giovedì, gennaio 31, 2019
mercoledì, gennaio 30, 2019
IN MEMORIAM RICORDO DI FABRIZIO FABBRINI
IN MEMORIAM
RICORDO DI FABRIZIO FABBRINI
E’ mancato, il 23 gennaio scorso, a
Firenze, il professor Fabrizio Fabbrini, storico e giurista, già
assistente del professor La Pira, docente di diritto romano e di storia
romana: uno dei primi obiettori di coscienza cattolici, che a
testimoniare la sua buona fede obiettò solo pochi giorni prima della
fine del servizio militare. Fra i fondatori del Movimento Internazionale
della Riconciliazione, ne fu il presidente negli anni ’70, quando venne
firmata la convenzione col Ministero della Difesa per avviare
l’esperienza del servizio civile nelle sedi del movimento.
Sempre fedele alla ricerca della verità,
anche controcorrente, Fabbrini ha aperto nuove strade in vari campi: ha
pubblicato molti libri, tra cui particolarmente importanti quelli su
Augusto e l’impero romano; l’ultimo di essi, uscito quest’anno per i
tipi della Libreria Editrice Fiorentina, è intitolato Il re alla sbarra. Riguarda la morte di Luigi XVI ed è corredato di una bibliografia immensa.
Con Fabbrini, prematuramente scomparso
nel pieno della sua attività intellettuale e professionale, il mondo
cattolico, la Chiesa e la cultura italiana perdono un grande interprete
che avrebbe avuto ancora molto da dire e da dare.
Nel maggio scorso era caduto per strada
ad Arezzo, dove abitava, procurandosi una lesione cervicale che lo rese
tetraplegico. Ha vissuto sette mesi in preghiera, senza poter muovere
altro che un po’ la testa, pur rimanendo pieno di speranza cristiana
attinta alla sua fede incrollabile.
Pubblico qui di seguito una memoria a lui dedicata nel numero di “Azione Nonviolenta” del 24 gennaio 2019.
Lo ricordiamo ripubblicando una sua
intervista nella quale ripercorre la sua scelta giovanile come obiettore
di coscienza al servizio militare. L’obiezione di coscienza al servizio
militare gli causò la condanna a Forte Boccea. Peraltro,
quell’obiezione di coscienza (che diede poi luogo al suo riconoscimento
nella legislazione italiana) fu affermata da Fabbrini a poche ore dal
termine del suo servizio militare (compiuto fino in fondo) con la
dichiarazione di essere stato fedele alle istituzioni della Repubblica
Italiana e che l’obiezione di coscienza al servizio militare era
motivata anche dall’essere obbediente al dettato dei Padri della Chiesa.
L’incontro con Giorgio La Pira fu
per lui determinante perché la nonviolenza fosse incanalata nel pensiero
lapiriano di cui è stato il massimo conoscitore e diffusore all’interno
del progetto cristiano della pace universale dei popoli.
Claudio Turini
La storia di Fabbrini, che a 10 giorni dal congedo rifiutò di rivestire la divisa
Era il 6 dicembre 1965, il giorno prima
della fine del Concilio Vaticano II. A Fabrizio Fabbrinimancavano solo
dieci giorni al congedo. Era aviere in una caserma di Roma. I suoi
ufficiali lo tenevano d’occhio. Sapevano che voleva obiettare e gli
avevano già fatto capire che se ci avesse provato lo avrebbero spedito a
casa con un congedo anticipato. L’importante era non creare precedenti.
Il suo colonnello glielo aveva detto chiaramente. «Avevano una paura
terribile che qualcuno del mondo cattolico facesse obiezione, perché con
il Concilio in corso c’era una cassa di risonanza enorme. E il Concilio
si era espresso favorevolmente sull’obiezione di coscienza». Fabbrini
ci racconta così quella mattina di dicembre. «Pensai di uscire dalla
caserma, portandomi dietro la divisa in un sacco, come se andassi a casa
e in presenza di alcuni amici cattolici che mi facevano da testimoni,
sono andato alla Tenenza dei Carabinieri e ho consegnato la divisa
militare e un manifestino dove esprimevo le mie motivazioni. Mi arresti,
ho detto all’ufficiale. No, la rimando in caserma. No: mi deve
arrestare perché sono in flagranza di reato, replicai io, che da
giurista conoscevo la legge. Allora l’ufficiale dovette telefonare al
mio colonnello il quale venne di corsa, tutto disperato: Ma cosa fai
figliolo? Perché mi metti di mezzo?, mi chiese. Si rientrò in caserma e
il colonnello mi consegnò all’ufficiale di picchetto che mi diede il
triplice ordine di vestire la divisa, dopodiché mi reclusero. Il giorno
dopo fui trasferito nel carcere militare di Forte Boccea».
Ne seguì nel mese di febbraio un
processo clamoroso «che anziché durare 15 minuti come accadeva in genere
in questi casi, durò 10 giorni. Tanta era la gente – continua Fabbrini –
che dovettero aprire la sala in cui era stato processato il generale
Reider e che non veniva aperta da allora. Ricordo che era il martedì di
Carnevale. Il dibattimento finì alle 10 di mattina e si ritirarono in
camera di consiglio. Ricomparvero alle 11,30 di sera». Fu condannato ad
un anno e 8 mesi di reclusione. Ma il 6 giugno del 1966, a sei mesi
dall’arresto, fu rimesso in libertà. Per il ventennale della Repubblica
il Parlamento votò amnistia e indulto. Fabbrini rifiutò l’amnistia e
ancora oggi si vanta di avere quella condanna sulla fedina penale. Ma
non poté dire di «no» all’indulto che serviva a svuotare le carceri.
«Quattro giorni dopo la condanna –
racconta ancora Fabbrini – mi arrivò il telegramma che mi diceva che non
ero più assistente ordinario all’Università di Roma. Allora La Pira mi
spedì un telegramma dicendo: Se da Roma la cacciano, a Firenze c’è posto
per lei. A giugno venni a Firenze, per ringraziare La Pira. In realtà
il posto non c’era e dovetti fare il concorso per insegnare storia e
filosofia alle superiori. Poi nel 1969 si liberò un posto di assistente
ordinario. Vinsi quel concorso e divenni assistente ordinario di Giorgio
La Pira».
Fabbrini era nato a Forlì il 28 luglio
del 1938. Cresciuto a Udine, si era poi trasferito a Roma, seguendo il
padre, funzionario della Banca d’Italia. Nel 1964, quando a 26 anni
ricevette la cartolina precetto, era già un pacifista cattolico,
fondatore in Italia del Mir, il Movimento internazionale per la
riconciliazione. L’anno prima aveva partecipato al grande raduno
oceanico a Roma, con Lanza Del Vasto: «Vennero dal tutto il mondo.
Invocavamo una presa di posizione del Concilio sull’obiezione di
coscienza che in effetti poi ci fu».
Al Car a Cosenza aveva subito provato ad
obiettare, ma la cosa era fallita, perché i vertici militari avevano
messo a tacere la cosa. Gli era però costato uno scontro con il
cappellano militare, che lo aveva «scomunicato», proibendogli di
accostarsi alla Comunione. Allora Fabbrini chiese di parlare con il
vescovo, che però era a Roma per il Concilio. «Mi ricevette un dotto
vicario – racconta – il quale mi disse: Guardi io sono con lei e capisco
la sua posizione, però la norma morale della Chiesa è questa: chi
disobbedisce allo Stato disobbedisce a Dio». Su questo tema scrisse
anche all’allora arcivescovo di Firenze, il card. Ermenegildo Florit,
che si era pronunciato pubblicamente sull’obbligo per un cattolico di
obbedire all’autorità dello Stato. «Gli scrissi: Scusi, possiamo anche
ammettere che sia così. Però esiste una differenza tra uno Stato normale
e uno ateo? Anche in un paese dittatoriale e ateo come l’Urss, un
cattolico deve sempre obbedire? Mi rispose: Sì anche in quel caso, a
meno che non sia la Chiesa stessa a comandare di disobbedire. Era questo
il vero problema. Era una cosa seria da un punto di visto teologico.
