mercoledì, febbraio 23, 2022

Vendesi pillola per il suicidio fai-da-te nelle farmacie austriache



Ne può fare richiesta chi soffre una condizione debilitante in modo permanente. Non bisogna quindi essere necessariamente affetti da una malattia incurabile o trovarsi allo stadio terminale. E possono farvi ricorso anche i disabili.
Ora in Austria si può acquistare in farmacia la pillola per suicidarsi. Solitamente, nei pochi Paesi dove questo è permesso, il «suicidio assistito» avviene in ospedale o in una casa di riposo, con l’aiuto di un sanitario professionista. L’Austria, invece, ha reso questo gesto tragico una scelta del tutto individuale, privata. Dal 1° gennaio la pillola letale si compera appunto in farmacia e, una volta a casa, la si può ingerire con il semplice aiuto di un familiare o di un amico.

La nuova legge fa seguito alla decisione della Corte costituzionale che, nel 2020, ha abolito il divieto del «suicidio assistito» in quanto, secondo detta Corte, il divieto violava il diritto all’autodeterminazione delle persone. Se qualcuno vuole morire, e non può uccidersi da solo, ha cioè diritto all’assistenza di un’altra persona, ha sentenziato la Corte.

Secondo la nuova legge, quanti desiderano essere aiutati a morire devono ricevere l’approvazione di due medici che ne accertino le condizioni e la volontà. I medici non devono per forza essere psichiatri o psicologi, ma hanno l’obbligo di informare il paziente sulle possibili alternative al suicidio e uno dei due deve essere uno specialista in cure palliative.

Dopo un periodo di attesa di due settimane per i pazienti con un’aspettativa di vita di meno di sei mesi, o di dodici per quelli non terminali, un avvocato o un notaio vengono informati della richiesta e il paziente può acquistare la sostanza letale (pentobarbital di sodio) in una farmacia designata.

La legge consente a una persona terza di aiutare il suicida a compiere l’atto finale. Questa persona potrà lecitamente somministrare la sostanza letale anche se il paziente ha perso la propria capacità decisionale a causa della malattia. Il suicidio avverrà a casa o in altro luogo scelto dal paziente.

Non ci sono limiti temporali che regolino quando la pillola debba essere assunta oppure riconsegnata. L’unico limite, di un anno, riguarda il permesso di acquistare la sostanza, dopo di che occorre farne nuovamente richiesta.

I nomi delle farmacie che vendono la pillola letale non saranno resi pubblici, ma verranno resi noti solo dall’avvocato o dal notaio. La legge non permette né la pubblicità di servizi che aiutino il suicidio né il trarre profitto da codesti servizi.

I minori e le persone affette da disturbi mentali non possono accedervi, ma primo o poi queste salvaguardie saranno rimosse, come è del resto successo in Belgio e nei Paesi Bassi, i quali, inizialmente avevano introdotto l’eutanasia e il «suicidio assistito» solo per casi limitati ma poi hanno esteso la pratica a categorie più ampie.

In Occidente il suicidio è stato depenalizzato ovunque, ma di solito lo si scoraggia attraverso campagne di prevenzione e offrendo assistenza psichiatrica a quanti mostrino intenti autolesionistici. La depenalizzazione si basa sul principio che chi tenti il suicidio ha bisogno non di punizioni, bensì di aiuto. Nello stesso tempo il suicidio viene stigmatizzato perché la vita è un bene primario, che merita protezione, e uccidersi ha un impatto negativo non solo su se stessi, ma anche sugli altri. È insomma contrario al bene comune.

Invece la nuova legge austriaca si basa sull’assunto che il suicidio debba essere non solo permesso, ma addirittura facilitato. Ognuno, si afferma della propria vita fa quanto vuole e quindi può anche darsi la morte e lo Stato altro non deve fare che rimuovere ogni ostacolo.

