paolo Gulisano
domenica, ottobre 19, 2014
Paolo VI beato. Amava Chesterton e lo recensì
Paolo VI beato. Amava Chesterton e lo recensì:
In questo post e in quest'altro trovate la recensione di Ortodossia e quella del San Francesco a firma di Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI, oggi beato.
Gli scritti sono tratti rispettivamente dalle riviste Il Frontespizio e Studium e torniamo a dare atto che li dobbiamo alla pazienza e all'amore per le cose belle di Angelo Bottone che li riesumò alcuni anni fa. Sempre grati.
mercoledì, ottobre 15, 2014
lunedì, ottobre 13, 2014
sabato, ottobre 11, 2014
The Second Vatican Council and John Henry Newman
The Second Vatican Council and John Henry Newman
by Ian Ker
The fiftieth anniversary of the opening of the Second Vatican Council fell two years ago in October 2012. In December next year it will be the fiftieth anniversary of the end of the Council. There is bound to be much discussion in the coming months of the meaning and significance of the Council, its failures, its successes, its misinterpretations, its distortion and exaggerations, its key seminal texts, and its future developments. Blessed John Henry Newman has often been referred to as ‘the Father of the Second Vatican Council’. Although Newman was certainly inspirational for the theologians who were the architects of the Council’s teachings, many of which he had anticipated in the previous century, there is only one place in the conciliar documents where his direct influence can clearly be discerned, the text in the Constitution on Divine Revelation which speaks of the development of doctrine. Even so, in this most seminal of modern theologians, the theologians of the ‘ressourcement’ found a sympathetic and eloquent precursor. The ‘ressourcement’ was a theological school that sought to retrieve the sources of Christianity in the the Scriptures and the Fathers and was anxious to escape from the dead hand of a desiccated neo-scholasticism which had lost touch with the Fathers.
Newman has often suffered from selective quotation by people on the opposing wings of the Catholic Church who seek to present him as either a liberal and progressive or as a highly conservative and even reactionary thinker. But the truth is that Newman must be seen in the full range of his thought. For Newman was neither simply conservative nor liberal but is best described as a conservative radical, always open to new ideas and developments but also always sensitive to the tradition and teachings of the Church.
As an Anglican, his radicalism disconcerted and dismayed conservative high churchmen. As a Catholic, he disappointed the liberals because of his respect for authority. He also angered the Ultramontanes with his openness to change and reform.
More here.
by Ian Ker
The fiftieth anniversary of the opening of the Second Vatican Council fell two years ago in October 2012. In December next year it will be the fiftieth anniversary of the end of the Council. There is bound to be much discussion in the coming months of the meaning and significance of the Council, its failures, its successes, its misinterpretations, its distortion and exaggerations, its key seminal texts, and its future developments. Blessed John Henry Newman has often been referred to as ‘the Father of the Second Vatican Council’. Although Newman was certainly inspirational for the theologians who were the architects of the Council’s teachings, many of which he had anticipated in the previous century, there is only one place in the conciliar documents where his direct influence can clearly be discerned, the text in the Constitution on Divine Revelation which speaks of the development of doctrine. Even so, in this most seminal of modern theologians, the theologians of the ‘ressourcement’ found a sympathetic and eloquent precursor. The ‘ressourcement’ was a theological school that sought to retrieve the sources of Christianity in the the Scriptures and the Fathers and was anxious to escape from the dead hand of a desiccated neo-scholasticism which had lost touch with the Fathers.
Newman has often suffered from selective quotation by people on the opposing wings of the Catholic Church who seek to present him as either a liberal and progressive or as a highly conservative and even reactionary thinker. But the truth is that Newman must be seen in the full range of his thought. For Newman was neither simply conservative nor liberal but is best described as a conservative radical, always open to new ideas and developments but also always sensitive to the tradition and teachings of the Church.
As an Anglican, his radicalism disconcerted and dismayed conservative high churchmen. As a Catholic, he disappointed the liberals because of his respect for authority. He also angered the Ultramontanes with his openness to change and reform.