Che poi risentiva di una visione luterana dell’autorità dello Stato».
Sempre da militare, Fabbrini insiste sul
tema dell’obiezione. Scrive una lettera aperta a Paolo VI e la invia a
sette quotidiani. Fu pubblicata in prima pagina, anche dall’«Unità». E a
Fabbrini costò 15 giorni di cella di rigore.
Il suo «caso», come quello pochi anni
prima di Giuseppe Gozzini, fece clamore. Gli attirò consensi ma anche
contestazioni. «Quando passeggiavo per le vie di Roma – ricorda – mi
insultavano, mi sputavano, mi tiravano le uova marce. Ovunque mi recassi
a parlare – e capitava spesso – c’erano gruppetti che venivano a
contestarmi». Nel giugno del 1966, appena uscito di prigione, dette alle
stampe un libro che gli era stato commissionato da Danilo Zolo, una
sorta di documentario giornalistico sull’obiezione di coscienza: Tu non ucciderai: i cattolici e l’obiezione di coscienza in Italia (Cultura
editore). «Venne presentato a Roma alla fine di giugno ’66 da La Pira e
da altri parlamentari. Allora era il momento di maggiore tensione sul
problema. C’era il Vietnam… E nel mio libro il primo caso di cui mi
occupavo era quello di La Pira e della proiezione che fece a Firenze nel
novembre del 1961 del film di Autan-Lara Tu ne tueras pas».
«Tutta la mia azione – ci tiene a
ribadire Fabbrini – era diretta a portare su queste posizioni la Chiesa.
Non l’ho fatto per una mia particolare avversione ai fatti di sangue,
ma perché da cattolico avevo in mente le parole di Pietro: “È meglio
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. E poi c’era don Sturzo – lo
riportavo nel mio libro – che aveva detto che oggi il cattolico deve
disubbidire e disertare». E qualcosa si mosse anche nella Chiesa
«ufficiale». «Alla fine del 1967 ci fu una marcia con 300 sacerdoti,
guidata dal vescovo di Ivrea Bettazzi da Verona a Peschiera del Garda,
dove c’era il carcere militare, per chiedere la liberazione di tutti gli
obiettori di coscienza. Che progressi aveva fatto questa nostra idea!».
Che la sua testimonianza avesse smosso le coscienze e raccolto insospettate simpatie lo dimostrano due fatti inediti che Fabbrini ci racconta.
Che la sua testimonianza avesse smosso le coscienze e raccolto insospettate simpatie lo dimostrano due fatti inediti che Fabbrini ci racconta.
«In carcere, il cappellano mi disse:
Senti io ti do la comunione. Io gli risposi: Non posso. E lui di
rimando: Non farmi dire…. Insomma, mi fece capire che aveva il permesso
dal Papa…».
L’altro episodio risale al febbraio
1965, alla vigilia della condanna. «La sera prima i miei genitori
sentirono suonare e videro in strada una di quelle grandi auto del
Vaticano. Scende uno di quei laici che lavorano presso la Santa Sede e
consegna quattro pacchetti: una lettera di vicinanza del Papa, una
medaglia d’oro per mio padre, una per mio fratello e un rosario per mia
mamma da parte di Paolo VI. Io questa cosa non la rivelai. Se l’avessi
detta nel processo sarebbe stato come un coprirmi di forza. Poi quando
uscii, nell’estate, volevo ringraziare il Papa e seppi che era stato
mons. Capovilla, già segretario di Giovanni XXIII e ancora in Vaticano,
prima di diventare vescovo di Chieti. Mi ricevette e mi disse: Ho
pregato io il Santo Padre di fare questo gesto, perché responsabili ne
siamo noi…».
A Fabbrini restava però un rammarico.
Che questa battaglia fosse stata poi monopolizzata dai radicali e avesse
preso percorsi diversi. E si sentiva un po’ in colpa. «Nel ’68 – ci
raccontò – l’amico Aldo Capitini mi scrisse pregandomi di entrare
nell’arena politica: Fatti eleggere nella Dc, così avremo un deputato
non violento. In effetti la Dc di Milano, soprattutto il movimento
giovanile, mi offrì una candidatura sicura (che poi andò a Granelli). E
io cretino, la rifiutai. Perché il mio accusatore che era il generale
Stellacci, un grandissimo oratore, aveva detto: Noi rivedremo Fabbrini
tra qualche mese alle elezioni…. Sbagliai. Mi dispiace di aver fatto
allora questo atto di superbia, perché avrei potuto fare da parlamentare
qualcosa cosa che magari altri non hanno fatto».
(Tratto da un’intervista su “Toscana Oggi” del 5 dicembre 2012).
Personalmente ammiravo la coerenza
della testimonianza di Fabbrini, per quanto non fossi d’accordo con lui.
Negli anni successivi ci capitò spesso di parlare e di collaborare: e
le nostre rispettive visioni del mondo, entrambe impiantate sulla fede
cattolica e sulla fedeltà alla Chiesa, si andarono avvicinando fino a
quasi coincidere. Ne fa fede il suo ultimo libro. Le sofferenze degli
ultimi mesi su questa terra lo hanno condotto, forse, a un livello
spirituale sul quale chi può testimoniare di esso dovrà meditare ed
attrarre l’attenzione della gerarchia ecclesiale. Fabbrini ha dato prova
di esercizio in grado eroico della fede cristiana: il che coincide
appunto con la corretta definizione di santità.
martedì, gennaio 29, 2019
L’eredità di padre Stanley L. Jaki, a dieci anni della sua scomparsa
L’eredità di padre Stanley L. Jaki, a dieci anni della sua scomparsa
The legacy of Fr. Stanley L. Jaki, ten years after his death
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Via degli Aldobrandeschi 190 – Roma
4-5 aprile 2019 / April 4-5, 2019
Bozza di programma / Program draft
Giovedì 4 aprile / Thurday, April 4
09:00 Saluto del Rettore / Rector’s greetings, P. Jesús Villagrasa, LC
09:15 Introduzione ai lavori / Introduction, P. Rafael Pascual, LC
09:30 I limiti di una scienza senza limiti / The limits of a limitless science, Antonio Colombo
10:15 A survey of Road to Science / Un’indagine sulla Strada della Scienza, Neal A. Doran
11:00 Pausa caffè / Coffee break
11:30 Anthropological Foundations of Bioethics, / I fondamenti antropologici della bioetica, Lucía Guerra Menéndez
12:15 El drama de Guadalupe / The drama of Guadalupe, Raquel Guerra
13:00 Pausa pranzo / Lunch break [Saletta professori / Faculty lounge]
15:30 La concezione epistemologica dei miracoli nel pensiero di p. Jaki / The epistemological conception of miracles in the thought of Fr. Jaki, Hrvoje Relja
16:15 Jaki e il giovane Kant / Jaki and Young Kant, Riccardo Pozzo
17:00 Pausa caffè / Coffee break
17:30 Stanley Jaki and Medieval Islamic Cosmology / Stanley Jaki e la cosmologia islamica medievale, Alessandro Giostra
18:15 La matrice cristiana delle rivoluzioni scientifiche / The Christian matrix of scientific revolutions, Costantino Sigismondi
19:00 Tavola rotonda conclusiva della giornata / Round table at the end of the day
Venerdì 5 aprile
09:00 “Quello che Dio ha separato”. Il modello del rapporto scienza-fede nel pensiero di padre Jaki / “What God separated”. The model of science-faith relation in the thought of Fr. Jaki, P. Rafael Pascual, LC
09:30 Fr Jaki and Converts to the Church / P. Jaki e i convertiti al cattolicesimo, John Beaumont
10:15 Eternal Returns in Father Jaki’s work / Gli ‘eterni ritorni’ nell’opera di Padre Jaki, Jacques Vauthier
11:00 Pausa caffè / Coffee break
11:30 La creazione e la singolarità cosmologica / Creation and the cosmological singularity, Fernando di Mieri
12:15 Recent Gravitational Waves data favor a single finite Universe as required in Fr. Jaki´s books / Le onde gravitazionali a favore di un singolo universo finito, come sosteneva P. Jaki Julio Gonzalo
13:00 Pranzo conclusivo / Concluding lunch
Offerte di intervento / Further possible interventions:
Paolo Musso Da definire / TBD (in collegamento / video conference)
Peter Floriani Intervento scritto su / Written contribution about The Relevance of Jaki,