Del resto è perfettamente coerente. Quando l’autodeterminazione, concepita come totale e irresponsabile, diventa principio assoluto, non c’è più motivo per cui il “diritto al suicidio” debba essere negato anche a chi non soffre di una malattia.

Organizzazioni quali Exit International si sono già mobilitate per garantire l’accesso al «suicidio assistito» a qualsiasi adulto in grado di intendere e di volere, e la recente legge austriaca è un chiaro passo in questa direzione. E ci sarà poco di che stupirsi quando, fra qualche anno, i pochi limiti oggi vigenti saranno rimossi completamente.

martedì, febbraio 22, 2022

Religious practice makes us happy



Religious practice makes us happy, says Laurie Santos who teaches classes on the psychology of happiness at Yale University.

In an interview with the New York Times magazine, the popular cognitive scientist discusses what contributes to our happiness and, among other factors, she mentions religion.

She reckons that practising religious makes people happy. “There’s a lot of evidence that religious people are happier in a sense of life satisfaction and positive emotion in the moment”, she says.

But Santos also claims that religious people are happier not so much because of their beliefs but because of their actions. Being religiously active means to engage in social connection, to volunteer, to feel belonging to a community, to develop a sense of meaningful life together with those with kindred principles.

We get benefits not from theological principles but from the commitment to our group, she says.

This claim rebukes two common opinions among the critics of organised religion. Not only it contradicts the allegation that religion is repressive and detrimental, but it also confirms that it is organised religion - and not just spirituality – that makes us happy. Belief is not sufficient. In order to be beneficial, religious practice has to happen in some organised form, within a group.

“You need a cultural apparatus around the behaviour change”, she tells in the interview. This apparatus has two elements: theological principles and commitment to the group but the latter “doesn’t have to come with a set of spiritual beliefs”, she claims.

In another interview she explains that religious traditions induce us to do acts of charity, having gratitude, being in communities where we connect with others. All those actions give us a boost, but nonbelievers can get a boost from those habits, too.

Her position is problematic, nonetheless, for two reasons.

Firstly, it seems she suggests that all beliefs are equal and what matters most is the cultural apparatus around them. “Could someone get as much benefit from actively participating in a white-nationalist militia as he could be actively participating in a Quaker church?", asks the journalist.

In her reply, prof. Santos explains that she won’t advocate for such organisations, but she reckons that they give a sense of meaning and belonging to those who are involved in them.

Moreover, her claim that the benefits of religion can come from some substitutes is not convincing. Being involved in communal activities - from playing sport to engage in active politics- gives purpose and sense of belonging but I doubt it can be as meaningful as knowing that God is our Father and we are loved by him. They don't bring happiness, unless we understand happiness in a very narrow sense, as some kind of temporary pleasant experience. 

People give up their lives more often for their religious faith than for their golf team or stamps club. Not all communal activities are equally valuable.

In any case, it is good to have one of the main gurus of the “science of happiness” confirming international studies which have shown that the level of happiness cross-correlates with the level of religiosity.

The contribution of religion to mental health and wellbeing is well established, and some surveys suggest that Christians are the happiest among the faith groups.

But one could say that the primary purpose of religion is not happiness in this life but to make us closer to God. It has positive effects, but these are not the best motivation for practising a faith.

Religion can be dangerous; it might involve persecution.

Still, those who suffer because of their faith do not abandon it, because they believe it is true even when it doesn’t make them happy.

It is good to pursue happiness, but it doesn’t lead us to God. Seek God, instead, and you will find happiness.

lunedì, febbraio 21, 2022

«Suicidio assistito»: dove è legale, impennata dei suicidi “solitari”

 


I sostenitori del cosiddetto «suicidio assistito» spesso affermano che una legalizzazione di questa pratica porterebbe a una riduzione dei suicidi “solitari”. Una ricerca, su cui porta luce l’Iona Institute for Religion and Society di Dublino, in Irlanda, dimostra che non è vero. Perché nei Paesi in cui il «suicidio assistito» è stato reso legale, i suicidi non «assistiti» non si sono affatto ridotti.