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venerdì, ottobre 10, 2014
giovedì, ottobre 09, 2014
Newman’s Bones
Newman’s Bones:
This coming October marks the sixth anniversary of the exhumation of Blessed John Henry Cardinal Newman’s corpse. From an austere burial site in a small cemetery near Rednal, Newman’s remains were to be moved—translated, as the term of art has it—to a marble sarcophagus standing opposite All Soul’s Altar in the Birmingham Oratory, the fraternal congregation established by Newman (with Paul IX’s endorsement) shortly following his 1845 reception into the Catholic Church. That the Church should take a keen interest in his corpse was no surprise. No, that interest was and is threaded deeply within a rather ancient pattern of thought that entails, inter alia, the disinterment, dismemberment, and distribution of the traces of the canonized or beatified dead for veneration among the faithful. This is how the Church came by the designator Cultus sanctorum, by performing a curious form of sacramental necrophilism by which Christians give honor to their saints by clinging to their material vestiges: bone, hair, bits of cloth, scapulars, and their like. Or so it goes, ideally.
Newman’s case proved altogether different: this time the Vatican’s request engendered two unanticipated results. The first had to do with public reaction to the request which was swift and, at its highest pitch, blistering. Much of the ruction flowed from the pens of gay activists for whom, the argument runs, a singular motive slouched behind the disinterment—namely quieting whispers regarding the nature of Newman’s intimate and (presumably) romantic attachment to his beloved, Fr. Ambrose of St. John. They held that to translate Newman’s corpse was to ride roughshod over the Cardinal’s repeated wishes to be buried with his confrater. On this view, the Vatican’s actions amounted to little more than ghoulish acts of “grave-robbing, sacrilege, and desecration.” Shots were returned and, as is so often the case in our time, an otherwise stimulating conversation devolved into splashy mudslinging over sexuality.
But the controversy came to nothing when the tomb turned out to be empty. Well, almost. Though Newman’s corpse was mystifyingly absent, there remained a paltry cluster of sundry materials—“brass, wooden, and cloth artifacts.” The empty grave was forensically predictable: according to the opinion of medical professionals present for the exhumation, the sodden clay native to the area, coupled with the mold in which Newman insisted his casket be enshrouded, rendered conditions ideal for the quickened and complete decomposition of a corpse. The Oratorians claim that Newman himself intended the speedy and total erasure of his traces. This they do by stitching together Newman’s burial stipulations with the famed dictum of his patron saint Philip Neri: amare nesciri (love to be unknown). The minor premise slinking beneath the surface here is, of course, that Newman was fully aware of the long-term sequelae effected by the strain of mold selected; he intended, that is, to be expunged.
Yet confirming whether or not this is in fact the case seems to me about as likely as determining without remainder both the object and nature of Newman’s sexual appetite. Investigations of this variety simply risk obscuring the real scandal of the story.
“There is nothing which prejudices us more in the minds of Protestants,” Newman scratched, “than this belief . . . [the relic] is the Protestants’ charge, and it is our glory.” The real scandal of the empty grave is neither the shadowy specter of his sexuality nor enigmatic forensics but rather the Christic passage of memorabilia to relic, from token to icon. So understood, the absence of his corpse serves to invite the living into deeper reflection about and gratitude for the “heavenly shrines” who, Newman incants, “yet live to God.”
We might say (though Newman does not) that all relics find their paradigm in the Eucharist, at once residuum and promise. The residual connection is likely to be plain; less obvious, though, is the eschatological texture of relic veneration. Just as the Eucharistic stains smeared on our lips prefigure the kisses we hope to receive from those of the resurrected Bridegroom, so too does the reliquary stand as an antechamber to the fleshy communion we hope to sustain with his saints. Relics, then, like all sacramentals, are ephemeral. And it’s to this that Newman’s empty tomb, insofar as it stands as simulacrum of Christ’s, bears witness. Even so, death lingers as the necessary and sufficient condition of resurrection; until then, Catholic Christians should and will continue to seek the living among the dead.
“The truth,” Flannery O’Connor once penned, “does not change according to our ability to stomach it. . . . [T}here are long periods in the lives of all of us, and of the saints, when the truth as revealed by faith is hideous, emotionally disturbing, downright repulsive.” It is indeed difficult to imagine a claim in the order of Catholic truth more likely to provoke disgust than the veneration of relics. Call it morbid, call it cultic. Call it holy nausea. It bids us plunge into the depths of Christianity’s harrowing sublimity—into, that is, our ossuaries encrusted with bone, our catacombs whose chambers ancient hymns once filled. This October, in memoriam, let those among us who consider ourselves students, friends, or even venerators of Blessed John Henry Cardinal Newman follow him into the reliquaries he himself haunted.
Justin Coyle is a PhD student in historical theology at Boston College.