da inserire possibilmente negli Atti / to eventually be inserted in the Acts
The legacy of Fr. Stanley L. Jaki, ten years after his death
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Via degli Aldobrandeschi 190 – Roma
4-5 aprile 2019 / April 4-5, 2019
Bozza di programma / Program draft
Giovedì 4 aprile / Thurday, April 4
09:00 Saluto del Rettore / Rector’s greetings, P. Jesús Villagrasa, LC
09:15 Introduzione ai lavori / Introduction, P. Rafael Pascual, LC
09:30 I limiti di una scienza senza limiti / The limits of a limitless science, Antonio Colombo
10:15 A survey of Road to Science / Un’indagine sulla Strada della Scienza, Neal A. Doran
11:00 Pausa caffè / Coffee break
11:30 Anthropological Foundations of Bioethics, / I fondamenti antropologici della bioetica, Lucía Guerra Menéndez
12:15 El drama de Guadalupe / The drama of Guadalupe, Raquel Guerra
13:00 Pausa pranzo / Lunch break [Saletta professori / Faculty lounge]
15:30 La concezione epistemologica dei miracoli nel pensiero di p. Jaki / The epistemological conception of miracles in the thought of Fr. Jaki, Hrvoje Relja
16:15 Jaki e il giovane Kant / Jaki and Young Kant, Riccardo Pozzo
17:00 Pausa caffè / Coffee break
17:30 Stanley Jaki and Medieval Islamic Cosmology / Stanley Jaki e la cosmologia islamica medievale, Alessandro Giostra
18:15 La matrice cristiana delle rivoluzioni scientifiche / The Christian matrix of scientific revolutions, Costantino Sigismondi
19:00 Tavola rotonda conclusiva della giornata / Round table at the end of the day
Venerdì 5 aprile
09:00 “Quello che Dio ha separato”. Il modello del rapporto scienza-fede nel pensiero di padre Jaki / “What God separated”. The model of science-faith relation in the thought of Fr. Jaki, P. Rafael Pascual, LC
09:30 Fr Jaki and Converts to the Church / P. Jaki e i convertiti al cattolicesimo, John Beaumont
10:15 Eternal Returns in Father Jaki’s work / Gli ‘eterni ritorni’ nell’opera di Padre Jaki, Jacques Vauthier
11:00 Pausa caffè / Coffee break
11:30 La creazione e la singolarità cosmologica / Creation and the cosmological singularity, Fernando di Mieri
12:15 Recent Gravitational Waves data favor a single finite Universe as required in Fr. Jaki´s books / Le onde gravitazionali a favore di un singolo universo finito, come sosteneva P. Jaki Julio Gonzalo
13:00 Pranzo conclusivo / Concluding lunch
Offerte di intervento / Further possible interventions:
Paolo Musso Da definire / TBD (in collegamento / video conference)
Peter Floriani Intervento scritto su / Written contribution about The Relevance of Jaki,
da inserire possibilmente negli Atti / to eventually be inserted in the Acts
domenica, gennaio 27, 2019
Quel biografo malizioso che rovinò per sempre la reputazione del cardinale Manning
Sul conto del cardinale Henry Edward Manning (1808-1892), il grande arcivescovo di Westminster che difese l’infallibilità pontificia durante il Concilio Vaticano I e che fu tra gli ispiratori della moderna dottrina sociale cattolica, continuano a circolare parecchie inesattezze. Complice la rivalità con Newman – decretato vincitore dalla storia –, Manning, quando non ignorato, è derubricato a stereotipo del porporato “politico”, un uomo che fu poco incline alle questioni spirituali, ma più che altro interessato alla carriera e ad accumulare potere. Si tratta, ovviamente, di una deformazione grottesca della realtà, all’origine della quale vi è l’operato di un biografo malizioso.
Dopo il funerale di Manning, il compito di produrre una sua biografia ufficiale venne rivendicato da un giornalista, Edmund Sheridan Purcell (1823-1899), che sosteneva di aver ricevuto l’incarico dallo stesso cardinale. Definire questa cosa una bugia sarebbe forse troppo, ma certamente si trattava di una mezza verità.
Purcell era stato direttore di un periodico cattolico, la «Westminster Gazzette», che Manning aveva fondato nel 1866. All’epoca, almeno per un breve periodo, il nome del giornalista figurava tra quelli dei sostenitori del prelato, specialmente per quanto riguardava la questione del potere temporale del Papa (tanto che la «Westminster Gazzette» si attestò su posizioni intransigenti, nettamente distinte da quelle moderate di Newman e sodali). Col tempo, però, Purcell prese le distanze da Manning. Non a caso, nel 1878, quando terminò il suo incarico di direttore a causa della chiusura del periodico, fu costretto a trovare impiego presso editori non cattolici.
Tuttavia, nel 1886, si ritrovò coinvolto nei progetti – poi naufragati – per ricostituire una nuova testata “papista”. Manning, come consolazione, decise allora di offrire a Purcell la possibilità di scrivere un primo volume sulla propria vita. Il cardinale, comunque, non concesse interviste e vietò al giornalista qualsiasi intromissione nella sua corrispondenza privata. Desiderava infatti che suo biografo ufficiale fosse l’amico J. E. C. Bodley (1853-1925), segretario privato di Sir Charles Dilke (tra l’altro aveva già iniziato ad assisterlo nel gravoso compito). Dal momento che Bodley era protestante, gli venne affiancato un sacerdote, padre Butler, per aiutarlo nella trattazione delle questioni inerenti al cattolicesimo.
Manning fece l’errore di permettere a Purcell di consultare il suo diario del 1848 – attentamente purgato – che conteneva un resoconto del suo soggiorno a Roma; concesse all’inopportuno giornalista di leggere anche porzioni di altri documenti e di farne una copia. Purcell interpretò la cosa come un’ulteriore sigillo dell’ufficialità del suo incarico, ritenendosi autorizzato a ficcare il naso ovunque. Il cardinale, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di accordargli una tale libertà, e quando venne a sapere che il giornalista aveva con sé uno dei suoi diari privati, gli mandò messaggi su messaggi per recuperare il prezioso quaderno. Come mai, giunti a questo punto, Manning non ponesse un freno definitivo alle aspirazioni di Purcell, rimane un mistero: molto probabilmente credeva di essere sufficientemente al sicuro dopo l’accordo con Bodley.
Purcell, dal canto suo, sapeva di avere per le mani una gallina dalle uova d’oro e non aveva alcuna intenzione di cedere. Dopo la morte di Manning fu così abile che convinse tutti di essere il suo biografo ufficiale (anche se non vi era alcuna menzione di lui nel testamento). Solo quando una buona metà delle carte del cardinale era stata sottratta, ci si accorse del clamoroso errore.
La biografia in due volumi firmata da Purcell, intitolata Life of Cardinal Manning, venne finalmente pubblicata nel 1895 e fu subito un best seller. Per quanto il libro fosse raffazzonato e saturo di inesattezze, l’immediatezza della prosa lo rendeva una lettura sicuramente affascinante. Il problema era che l’immagine del cardinale che se ne ricavava era quella di un uomo ambizioso, privo di scrupoli, desideroso di imporre in ogni modo le proprie idee. Purcell, tra errori e malignità, fece a Manning un pessimo servizio.
Se l’entusiasmo con cui i protestanti accolsero la biografia era prevedibile, non così la timida reazione della maggior parte degli intellettuali cattolici (col senno di poi è possibile spiegare l’accaduto alla luce del fatto che molti di essi erano discepoli di Newman e perciò non avevano una grande considerazione delle opinioni e dell’operato di Manning). Solo Herbert Vaughan, il nuovo arcivescovo di Westminster, osò alzare la voce e definì il lavoro di Purcell al limite del criminoso.