Lo studio citato, condotto da David Albert Jones, direttore dell’Anscombe Bioethics Center, si concentra sui dati di Svizzera, Lussemburgo, Paesi Bassi e Belgio, dove l’eutanasia o il «suicidio assistito» sono legali e li confronta con quelli dei Paesi vicini.

È stato riscontrato che in tutti e quattro i Paesi si è registrato un aumento molto sensibile del suicidio in generale («assistito» e non) dopo la legalizzazione. Dove è stata legalizzata, sono aumentate anche le morti per eutanasia.

In Svizzera il tasso di suicidi («assistiti» e non) delle donne è raddoppiato dal 1998, anno in cui il governo iniziò a registrare i decessi per «suicidio assistito». Nello stesso anno è stata fondata Dignitas, l’organizzazione che pratica i suicidi. Dal 1999, il tasso totale è aumentato vertiginosamente e costantemente.

Propaganda sbugiardata

C’è chi afferma che la legalizzazione del «suicidio assistito» possa essere utile a prevenire il suicidio in generale. L’associazione Exit Svizzera, ad esempio, afferma che «vivere nella certezza di una via d’uscita ha motivato più della metà delle persone originariamente intenzionate a morire a continuare a sopportare la propria dolorosa sorte fino alla morte naturale».

Un argomento simile ha giocato un ruolo chiave nella storica sentenza della Corte Suprema del Canada che ha annullato il divieto di suicidio assistito: «Il divieto di morte assistita dal medico ha avuto l’effetto di costringere alcuni individui a togliersi la vita prematuramente, per paura che sarebbero stati incapaci di farlo nel caso in cui avessero raggiunto il punto in cui la sofferenza fosse diventata intollerabile» (sentenza Carter vs Canada, 2015).

Lo studio di David Albert Jones mostra tuttavia che «in nessuna delle quattro giurisdizioni i tassi di suicidio “non assistito” sono diminuiti dopo l’introduzione del “suicidio assistito”». Al contrario, in tutti i Paesi, le morti per «suicidio assistito» sono costantemente aumentate e la legalizzazione non ha avuto alcun effetto sulla prevenzione del suicidio nella popolazione in generale.

Confronto impietoso

Nei Paesi Bassi, i tassi di suicidio non «assistito» sono aumentati a partire dalla legalizzazione del «suicidio assistito» nel 2001. Nel quindicennio tra il 2001 e il 2016, i Paesi Bassi hanno registrato l’aumento più sensibile in fatto di «suicidi assistiti» di tutta l’Europa occidentale. Sono anche il paese con la storia più lunga e il maggior numero di decessi (6.938 nel 2020) per «suicidio assistito» in Europa.

Prima del 2001 i tassi neerlandesi di suicidio non «assistito» tra le donne erano simili a quelli della Germania, ma in seguito i tassi sono diventati significativamente divergenti.

Da parte propria il Belgio registra ora il più alto tasso di suicidio femminile non assistito in Europa, compresi i Paesi ex comunisti dove il fenomeno è sempre stato più diffuso rispetto al resto del continente.

Come conclude David Jones, i dati provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti non danno «alcun motivo per ritenere che il “suicidio assistito” costituisca una forma efficace di prevenzione del suicidio».

Infatti, quando si sommano i tassi di «suicidio assistito» e non assistito nei Paesi oggetto dello studio, si scopre che le principali vittime sono proprio le donne. Quest’ultimo è un altro argomento contro la riduzione del tasso di «suicidio assistito».

mercoledì, febbraio 16, 2022

Assisted suicide does not reduce overall suicide rate, says new study

Supporters of assisted suicide often say that permitting the procedure would lead to a reduction in non-assisted suicide because it would provide a better alternative. A new study suggests this is not true. In countries where assisted suicide is available, non-assisted suicides do not necessarily reduce in number.