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This coming October marks the sixth anniversary of the exhumation of Blessed John Henry Cardinal Newman’s corpse. From an austere burial site in a small cemetery near Rednal, Newman’s remains were to be moved—translated, as the term of art has it—to a marble sarcophagus standing opposite All Soul’s Altar in the Birmingham Oratory, the fraternal congregation established by Newman (with Paul IX’s endorsement) shortly following his 1845 reception into the Catholic Church. That the Church should take a keen interest in his corpse was no surprise. No, that interest was and is threaded deeply within a rather ancient pattern of thought that entails, inter alia, the disinterment, dismemberment, and distribution of the traces of the canonized or beatified dead for veneration among the faithful. This is how the Church came by the designator Cultus sanctorum, by performing a curious form of sacramental necrophilism by which Christians give honor to their saints by clinging to their material vestiges: bone, hair, bits of cloth, scapulars, and their like. Or so it goes, ideally.
Newman’s case proved altogether different: this time the Vatican’s request engendered two unanticipated results. The first had to do with public reaction to the request which was swift and, at its highest pitch, blistering. Much of the ruction flowed from the pens of gay activists for whom, the argument runs, a singular motive slouched behind the disinterment—namely quieting whispers regarding the nature of Newman’s intimate and (presumably) romantic attachment to his beloved, Fr. Ambrose of St. John. They held that to translate Newman’s corpse was to ride roughshod over the Cardinal’s repeated wishes to be buried with his confrater. On this view, the Vatican’s actions amounted to little more than ghoulish acts of “grave-robbing, sacrilege, and desecration.” Shots were returned and, as is so often the case in our time, an otherwise stimulating conversation devolved into splashy mudslinging over sexuality.
But the controversy came to nothing when the tomb turned out to be empty. Well, almost. Though Newman’s corpse was mystifyingly absent, there remained a paltry cluster of sundry materials—“brass, wooden, and cloth artifacts.” The empty grave was forensically predictable: according to the opinion of medical professionals present for the exhumation, the sodden clay native to the area, coupled with the mold in which Newman insisted his casket be enshrouded, rendered conditions ideal for the quickened and complete decomposition of a corpse. The Oratorians claim that Newman himself intended the speedy and total erasure of his traces. This they do by stitching together Newman’s burial stipulations with the famed dictum of his patron saint Philip Neri: amare nesciri (love to be unknown). The minor premise slinking beneath the surface here is, of course, that Newman was fully aware of the long-term sequelae effected by the strain of mold selected; he intended, that is, to be expunged.
Yet confirming whether or not this is in fact the case seems to me about as likely as determining without remainder both the object and nature of Newman’s sexual appetite. Investigations of this variety simply risk obscuring the real scandal of the story.
“There is nothing which prejudices us more in the minds of Protestants,” Newman scratched, “than this belief . . . [the relic] is the Protestants’ charge, and it is our glory.” The real scandal of the empty grave is neither the shadowy specter of his sexuality nor enigmatic forensics but rather the Christic passage of memorabilia to relic, from token to icon. So understood, the absence of his corpse serves to invite the living into deeper reflection about and gratitude for the “heavenly shrines” who, Newman incants, “yet live to God.”
We might say (though Newman does not) that all relics find their paradigm in the Eucharist, at once residuum and promise. The residual connection is likely to be plain; less obvious, though, is the eschatological texture of relic veneration. Just as the Eucharistic stains smeared on our lips prefigure the kisses we hope to receive from those of the resurrected Bridegroom, so too does the reliquary stand as an antechamber to the fleshy communion we hope to sustain with his saints. Relics, then, like all sacramentals, are ephemeral. And it’s to this that Newman’s empty tomb, insofar as it stands as simulacrum of Christ’s, bears witness. Even so, death lingers as the necessary and sufficient condition of resurrection; until then, Catholic Christians should and will continue to seek the living among the dead.
“The truth,” Flannery O’Connor once penned, “does not change according to our ability to stomach it. . . . [T}here are long periods in the lives of all of us, and of the saints, when the truth as revealed by faith is hideous, emotionally disturbing, downright repulsive.” It is indeed difficult to imagine a claim in the order of Catholic truth more likely to provoke disgust than the veneration of relics. Call it morbid, call it cultic. Call it holy nausea. It bids us plunge into the depths of Christianity’s harrowing sublimity—into, that is, our ossuaries encrusted with bone, our catacombs whose chambers ancient hymns once filled. This October, in memoriam, let those among us who consider ourselves students, friends, or even venerators of Blessed John Henry Cardinal Newman follow him into the reliquaries he himself haunted.
Justin Coyle is a PhD student in historical theology at Boston College.
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giovedì, ottobre 02, 2014
mercoledì, ottobre 01, 2014
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