La reputazione dello scomparso cardinale venne definitivamente infangata da Lytton Strachey con la pubblicazione, nel 1918, del suo celeberrimo Eminenti vittoriani (Eminent Victorians). Il primo e il più lungo dei quattro saggi biografici che componevano il volume, dedicato proprio a Manning, era stato infatti compilato cucendo insieme vari brani della biografia di Purcell, il tutto condito con l’ironia velenosa tipica del Bloomsbury Group.
A poco o nulla valsero le tardive reazioni degli apologeti cattolici. A partire dal 1921, data della pubblicazione di Cardinal Manning: His Life and Labours di Shane Leslie, videro la luce diversi testi biografici, accomunati dal desiderio di ristabilire la verità a proposito della vita e delle opere del cardinale. Tali sforzi, però, non furono sufficienti; ancora oggi la figura di Manning seguita purtroppo ad essere avvolta in una cappa di pregiudizi e maldicenze.
Luca Fumagalli
Da Radio Spada.
sabato, gennaio 26, 2019
UCD conference gives us a foretaste of the coming push for a ‘right-to-die’
In a foretaste of the next big right-to-life debate in this country, a major conference was held in Dublin last week on end-of-life issues. Many of the speakers present had no qualms about defending the so-called “right to die”, often on very broad grounds.
The conference was called “Medical Ethics and Law at the End of Life” and it was organised by the University College Dublin Centre for Ethics in Public Life. What follows is a sample of proceedings.
Peter Schaber, from the University of Zurich, maintained that assisted suicide is morally permissible if requested by someone who wants to end their life and has supposedly valid reasons for that. People should be protected from a bad future, he claimed, and it is moral to spare people from having to carry on with their life if it is not worth living anymore. Note that the person need not be terminally ill, or even physically unwell. We can straightaway see that pressure to permit assisted suicide on broad grounds would exist if allowed initially on limited grounds.
Other speakers went even further. In presenting the current legislation in Germany, Tatjana von Solodkoff said that there is nothing wrong in suicide and it should be normalised. A law introduced in 2015 allows assisted suicide when performed on an individual basis and by someone who is a relative or close to the person who dies. Nonetheless, the German law prevents individuals and groups offering assistance in suicide as a routine service, even when it is done without any profit. This is something that von Solodkoff found incomprehensible. It is a contradiction that something is legal but it cannot be facilitated, she claimed.
Heleen Weyers, from the University of Groningen, explained the recent developments in the Netherlands. Since 2002 euthanasia, defined as “intentionally ending life on request”, is not prohibited if doctors can comply with certain due-care criteria, i.e. it is a voluntary request of the patient whose suffering is ‘unbearable’, with no prospect of improvement, and there is no reasonable alternative. The legislation didn’t end the debate as some doctors are willing to euthanise deeply mentally ill patients, who cannot express any request, while other advocacy groups want to extend euthanasia to non-medical cases, when someone is simply tired of life and has no specific medical condition. A more permissive law is on the political agenda and a new bill is expected soon.
The situation in Quebec is similar and somehow paradoxical. We heard that the law adopted in 2014 allows euthanasia, but not assisted suicide, because the former is considered a medical act that happens within the context of a therapeutic relationship. Assisted suicide is not deemed health care intervention, while euthanasia is. This kind of distinction will confuse most people.
Other speakers presented more cautious opinions on these matters.
Alexandra Mullock, from the University of Manchester, explained how concern for vulnerable people seems to prevent the legalisation of some forms of assisted dying in the UK. The right to die can easily become the duty to die. Some requests that appear to be genuine can be coerced or disingenuous. In quoting some interventions in the House of Commons when the Assisted Bill 2015 was rejected, she said that the bill, if passed, would have put pressure on vulnerable and elderly people. They will increasingly see themselves as a burden to society, poor care and abuses would lead some to request to die.
Mary Neal, from the University of Strathclyde in Glasgow, was the strongest among the very few voices that opposed the “right to die” at the UCD conference.
A medical act, she claimed, must produce some benefits for the patient but ending a life extinguishes not only the suffering, which is one of the goals of medicine, but also the patient himself. How can he, or she, benefit from the act? The entity must exist to benefit from a medical procedure. Maybe others or society will get advantage from this death but if “social benefits” become a criterion for medical interventions, this would be the end of medicine.
Tom Finegan, from Mary Immaculate College Limerick, defended an expansive understanding of the right to conscientious objection at end-of-life situations, against common arguments for a restriction of this right.
Despite these voices, the consensus at the conference was in favour of euthanasia and assisted suicide on either somewhat limited or else expansive grounds. This kind of consensus among academics has a habit of quickly finding its way into public opinion, especially when we have a media which looks upon these issues with favour. (See the generally positive coverage given to Tom Curran and Exit International, which campaigns for a “right-to-die” on very broad grounds).
Now that abortion has been legalised, there is no doubt what the next right-to-life battleground will be.
Labels:
assisted suicide,
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Iona Institute,
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Irlanda
giovedì, gennaio 24, 2019
martedì, gennaio 22, 2019
UNA NOTA SUL CONFLITTO DIPLOMATICO ITALO-FRANCESE E LA CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE
La cosa che più fa rabbia, però, è che ieri, immediatamente, tutto il mediasystem italiano si è subito proteso a difendere la Francia cercando di minimizzare la questione del franco Cfa, la moneta africana stampata e controllata da Parigi, dicendo che essa è frutto di liberi accordi tra Stati e che essa non è il vero problema dell’Africa. In realtà il franco Cfa è la trasformazione post-bellica della vecchia moneta coloniale in una moneta unica dell’area africana francofona sotto forma di apparenti accordi tra Stati sovrani. Apparenti perché in verità c’è da chiedersi quali liberi accordi possono mai esserci tra l’antico padrone coloniale, in posizione politicamente ed economicamente egemone, e i popoli ad esso un tempo formalmente soggetti ed ora, benché in teoria sovrani, troppo deboli per non dipendere dal primo. Che la moneta coloniale francese, certo, non è l’unico problema dell’Africa è vero ma minimizzarla significa non far capire all’opinione pubblica che un cambio monetario fisso – senza confederazione politica – altro non è che rinuncia alla sovranità monetaria, un legarsi al “vincolo esterno”, e quindi alla possibilità di fare autonome politiche di sviluppo. Che è esattamente il quadro neocoloniale al quale si riferiva Di Maio.
E’ vero che gli Stati africani soggetti al franco Cfa potrebbero uscire dagli accordi quando vogliono ma in realtà tutti coloro che tra i leader africani ci hanno provato sono misteriosamente finiti assassinati. Fu, ad esempio, il caso di Thomas Sankara che nel 1983 guidò il Burkina Faso verso l’indipedenza monetaria ed economica, risollevandone le sorti, e che fu assassinato dal suo stesso braccio destro, comprato dai francesi, il quale riportò il Burkina Faso all’ovile parigino.
Infatti la moneta neocoloniale francese non solo impedisce lo sviluppo locale, dato che a garanzia della convertibilità gli Stati africani devono depositare presso la Banca Centrale Francese il 50% (un tempo il 67%) del loro prodotto interno lordo (il che significare derubare quei popoli della metà dei proventi del loro lavoro), ma è un affare per le multinazionali, che godono della stabilità monetaria così assicurata, e per le importazioni quasi coatte di quei Paesi dei prodotti francesi, che così non scontano un cambio eventualmente sfavorevole. Ma il vero nocciolo della questione sta nel fatto che Parigi compra, con una moneta emessa e controllata dalla Francia, quindi a prezzi agevolati, le materie prime di cui quei Paesi sono ricchi. Espropriandoli, in altri termini, della loro ricchezza perché di questa solo qualcosa ricade, per l’ovvia prudenziale necessità francese di assicurarsi un certo collaborazionismo interno, sul locale ceto dirigente, che è ammesso a godere della sua parte dei proventi minerari ricavati con il sudore degli africani poveri e sovente con il lavoro femminile e minorile orrendamente sfruttato.