The study by David Albert Jones, director of the Anscombe Bioethics Centre, focuses on Switzerland, Luxemburg, the Netherlands and Belgium where Euthanasia or Assisted Suicide (EAS) are legal, and it compares them with similar neighbouring countries.

It was found that in all the four countries there have been very steep rises in total suicide – assisted or otherwise- after the introduction of EAS. Where legal, deaths by euthanasia have also increased.

In Switzerland, the suicide rate of women (by assisted or non-assisted suicide) has doubled since 1998, when the government began to register death by assisted suicide. This is the year when Dignitas, the organisation that facilitates suicides, was founded. From 1999 the total rate has risen steeply and constantly.

Some claims that the legalisation of EAS can act as a form of suicide prevention.

For example, EXIT Switzerland say that “living in the certain knowledge of a way out has motivated more than half of the people originally intent on dying to keep enduring their painful lot until they passed away the natural way.”

A similar argument played a key role in the landmark ruling of the Supreme Court of Canada that struck down the prohibition of assisted suicide. It said: “The prohibition on physician-assisted dying had the effect of forcing some individuals to take their own lives prematurely, for fear that they would be incapable of doing so when they reached the point where suffering was intolerable” (Carter vs Canada, 2015)

But the study by David Albert Jones shows that “in none of the four jurisdictions did non-assisted suicide rates decrease after the introduction of EAS relative to the most similar non-EAS neighbour”. Instead, in all countries, deaths by EAS have constantly increased and legalisation had no suicide prevention effect in the population at large.

In the Netherlands, the rates of non-assisted suicide have increased since the legalisation of EAS in 2001. In the period between 2001 and 2016 they had the highest increase in non-assisted suicide in Western Europe. They also are the country with the longest history and the greatest number of deaths (6,938 in 2020) by EAS in Europe.

Prior to 2001, Dutch rates of female non-assisted suicide were similar to Germany, their closest non-EAS neighbour, but the rates diverged significantly afterwards.

Belgium, another EAS country, has now the highest rate of female non-assisted suicide in Europe, including former Communist countries where rates have always been higher than the rest of the continent.

As David Jones concludes, the data from Europe (and the US), do not give “any grounds for believing that EAS constitutes an effective form of suicide prevention”.

In fact, when we add together rates of assisted and non-assisted suicide in the countries covered by the study, we find that women in particular are being adversely affected. 

This is one more argument against going down the assisted suicide rate. 

sabato, febbraio 12, 2022

La morte non è un diritto

 


di Roberto PECCHIOLI

“La morte non è un diritto”. Avreste mai pensato di leggere una frase del genere? Dobbiamo ringraziare Jorge Mario Bergoglio per averla pronunciata. Dinanzi all’attacco furioso della cultura di morte mascherata da diritti universali, l’uomo di Santa Marta ha parlato da Papa. La vita è un diritto, non la morte, ha dovuto aggiungere, riferendosi a una civiltà agonizzante e tuttavia assassina. Nello specifico parlava delle norme a favore dell’eutanasia, pudicamente (o furbescamente) chiamate suicidio assistito, in discussione presso il parlamento italiano. La morte va accolta, non somministrata. La cosa incredibile è che questi principi sono rubricati come cattolici, mentre rappresentano il senso comune di ogni umanesimo: primum vivere. A questo siamo.

La morte è il mistero massimo della nostra presenza nel mondo. Non vi è soluzione, umana o scientifica, solo due possibilità: il rassegnato materialismo che attribuisce al caso, al caos o all’evoluzione l’enigma della vita, oppure la speranza trascendente, il progetto insondabile di una forza o entità che chiamiamo Dio.

