di Roberto PECCHIOLI
“La morte non è un diritto”. Avreste mai pensato di leggere
una frase del genere? Dobbiamo ringraziare Jorge Mario Bergoglio per
averla pronunciata. Dinanzi all’attacco furioso della cultura di morte
mascherata da diritti universali, l’uomo di Santa Marta ha parlato da
Papa. La vita è un diritto, non la morte, ha dovuto aggiungere,
riferendosi a una civiltà agonizzante e tuttavia assassina. Nello
specifico parlava delle norme a favore dell’eutanasia, pudicamente (o
furbescamente) chiamate suicidio assistito, in discussione presso il
parlamento italiano. La morte va accolta, non somministrata. La cosa
incredibile è che questi principi sono rubricati come cattolici, mentre
rappresentano il senso comune di ogni umanesimo: primum vivere. A questo siamo.
La morte è il mistero massimo della nostra presenza nel mondo. Non vi
è soluzione, umana o scientifica, solo due possibilità: il rassegnato
materialismo che attribuisce al caso, al caos o all’evoluzione l’enigma
della vita, oppure la speranza trascendente, il progetto insondabile di
una forza o entità che chiamiamo Dio.
L’esperienza del fine vita è tragica e non può essere affrontata o
descritta con granitiche certezze. La sofferenza accompagnata dalla sua
inutilità, dall’impotenza e dal senso di ingiustizia del male non
conosce spiegazioni, tanto meno soluzioni. L’uomo moderno vuole avere
nelle sue mani il controllo di ogni circostanza e di ogni situazione;
non è disposto a credere che la vita non sia esclusivamente e totalmente
sua. Ripetergli che appartiene a Dio è del tutto vano. Eppure ha senso.
Chi scrive fece il primo pensiero “filosofico” (se può permettersi un
termine tanto impegnativo) attorno ai dieci, undici anni di età,
allorché, dopo le rimostranze per aver ricevuto un paio di meritati
ceffoni, la mamma sbottò: io ti ho messo al mondo, posso ben darti
quattro schiaffi. Per la prima volta, presi atto che la vita non è una
nostra scelta: siamo stati concepiti- per amore o per caso- in nostra
assenza, l’atto di volontà di due persone che la follia contemporanea
designa come genitore uno e genitore due.
Dunque, la “mia “vita non è del tutto mia, giacché non è stata voluta
da me: nasciamo – come dire – in nostra assenza e la morte è appunto
assenza. Non sappiamo se in tutto questo c’entri o meno Dio, ma
l’eventualità non può essere scartata. La vita ci è donata e non
possiamo gettarla via. Altra cosa è la relazione drammatica con il
dolore, la malattia, il declino fisico e mentale. In altri tempi era
considerata una fortuna morire di vecchiaia, circondati dai volti e
dalle cure delle persone care. Che l’attuale insana passione per
l’eutanasia sia uno degli effetti della solitudine esistenziale?
Nel racconto L’uomo della folla, Edgar Allan Poe descrive – agli
albori dell’urbanizzazione e della rivoluzione industriale – un vecchio
malridotto, il cui abbigliamento testimoniava passati tempi migliori,
che si aggirava senza posa nella metropoli cercando la folla. Atterrito
dalla solitudine, tentava in ogni maniera di mischiarsi alla massa.
Probabilmente esorcizzava la morte incombente e insieme si illudeva di
non pensare, di non rimanere a tu per tu con se stesso.
No, la morte non è un diritto, è un dramma. Per questo non può
diventare un servizio medico, la soluzione finale a carico del sistema
sanitario per chi non ce la fa più, talvolta perché il destino avverso
gli è piombato addosso, altre volte perché solo e sgomento dinanzi al
male. Nelle società tradizionali, la famiglia si prendeva cura del
parente sulla soglia dell’addio e la presenza, lo sguardo, la mano tesa
rendevano più sopportabile l’ineluttabile. Oggi, solitari, distanziati,
impauriti, disperati nel senso etimologico (privi di speranza) arriviamo
a invocare la morte, ovvero la nostra assenza definitiva. Un esito
terribile per una società superba, orgogliosa dei “diritti”, intenta
alla ricerca della felicità prescritta non da filosofi edonisti, ma
dalla costituzione degli Stati Uniti, la nazione simbolo della
modernità, del progresso e della tecnica.
E’ la società di Lucifero, l’angelo bellissimo e orgoglioso che cadde
nel profondo degl’inferi. Ne sono simboli Frankenstein, la creatura di
uno scienziato che volle farsi Dio e Mister Hyde (hide,
nascosto, oscuro), l’esperimento prometeico del mite dottor Jeckyll di
separare nell’uomo il bene e il male. Tutti tentativi di innalzarsi al
cielo, atti di superbia, di quell’hybris – arroganza,
dismisura- che per il mondo classico era il peccato più grande
dell’essere umano. Al male l’uomo occidentale moderno risponde
affidandosi alla tecnica. Poiché la natura è più forte, prova a
modificarla, cancellarla, negarla. Se non c’è modo di uscire dalla
sofferenza, dalla malattia, dal male di vivere, il rimedio definitivo è
la morte. “Buona” non più nel significato cristiano, l’accettazione
dell’inevitabile accompagnata dai sacramenti e dalla speranza
trascendente, bensì l’atto deliberato – proprio o altrui – di chi pone
fine alla presenza nel mondo e si tuffa nel nulla.