Che tra la nostra Patria e la Francia ci sia da tempo tensione non è cosa nuova. La vicenda della STX nazionalizzata da Parigi per impedirne, in barba a tutta la retorica liberoscambista eurocratica, la maggioritaria acquisizione da parte italiana, la chiusura della frontiera di Ventimiglia per bloccare in Italia i migranti diretti in Francia con oltretutto la beffa delle offese di Macron che bollava di razzismo gli italiani per i morti nel Mediterraneo, l’invasione del territorio nazionale a Bardonecchia da parte della polizia francese, sono tutti episodi che attestano il disprezzo mostrato dai cosiddetti “cugini” (?) d’oltralpe verso di noi.
La Francia, a sua volta in posizione subalterna verso Berlino più potente, guarda alla Germania. E non da oggi perché, dopo due guerre mondiali, Parigi ha compreso che deve condividere il dominio in Europa con la vecchia nemica storica. Basta ricordare l’alleanza Merkel-Sarkozy, nel 2010, con tanto di risolini contro Berlusconi che erano sbeffeggiamenti verso l’Italia, non verso il suo governo dell’epoca.
Il recente trattato franco-tedesco, simbolicamente firmato proprio oggi ad Aquisgrana per ratificare e completare l’egemonia “carolingia” in Europa (un’offesa alla memoria dell’imperatore Carlo Magno che di Francia e Germania e dei rispettivi nazionalismi nulla sapeva ed, invece, guardava all’universalità della Roma cristiana), è chiaramente indicativo della volontà di domino, di potenza, perseguita da Parigi e Berlino. O meglio dalle élite finanziarie e capitaliste francesi e tedesche che nel liberoscambismo globale hanno la loro linfa vitale.
Il fatto che la Francia eserciti una egemonia in Africa è rassicurante per la Germania ed infatti nell’Accordo di Aquisgrana la stretta cooperazione tra Parigi e Berlino, che solo gli sciocchi possono leggere in chiave europeista quale anticipo dell’“Europa politica”, verte anche sulla gestione condivisa del mercato delle risorse primarie, di cui l’Africa ha ampie disponibilità.
L’intera prima serata su Rai2 di ieri è stata dedicata a presentare agli italiani quanto conveniente è per la nostra economia ratificare il Ceta, l’accordo di libero-scambio euro-canadese, ora che il cattivo risorgente protezionismo, imposto da Trump nella sua lotta contro la Cina. Se è vero che la libertà di commercio è vantaggiosa anche per certi settori italiani (il made in Italy gastronomico e della moda), è però ormai evidente che la globalizzazione sta fallendo nei suoi obiettivi promessi. Se l’autarchia assoluta è impensabile, dimenticare la domanda interna significa condannarsi a dipendere del tutto dall’estero e quindi dalle forze transnazionali che controllano la globalizzazione, ossia la finanza apolide. Alla fine del XX secolo, in un allucinante clima da entusiasmo millenarista, il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio con sede a Ginevra (la città del calvinismo, di Rousseau, della Società delle Nazioni), inaugurava i fasti della globalizzazione promettendo un mondo a venire di pace, benessere e felicità per tutti, con la definitiva sconfitta, mediante i liberi commerci, della povertà in tutto il pianeta . Vecchia storia che risale almeno alle analoghe promesse con le quali fu presentata, dopo la prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni, voluta dal presidente americano Wilson.
Nei suoi primi vent’anni la globalizzazione ha funzionato facendo volare l’economia globale e permettendo a milioni di esseri umani di superare la soglia critica della povertà e del sottosviluppo. Ma si trattava di una illusione. Passato quel primo momento con i suoi apparenti successi, la liberalizzazione dei mercati e dei capitali ha provocato la polarizzazione della ricchezza tra il vertice – pochi miliardari calcolati in circa un duemila persone, neanche lo 0,1% della popolazione mondiale – che ha accumulato immensi profitti, ed una base – la maggior parte della popolazione del pianeta, circa il 95% – che o non è mai veramente uscita dalla povertà o è tornata ad impoverirsi di nuovo. Anche coloro che erano riusciti a superare la soglia della miseria, infatti, stanno ricadendo nell’inferno della fame. Nel mezzo ci sono i ceti medi e la working class occidentale e del secondo mondo che precipitano verso il basso, con velocità accelerata a partire dalla crisi del 2008. Si tratta di uno scenario che, in qualche modo, sembra offrire una rivincita a Marx, il quale aveva previsto la polarizzazione e lo scontro finale tra due soli classi, borghesia e proletariato, ricchi e poveri. Non realizzatasi, questa polarizzazione, nel XX secolo per via dell’invenzione, nel quadro degli Stati nazione, dello Stato sociale che ha permesso l’ascesa dei ceti medi e la sproletarizzazione dello stesso proletariato, è ora in fase di avanzata realizzazione grazie alla globalizzazione che ha eliminato o ridotto il potere degli Stati.
L’insorgenza sovranista e populista è, appunto, la risposta dei ceti medi e delle classi lavoratrici occidentali alla globalizzazione, alle sue false promesse, alla polarizzazione sociale in atto. Non dunque scontro finale tra borghesia e proletariato, come pensava Marx, ma alleanza tra l’una e l’altro contro il capitalismo terminale e finanziario globalista, contro le élite mondialiste.
Mentre la sinistra, vittima delle sue illusioni internazionaliste, non riesce a comprenderlo (non tutta, a dire il vero, perché un Melenchon, in Francia, o uno Stefano Fassina o un Sergio Cesaratto, in Italia, lo hanno compreso benissimo), è la destra populista che cavalca con successo l’ondata anti-globalizzazione. Trump ha vinto le elezioni rivolgendosi ai lavoratori americani rimasti disoccupati a causa delle delocalizzazioni e del dumping economico e sociale della Cina, fatta a suo tempo incautamente entrare nel WTO senza ragionare sulle conseguenze. La globalizzazione ha i suoi vincitori, pochi, ma anche i suoi perdenti, molti, ed è per questo che non funziona.
Come dice Giulio Tremonti, il mercato mondiale avrebbe dovuto essere il porto di arrivo di un processo lungo, secolare, forse millenario, e, soprattutto, di un processo guidato e ragionato ossia realizzato mediante il riavvicinamento, sotto guida politica, degli standard economici tra le varie regioni del pianeta. Averla compressa in poco meno di vent’anni, per la fretta del capitale finanziario ed industriale, assetato di profitti immediati, subitanei, accresciuti all’improvviso, ha provocato, e sta provocando, soltanto l’instabilità planetaria, il Nuovo Disordine Mondiale, con tutte le complicanze geopolitiche e geoeconomiche conseguenti e guerre endemiche sparse un po’ dappertutto. Non resta che pregare Iddio affinché esse non si trasformino mai una nuova guerra globale.
Senza una forma politica, l’economia, il mercato, non è in grado di dare ordine alla realtà umana.
Luigi Copertino
lunedì, gennaio 21, 2019
Organ donation and transplants
A letter I wrote to the Irish Times
Sir, – I welcome Laura Kennedy’s invitation to discuss the issue of consent in organ donation, and specifically the opt-out system that the Government plans to introduce (“Will an opt-out organ donation scheme impact our bodily autonomy?”, Life, January 16th).
This is a system whereby organs will be removed from patients’ bodies upon death, for transplant, if they have not expressly forbidden it. Otherwise, consent will be presumed.
The opt-out regime is based on the assumption that when inevitable death is approaching, the State or the hospitals own our bodies and can dispose of their parts, unless we or our family explicitly object.
This principle is not acceptable, even if it is motivated by the noble intent of addressing the problem of shortage of organs for transplant in Ireland.
Donation should arise from an informed and deliberate decision.
An opt-out system does not properly respect the principle of informed consent.
If the current opt-in regime is not adequate to satisfy the need for donors, it could be improved so that every patient, when visiting their GP or a hospital, should be explicitly asked to express their option on the matter.