L’esperienza del fine vita è tragica e non può essere affrontata o descritta con granitiche certezze. La sofferenza accompagnata dalla sua inutilità, dall’impotenza e dal senso di ingiustizia del male non conosce spiegazioni, tanto meno soluzioni. L’uomo moderno vuole avere nelle sue mani il controllo di ogni circostanza e di ogni situazione; non è disposto a credere che la vita non sia esclusivamente e totalmente sua. Ripetergli che appartiene a Dio è del tutto vano. Eppure ha senso. Chi scrive fece il primo pensiero “filosofico” (se può permettersi un termine tanto impegnativo) attorno ai dieci, undici anni di età, allorché, dopo le rimostranze per aver ricevuto un paio di meritati ceffoni, la mamma sbottò: io ti ho messo al mondo, posso ben darti quattro schiaffi. Per la prima volta, presi atto che la vita non è una nostra scelta: siamo stati concepiti- per amore o per caso- in nostra assenza, l’atto di volontà di due persone che la follia contemporanea designa come genitore uno e genitore due.

Dunque, la “mia “vita non è del tutto mia, giacché non è stata voluta da me: nasciamo – come dire – in nostra assenza e la morte è appunto assenza. Non sappiamo se in tutto questo c’entri o meno Dio, ma l’eventualità non può essere scartata. La vita ci è donata e non possiamo gettarla via. Altra cosa è la relazione drammatica con il dolore, la malattia, il declino fisico e mentale. In altri tempi era considerata una fortuna morire di vecchiaia, circondati dai volti e dalle cure delle persone care. Che l’attuale insana passione per l’eutanasia sia uno degli effetti della solitudine esistenziale?

Nel racconto L’uomo della folla, Edgar Allan Poe descrive – agli albori dell’urbanizzazione e della rivoluzione industriale – un vecchio malridotto, il cui abbigliamento testimoniava passati tempi migliori, che si aggirava senza posa nella metropoli cercando la folla. Atterrito dalla solitudine, tentava in ogni maniera di mischiarsi alla massa. Probabilmente esorcizzava la morte incombente e insieme si illudeva di non pensare, di non rimanere a tu per tu con se stesso.

No, la morte non è un diritto, è un dramma. Per questo non può diventare un servizio medico, la soluzione finale a carico del sistema sanitario per chi non ce la fa più, talvolta perché il destino avverso gli è piombato addosso, altre volte perché solo e sgomento dinanzi al male. Nelle società tradizionali, la famiglia si prendeva cura del parente sulla soglia dell’addio e la presenza, lo sguardo, la mano tesa rendevano più sopportabile l’ineluttabile. Oggi, solitari, distanziati, impauriti, disperati nel senso etimologico (privi di speranza) arriviamo a invocare la morte, ovvero la nostra assenza definitiva. Un esito terribile per una società superba, orgogliosa dei “diritti”, intenta alla ricerca della felicità prescritta non da filosofi edonisti, ma dalla costituzione degli Stati Uniti, la nazione simbolo della modernità, del progresso e della tecnica.

E’ la società di Lucifero, l’angelo bellissimo e orgoglioso che cadde nel profondo degl’inferi. Ne sono simboli Frankenstein, la creatura di uno scienziato che volle farsi Dio e Mister Hyde (hide, nascosto, oscuro), l’esperimento prometeico del mite dottor Jeckyll di separare nell’uomo il bene e il male. Tutti tentativi di innalzarsi al cielo, atti di superbia, di quell’hybris – arroganza, dismisura- che per il mondo classico era il peccato più grande dell’essere umano. Al male l’uomo occidentale moderno risponde affidandosi alla tecnica. Poiché la natura è più forte, prova a modificarla, cancellarla, negarla. Se non c’è modo di uscire dalla sofferenza, dalla malattia, dal male di vivere, il rimedio definitivo è la morte. “Buona” non più nel significato cristiano, l’accettazione dell’inevitabile accompagnata dai sacramenti e dalla speranza trascendente, bensì l’atto deliberato – proprio o altrui – di chi pone fine alla presenza nel mondo e si tuffa nel nulla.