Temi assoluti, totalizzanti, che chi scrive è incapace di sfiorare
senza chinare il capo e rispettare ogni sensibilità, ai quali, una volta
tanto, ci ha richiamato l’autorità spirituale del capo visibile della
chiesa cattolica. Non verrà ascoltato, la società della cancellazione,
il gaio obitorio procederà a grandi passi verso la dissoluzione. Potremo
suicidarci con assistenza di medici e infermieri, a spese del sistema
impropriamente detto sanitario. La vita viene bloccata con indifferenza
prima della nascita, il grumo di cellule estirpate dal corpo materno a
spese di tutti, nelle more di definire l’aborto un diritto fondamentale
degli europei superstiti, anzi delle europee.
Atterrisce non solo il merito di ciò che accade, percepito dalla
maggioranza come progresso e normalità (un’altra faccia della banalità
del male?), ma la tenace volontà di dare per scontata, lecita, giusta
ogni deroga al principio della civiltà di ieri, il primato della vita.
San Francesco d’Assisi è ammirato per la sua bontà e il suo preteso
ecologismo. Non ricordiamo mai tra le sue Laudi, quella a Sorella Morte
corporale, preludio al transito oltre il tempo e alla visione di Dio.
Troppo dura da digerire, meglio ridicolizzare, parlare di favole del
passato oscuro. Gran bella luce, quella di una civiltà che uccide se
stessa in ogni possibile modo e arriva a considerare la morte un
diritto. Oltre alla solitudine esistenziale e al terrore per la
tribolazione, non sarà che c’entrino anche la corsa produttivistica, il
mito dell’efficienza, della performance, l’ansia da prestazione, l’equivoca categoria di qualità della vita che scaccia la dignità essenziale dell’essere umano?
E’ pressoché impossibile convincere l’uomo moderno che le sue idee
non sono definitive, uniche e migliori, e che tutto ciò che venne
“prima”, in sua assenza, non fu il balbettio di un’umanità bambina. Il
consenso per l’eutanasia è stata provocato da qualcuno; c’è chi ha
finanziato e imposto campagne politiche, mediatiche e culturali. Non
stupirà sapere che si tratta per lo più di assicurazioni, fondi
pensione, potentati economici. Quasi nessuno è sfiorato dal dubbio che
vogliano semplicemente toglierci di mezzo per interesse e perché
ostacoli di carne e spirito ai loro progetti. Scrisse Nicolàs Gòmez
Dàvila che convincere chi ha opinioni proprie è facile, ma nessuno
convince chi sostiene opinioni altrui ripetute sino all’estenuazione. Il
papa ha battuto un colpo, ma l’eco delle sue parole se lo porta il
vento gelido della cultura dominante, la post moderna compagnia della
buona morte con sede nella rue Morgue, la via dell’obitorio dei racconti di Poe.
L’unica speranza di sopravvivenza è riposta nella Dea Scienza, nel
transumanesimo avanzante, il pensiero convinto che sarà possibile
sviluppare facoltà capaci di oltrepassare la condizione umana. Mentre
sfoltiscono i ranghi della vecchia umanità, costruiscono l’uomo che
trascende se stesso attraverso la tecnologia, la cibernetica e
l’ibridazione con la macchina, in vista dell’allungamento della vita e
della modificazione del patrimonio genetico. La promessa è addirittura
l’immortalità, nel segno della conservazione a freddo e del cosiddetto “mind uploading”, l’archiviazione digitale delle funzioni cerebrali.
Ecco il destino finale dell’uomo, la mente alveare. Sarò ancora “io”,
riconoscerò il mio “sé”? Domande inevase e tremende, che tendiamo a
sfuggire in preda all’angoscia. Meglio seguire la corrente e accettare
le idee dominanti. Sono vecchio, malato, depresso, non più performante?
La soluzione c’è, la punturina che mi cancella, previa istanza
all’autorità competente (sulla “mia” esistenza!), assistenza di un
psicologo dell’ASL- surrogato dei conforti religiosi – testamento
economico e biologico debitamente protocollati, espianto degli organi
riutilizzabili. Quel che resta del fugace transito sulla terra del
superbo Homo sapiens Dio di se stesso.
Vinceranno anche la battaglia dell’eutanasia, la chiameranno
avanzamento di civiltà; sarà sempre più difficile opporre argomentazioni
alternative, fastidiosi rigurgiti del barbaro passato, indegni delle
magnifiche sorti e progressive della Rue Morgue. La rivista dei gesuiti
Civiltà Cattolica ha espresso la rassegnazione dei perdenti accettando
di fatto l’eutanasia legale – pardon il suicidio assistito- con qualche
correttivo. Forse per questo Bergoglio- gesuita anch’egli – ha dovuto
ribadire la dottrina di sempre. Su un tema tanto profondo, che attiene
alla fibre più intime, è assai difficile assumere una posizione
apodittica, assoluta. Tuttavia, l’aspirazione dell’uomo, di ciascun
uomo, è la vita, non la morte. Per Hannah Arendt, rassegnarsi al male
minore – una società “moderatamente “ suicida- è comunque scegliere il
male. Parole forti per coscienze lacerate, come la nostra.
Prima la vita, però, prima la speranza, prima un’idea alta dell’uomo.
Soprattutto, nessuna rinuncia a testimoniare la verità in quanto non ha
possibilità- oggi- di trionfare. Etiam si omnes, ego non. Anche se tutti, io no.
da www.maurizioblondet.it