An opt-out system is detrimental not only for those who are not aware of the details of the legislation, probably the majority of people, but particularly for vulnerable groups in society such as those who do not have adequate language skills, or cannot fully consent.
Donation must remain a choice freely made and taking without asking is not giving. Our organs are not at the State’s disposal. – Yours, etc,
sabato, gennaio 19, 2019
Lester Embree
Oggi, due anni fa, moriva Lester Embree. Fenomenologo americano che aveva studiato con un paio di allievi di Husserl. Era il presidente del coordinamento delle organizzazioni di fenomenologia di tutto il mondo. Un amico, maestro, per il quale ho tradotto vari lavori.
Sul sito Reflective Analysis si possono trovare alcuni dei suoi testi, in diverse lingue compreso l'italiano.
Sul sito Reflective Analysis si possono trovare alcuni dei suoi testi, in diverse lingue compreso l'italiano.
venerdì, gennaio 18, 2019
giovedì, gennaio 17, 2019
Francobolli
Ho tanti francobolli, in particolare dall'Irlanda, di cui vorrei disfarmi. Se c'è qualcuno interessato, meglio se è un giovane collezionista, li cederei volentieri.
mercoledì, gennaio 16, 2019
Esiste una filosofia distributista dell'educazione? E se esistesse, quale sarebbe?
Per "distributismo" intendo la visione secondo cui la proprietà privata dovrebbe essere largamente distribuita nella società invece di essere distribuita in poche mani per fare in modo che più persone, o addirittura la maggior parte, possano prendersi la responsabilità delle proprie famiglie per mezzo di un lavoro produttivo e dignitoso. Questo può essere visto come una espressione pratica o implicazione delle dottrine sociali cattoliche della sussidiarietà nella solidarietà, del bene comune e della famiglia come migliore fondazione di una sana società civile.
Il distributismo non è il socialismo. Non prevede che la proprietà venga rubata al ricco e data al povero, o espropriata dallo Stato, o da un partito che rappresenta il popolo, ma piuttosto che la legge renda facile per il possidente, proprietario terriero, commerciante o negoziante il sopravvivere, e difficile per il magnate accumulare così tanta ricchezza e potere che il predetto [il proprietario/commerciante/negoziante n.d.T.] sia costretto a diventare nulla più che un suo dipendente o, nei fatti, uno schiavo salariato. [1]
Si suppone che gli umani non siano più felici grazie all'accumulo di grandi ricchezze ma attraverso il possesso della libertà, nel senso di autoresponsabilità e autodeterminazione e specialmente libertà di creare e sostenere una famiglia. Ad un uomo dovrebbe essere permesso di stare in piedi da solo e non di penzolare dalla cintura di un altro.
Se questa è una comprensione corretta della natura umana, allora costruire una società dove libertà, responsabilità e proprietà siano ampiamente distribuite non è imporci un'altra ideologia quanto piuttosto liberarci dalle ideologie – liberarci per vivere secondo i migliori istinti umani.
Di fatto il distributismo non è tanto una politica economica quanto una filosofia e un modo di vivere. G.K. Chesterton e i suoi amici, che in origine lo proposero all'inizio del XX secolo, avevano perso fede nei politici e nei partiti e miravano invece ad ispirare un movimento popolare – un movimento spirituale di rinnovamento – a sostegno della famiglia allargata e del "buon lavoro" (per usare un'espressione di E. F. Schumacher).
Qualcosa di simile potrebbe essere affermato nel campo dell'educazione, che nella grande tradizione occidentale è o dovrebbe essere un'educazione a favore della libertà – una educazione "liberale". Nel mio studio in due parti delle sette Arti Liberali che ho completato di recente (Beauty for Truth's Sake e Beauty in the Word), mostro come queste arti si siano evolute come una preparazione della più alta libertà umana che culmina nella contemplazione religiosa e nella santità – il conseguimento di Verità, Bellezza e Bontà. Lo studio di queste sette arti era preparatorio a quello di filosofia e teologia, in cui l'anima poteva ottenere la sua libertà più alta.
Le tre arti del linguaggio consistevano nella reminiscenza dell'essere attraverso la Grammatica, lo svelamento della libertà attraverso la Dialettica, e la comunicazione della comprensione attraverso la Retorica. Le quattro arti matematiche erano dedicate allo studio della forma nel numero, nella figura, nella musica, all'astronomia, e così la scoperta delle armonie di spazio e tempo – "il cosmo" scoperto, forse, da Pitagora.
Il "ri-incanto" dell'educazione non è la semplice reiterazione di quelle antiche categorie, né un tentativo di costringere l'universo a conformarsi a una cosmologia primitiva, ma un rinnovamento della ricerca di armonia e del Logos dentro il complesso mondo rivelato dalla scienza moderna, e la reintegrazione di scienza con arte e le discipline umanistiche attraverso l'apprezzamento dei poteri umani poetici e immaginativi che sono operanti egualmente in entrambi.
Il nostro sistema educativo riflette sempre un particolare sguardo sulla natura umana. Gran parte dell'educazione moderna riflette uno sguardo frammentario, e l'appello che ho cercato di fare attraverso i miei libri è per una visione più olistica. Infatti credo che la natura umana nella sua integrità sia a noi rivelata nella figura di Cristo, sebbene una persona non debba condividere quella fede per riconoscere la comprensione che ne deriva.
Com'è questo "distributista"? Come il distributismo, è basato sulla nozione che potremmo diventare tutti più liberi e quindi più felici (nel senso di "beati") crescendo nella vera libertà, non la semplice libertà di scelta ma libertà di essere capaci di scegliere il bene. Quella libertà è ottenuta dalla distribuzione più ampia della saggezza. Di fatto direi che il distributismo nel senso economico e sociale fallirà sempre se non sarà sostenuto dall'acquisizione più ampia di saggezza, cioè di libertà intellettuale nella verità, dal momento che in ultima analisi è la verità a farci liberi. Così, il successo del distributismo dipenderà molto probabilmente dal riuscito ri-incanto dell'educazione.
Si dà il caso che le scuole stesse costituiscano un target ideale per la riforma distributista. Dal momento che i genitori sono i primi educatori dei loro figli, è appropriato che esercitino la loro responsabilità istruendoli a casa o giocando un ruolo attivo nella scuola locale. Certamente, in molte scuole i genitori potrebbero formare una parte del consiglio di amministrazione, ma una soluzione più distributista sarebbe, per i genitori, possedere la scuola come "corpo" gestendola come organizzazione benefica o cooperativa per il beneficio dei figli, liberi dal controllo governativo.
Nel Medioevo le università ebbero origine come corporazioni possedute e gestite da gruppi di insegnanti o studenti. Oggi molte scuole elementari, medie e secondarie vengono fondate da genitori e insegnanti (la Chesterton Academy ne è un esempio evidente) o vengono liberate dal controllo statale. Questi esperimenti meritano la nostra attenzione e il nostro incoraggiamento. In molti modi il futuro del distributismo e forse, in un certo modo, della civiltà stessa, dipende dal loro successo.
Note
Note
[1] Il distributismo è meno irrealizzabile di quanto spesso non si ritenga – benché dipenda, come dico più avanti, nella presenza di un certo spirito di cooperazione. In paesi meno sviluppati è eminentemente pratico, e anche nell'Occidente sviluppato potrebbe suggerire alternative praticabili a un sistema economico senza dubbio sull'orlo del collasso. Alcuni di questi approcci alternativi al mondo bancario e degli affari sono riportati nell'enciclica Caritas in Veritate di Papa Benedetto XVI.
domenica, gennaio 13, 2019
LA RIVOLUZIONE DELL’IGNORANZA PER FORTUNA C’E’ IL “MURO ANTARTICO”
Su “La Repubblica” dell’11.1., Alessandro Baricco ha scritto un lunghissimo articolo a proposito dell’odierna rivoluzione della “gente” contro l’élite. A suo avviso è in corso una sorte di rivoluzione, favorita dall’informatica e dalla “democratizzazione delle informazioni”, della gente comune contro qualunque tipo di “apprendista stregone”. E’ la rivoluzione degli incolti e felici di esserlo contro tutti gli specialisti, i “soloni”, quelli che con la scusa dell’avere studiato vorrebbero imporre agli altri il loro punto di vista. Una rivoluzione democratica: se in TV assisti, ad esempio, a un dibattito, che so, sui vaccini, e da una parte c’è un illustre clinico o un ricercatore di grande esperienza e di altissimo livello e dall’altra c’è un no vax che sull’oggetto del contendere ha letto un paio di articoli di “Focus” e ha orecchiato un discorso in autobus, l’avviso del competente e quello dell’incompetente sono sullo stesso piano: sono due punti di vista, valgono ciascuno un voto. Sulla base di ciò, di recente, una signora del governo ha cercato di zittire un ex ministro dell’economia criticabilissimo sotto molti aspetti ma noto per essere un economista illustre semplicemente con un “Questo lo dice Lei!”. E’ la Rivoluzione dell’Ignoranza, sulla base della quale si esige il “rispetto degli incompetenti” non in quanto cittadini vittime di un sistema sociale iniquo che ha impedito loro di studiare abbastanza, bensì in quanto incompetenti per scelta, ignoranti fieri e orgogliosi di esserlo e nemici di ogni forma di competenza e di autorevolezza nel nome della lotta democratica dell’Ignoranza contro la Meritocrazia. E’ la rivoluzione contro la quale ha combattuto la sua ultima battaglia mediatica Umberto Eco: quella dei diecimila ignoranti che dilagano sui media imponendo le loro sciocchezze in quanto sono appunto diecimila, quindi hanno diecimila volte più ragione – è un principio democratico, che diàmine! – dello specialista isolato che fa confluire sull’esile peso del suo unico voto a disposizione il peso di una vita di studio e di ricerca. La mia cazzata, caro mio, vale quanto il tuo Illuminato Parere; e se siamo in diecimila a dir cazzate vinciamo noi: è un elementare principio democratico.
E ormai se ne stanno vedendo di tutti i colori. I no vax non sono ancora nulla. Ad esempio, assistiamo al “fai-da-te” geografico. In quanti modi si può immaginare il mondo in cui viviamo?
Avete presente la “teoria della terra cava” e il sedicente professor Hans Horbiger? Ancora nell’Ottocento, occultisti e misteriosofi parlavano di queste cose con grande sicurezza: e ispirarono il Jules Verne – che era un gran reazionario, ma soprattutto un gran furbone – per Un viaggio al centro della terra. Durante il Terzo Reich, pare che il professor Horbiger riuscisse a tirar dalla sua anche qualche gerarca nazista. Secondo lui la terra era cava e noi ci abitavamo dentro, come formiche attaccate alle pareti concave dell’interno di una boccia per pesci rossi.
L’idea che la terra è piatta, dal canto suo, è in fondo plausibile: lo abbiamo pensato un po’ tutti, da bambini, quando ci siamo chiesti com’è che chi sta nell’emisfero australe non cade dalla superficie del pianeta nel vuoto cosmico e com’è che l’acqua degli oceani non cola fuori del loro alveo. Le antiche culture che l’hanno immaginata così sono state molteplici; le cosmogonie egizia, babilonese, induista e buddhista ne parlano in questo senso.
Ma già gli antichi greci, buoni navigatori e osservatori eccellenti, non ci cascavano più. I pitagorici, a loro volta debitori di tesi indiane, persiane e forse cinesi, avevano già intuito qualcosa sulla sfericità del pianeta. Aristotele non aveva dubbi al riguardo. Ma la decisiva e definitiva dimostrazione della sfericità della terra si deve a un matematico, geografo e astronomo greco-egizio di ventitré secoli fa, Eratostene di Cirene (280 a.C.- 195 a.C.), direttore della biblioteca di Alessandria, che riuscì addirittura a misurare con esattezza quasi perfetta la lunghezza dei meridiani terrestri.
Vero è che, all’inizio del medioevo, nacquero al riguardo perplessità connesse con il parziale oblìo della scienza antica. Il terrapiattista più celebre è, senza dubbio, un mercante egizio-bizantino del VI secolo d.C., Cosma detto “Indicopleuste” (perché pare avesse viaggiato nell’Oceano indiano), secondo il quale la terra era un parallelepipedo, una specie di cofano, fatto a somiglianza della biblica Arca dell’Alleanza: le terre emerse e i mari giacevano sul fondo del cofano, il cielo ne era il coperchio e ai quattro lati di esso altrettante alte muraglia di pietra, come immense montagne, reggevano la volta celeste. La Bibbia sembrava dargli ragione, ma la scienza del tempo – tanto cristiana quanto, più tardi, musulmana – non lo prese sul serio e continuò a preferirgli Aristotele e Tolomeo. Terra ferma al centro dell’universo, questo sì, fino a Copernico e anche un po’ oltre: ma piatta no davvero. Chi oggi sostiene che nell’antichità e nel medioevo ci si immaginava una terra piatta e circolare circondata dall’oceano è vittima di un equivoco: gli antichi sostenevano semplicemente che la terra era sì sferica, ma ad esser un circolo più o meno compatto era l’insieme delle terre emerse e abitate (l’”ecumène”) completamente circondate dall’oceano, che, dunque, visto dalle sponde detta terraferma, si presentava come un anello circolare liquido: mentre in realtà occupava con la sua massa acquea la maggior parte della sfera terrestre.
I terrapiattisti odierni hanno un’idea simile, ma in realtà hanno fatto il cammino inverso rispetto a Cosma: se egli s’immaginava la terra grosso modo quadrangolare, essi, anziché la “quadratura del cerchio”, propongono la “circolatura del quadrangolo”. La loro terra è immaginata a somiglianza della proiezione verticale del pianeta, con il polo nord ch’è un punto centrale e il polo sud che coincide con la circonferenza esterna del pianeta ed è costituito da un’immensa massa continentale montagnosa, un “orlo rialzato” della superficie terrestre: che, se non altro, ha la funzione d’impedire alle acque oceaniche e anche a noi di precipitare dal bordo della terraferma nel vuoto cosmico. Ora proveranno le loro teoria con una grande crociera, o forse una serie di crociere. Le quali, partendo almeno concettualmente dal polo nord e procedendo verso sud, senza dubbio invariabilmente arriveranno all’Antartide constatando com’esso si presenti come un’immensa muraglia di ghiaccio che serra l’Oceano impedendogli di colar giù nel vuoto cosmico. Certo, le rotte delle loro navi seguiranno i meridiani; saranno quindi convergenti verso il polo sud. Ma non sarà loro difficile organizzare una serie di video games virtuali, che li convinceranno di aver seguito una serie indefinita di percorsi “a raggiera”, dal “punto”-polo nord alla “circonferenza”-polo sud.
Il principio di base è sempre lo stesso, quello che sorregge tanti blogs e convince tanti twitters. La scienza è una grande massa di fake news messa insieme dagli scienziati, anzi dagli “scientisti”: boriosi agenti prezzolati al soldo di complottisti intenti a raccontarci la balla della terra sferica perché pretendono di dominarci con le loro colte fandonie. Secoli di scoperte e di prove scientifiche sono tutte un bluff organizzato da una banda di secchioni che pretendono di possedere la verità perché “hanno studiato”. Se si può “dimostrare” che i vaccini non servono a nulla, figurarsi poi quale tipo di rispetto si può portare alla scienza geografica. Ô ça ira, ça ira, ça ira! Tous les cultivés à la lanterne! Dopo la Rivoluzione del Berretto Frigio, largo alla Rivoluzione delle Orecchie d’Asino!
Franco Cardini
giovedì, gennaio 10, 2019
Tin Tin, reporter intrepido dal ciuffo umano
10 gennaio 1929: su Le petit Vingtième, supplemento settimanale per ragazzi del quotidiano belga cattolico-conservatore Le Vingtième Siècle appare per la prima volta un fumetto destinato ad avere un enorme successo: Tintin. Tra i personaggi del mondo dei fumetti, Tintin, uscito novant’anni fa dalla matita geniale del disegnatore belga Georges Prosper Remi, in arte Hergé , è indubbiamente uno dei più solari e simpatici. Coraggioso, leale, sorridente, magari a volte buffo, a volte fragile, fallibile. Umano, molto umano. Un umano però sempre limpido, integerrimo moralmente, privo di ambiguità o lati oscuri.
Tintin è un giovane reporter belga, protagonista di avventure in ogni parte del globo insieme all’inseparabile cagnolino Milù. A partire dal nono albo della serie Il granchio d’oro è affiancato dal collerico capitano Haddock, e a partire dal dodicesimo albo Il tesoro di Rackam il Rosso dallo scienziato Trifone Girasole. Di Tintin non si conosce nulla, né la famiglia, né l’età, né la nazionalità, anche se non è difficile intuire che sia belga (presumibilmente vallone) e molto giovane. Tintin non è sposato, né ha fidanzate, né sembra essere coinvolto in vicende affettive. Per molti versi questa sorta di “asessualità” lo avvicina ad un celebre personaggio della Letteratura Fantasy, l’Hobbit Frodo Baggins, che critici malevoli dell’opera di Tolkien attaccarono in quanto “ignaro del sesso”. Sarà, ma Frodo, così come Tintin, sono personaggi niente affatto ignari di altri fondamentali aspetti della vita: sono saggi, coraggiosi, intelligenti, determinati, e sono capaci di affrontare le prove più ardue senza tirarsi indietro.
A differenza di Frodo, Tintin è un eroe contemporaneo: vive nel suo tempo, con una professione — il giornalista — che lo coinvolge direttamente nelle vicende del suo tempo. Percorrendo le storie di Tintin si ottiene una panoramica della realtà del secolo scorso: la prima delle sue avventure lo vede nell’Unione Sovietica del 1929, quindi successivamente passerà in Germania, nella repubblica di Weimar, per poi recarsi nel 1930 in Congo, allora colonia belga. L’anno dopo lo ritroviamo in America, in difesa dei nativi americani. Le sue avventure lo porteranno in seguito in tutti i continenti, in Cina come in Tibet, in Egitto come in Australia, per tornare nella vecchia Europa, e nell’albo del 1937 L’isola nera, uno sicuramente dei più belli, arrivare in Scozia, dove sostituisce i celebri pantaloni alla zuava (o da golf) con il kilt.
Nella geografia di Tintin troviamo anche uno stato immaginario, che compare in un’avventura del 1940, mentre era scoppiata la seconda guerra mondiale. Si trattava della Syldavia, una piccola monarchia collocata in modo abbastanza riconoscibile nell’area mitteleuropea, probabilmente balcanica. Tintin prende le parti della monarchia e della sua libertà. In questa, come in tutte le sue avventure, Tintin appare un autentico paladino della giustizia, della libertà, e i personaggi cattivi di turno con cui il giovane reporter si deve confrontare sono in genere spie, falsari, trafficanti di droga e schiavisti. Se ufficialmente la sua professione è quella del giornalista, e ciò rappresenta spesso il punto di partenza delle avventure, di fatto il ruolo che Tintin assume nelle storie è invariabilmente quello di chi deve affrontare delle situazioni di male e di ingiustizia. Tintin è un eroe, e la sua missione, la sua stessa ragion d’essere, è combattere il male, riportare ordine nel caos, restaurare una giustizia violata, soccorrere, difendere, rialzare coloro che hanno subito torti. Un eroe solare, dicevamo, a tutto tondo, descritto anche con una grafica adeguata. Il tratto pulito, inconfondibile di Hergé è quello di uno stile grafico chiamato “linea chiara”, uno stile ispirato al movimento Liberty di inizio Novecento e agli autori giapponesi di inizio ‘900. Un disegno luminoso, privo di sfumature, di chiaro-scuri e di tratteggi, con figure dai contorni netti e precisi. Un’ulteriore ispirazione a Hergé era giunta dall’America, da un autore di nome George McManus, figlio di emigranti irlandesi, che proprio ispirandosi ai personaggi venuti in America dall’isola di Smeraldo aveva creato le prime strisce di fumetto con il protagonista Jigs e sua moglie Maggie, che in Italia diventarono Arcibaldo & Petronilla, uno dei fumetti più popolari tra le due guerre, prima dell’esplosione dell’universo-Disney.
La storia di Tintin si intreccia profondamente con quella del suo creatore, Hergé. A poco più di vent’anni, giovanissimo, aveva cominciato a lavorare come illustratore grazie ad un religioso, l’abate Norbert Wallez, che vede in lui un ragazzo dotato, in grado di coinvolgere i più giovani col suo segno. Padre Wallez era fortemente impegnato a rendere il cristianesimo cultura, senza trascurare affatto la cultura giovanile e popolare. Aveva fondato un giornale, Le Vingtième Siècle, che rappresentava la voce più importante del cattolicesimo belga, un cattolicesimo robusto, appassionato, impegnato a difendere le ragioni della fede contro gli assalti delle ideologie atee e materialistiche, nonché da quel “nemico interno” della Chiesa che era il modernismo, l’ideologia che era stata combattuta con forza da papa Pio X ma che sarebbe sopravvissuta nel corso del ‘900 ai provvedimenti disciplinari e sarebbe diventata il progressismo cattolico. Hergé era un cattolico convinto, solidamente formato, che aveva frequentato il movimento scoutistico, e sicuramente questa esperienza si travasò nel suo Tintin, che ha indubbiamente uno spirito da esploratore, intrepido e determinato, tipico dello scoutismo delle origini.
Accettò quindi molto volentieri l’invito di padre Wallez a combattere la buona battaglia in campo culturale, e fu quindi sulle pagine del Petit Vingtième, supplemento del quotidiano cattolico, che partì la grande avventura di Tintin, che non fu l’unico personaggio di Hergé ma sicuramente il più noto. Padre Wallez aveva chiesto a Hergé che attraverso Tintin si proponesse ai ragazzi un modello di eroe positivo, virtuoso, che incarnasse i valori cristiani. Hergé eseguì, interpretando tuttavia questa indicazione in un modo originale, assolutamente priva di clericalismo o di moralismo. Curiosamente, non ci sono mai ostentazioni di fede da parte di Tintin.
Così come nel già citato Tolkien, i valori cattolici sono impliciti nel modo di essere, di comportarsi, di agire del suo eroe. Non serve un’apologetica teorica, non serve fare filosofie: Tintin è virtù in azione. Con il suo comportamento sempre limpido e coerente mostra nei fatti cosa voglia dire vivere secondo certi principi. Wallez fu assolutamente soddisfatto dell’esito, e Hergé poté continuare per anni a dare vita alle avventure del suo personaggio.
Alla fine della guerra, Hergè conobbe il momento più difficile: il fatto di essere un cattolico conservatore, di aver conosciuto e frequentato un personaggio come Leon Degrelle, fondatore del Rexismo, un movimento cattolico di Destra, portò ad accuse di collaborazionismo, nonostante avesse solo pubblicato avventure a fumetti per bambini, e conseguentemente rischiò il carcere, se non la vita. Ma in suo aiuto arrivò inaspettatamente Raymond Leblanc, un ben noto partigiano che voleva fondare un settimanale per ragazzi dandogli proprio il nome di Tintin, che testimoniò in suo favore. Hergé potè così continuare a lavorare, e a creare le storie del suo eroe solare, il ragazzo dall’inconfondibile ciuffo all’indietro.
La rivista Tintin diventò una fucina di talenti, da cui uscirono i migliori fumetti di produzione europea degli anni ’50 e ’60: l’asso dell’aviazione Dan Cooper, il detective Ric Roland, il campione automobilistico Michel Vaillant, Blake e Mortimer e tanti altri, sempre sotto la supervisione artistica di Hergé. Alla sua morte- avvenuta nel 1983- Tintin non ebbe più un seguito, pur continuando a vendere ininterrottamente le ristampe delle sue avventure, che devono ormai essere considerate un autentico classico.
Paolo Gulisano
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