Temi assoluti, totalizzanti, che chi scrive è incapace di sfiorare senza chinare il capo e rispettare ogni sensibilità, ai quali, una volta tanto, ci ha richiamato l’autorità spirituale del capo visibile della chiesa cattolica. Non verrà ascoltato, la società della cancellazione, il gaio obitorio procederà a grandi passi verso la dissoluzione. Potremo suicidarci con assistenza di medici e infermieri, a spese del sistema impropriamente detto sanitario. La vita viene bloccata con indifferenza prima della nascita, il grumo di cellule estirpate dal corpo materno a spese di tutti, nelle more di definire l’aborto un diritto fondamentale degli europei superstiti, anzi delle europee.

Atterrisce non solo il merito di ciò che accade, percepito dalla maggioranza come progresso e normalità (un’altra faccia della banalità del male?), ma la tenace volontà di dare per scontata, lecita, giusta ogni deroga al principio della civiltà di ieri, il primato della vita.  San Francesco d’Assisi è ammirato per la sua bontà e il suo preteso ecologismo. Non ricordiamo mai tra le sue Laudi, quella a Sorella Morte corporale, preludio al transito oltre il tempo e alla visione di Dio. Troppo dura da digerire, meglio ridicolizzare, parlare di favole del passato oscuro. Gran bella luce, quella di una civiltà che uccide se stessa in ogni possibile modo e arriva a considerare la morte un diritto. Oltre alla solitudine esistenziale e al terrore per la tribolazione, non sarà che c’entrino anche la corsa produttivistica, il mito dell’efficienza, della performance, l’ansia da prestazione, l’equivoca categoria di qualità della vita che scaccia la dignità essenziale dell’essere umano?

E’ pressoché impossibile convincere l’uomo moderno che le sue idee non sono definitive, uniche e migliori, e che tutto ciò che venne “prima”, in sua assenza, non fu il balbettio di un’umanità bambina. Il consenso per l’eutanasia è stata provocato da qualcuno; c’è chi ha finanziato e imposto campagne politiche, mediatiche e culturali. Non stupirà sapere che si tratta per lo più di assicurazioni, fondi pensione, potentati economici. Quasi nessuno è sfiorato dal dubbio che vogliano semplicemente toglierci di mezzo per interesse e perché ostacoli di carne e spirito ai loro progetti. Scrisse Nicolàs Gòmez Dàvila che convincere chi ha opinioni proprie è facile, ma nessuno convince chi sostiene opinioni altrui ripetute sino all’estenuazione. Il papa ha battuto un colpo, ma l’eco delle sue parole se lo porta il vento gelido della cultura dominante, la post moderna compagnia della buona morte con sede nella rue Morgue, la via dell’obitorio dei racconti di Poe.

L’unica speranza di sopravvivenza è riposta nella Dea Scienza, nel transumanesimo avanzante, il pensiero convinto che sarà possibile sviluppare facoltà capaci di oltrepassare la condizione umana. Mentre sfoltiscono i ranghi della vecchia umanità, costruiscono l’uomo che trascende se stesso attraverso la tecnologia, la cibernetica e l’ibridazione con la macchina, in vista dell’allungamento della vita e della modificazione del patrimonio genetico. La promessa è addirittura l’immortalità, nel segno della conservazione a freddo e del cosiddetto “mind uploading”, l’archiviazione digitale delle funzioni cerebrali.

Ecco il destino finale dell’uomo, la mente alveare. Sarò ancora “io”, riconoscerò il mio “sé”? Domande inevase e tremende, che tendiamo a sfuggire in preda all’angoscia. Meglio seguire la corrente e accettare le idee dominanti. Sono vecchio, malato, depresso, non più performante? La soluzione c’è, la punturina che mi cancella, previa istanza all’autorità competente (sulla “mia” esistenza!), assistenza di un psicologo dell’ASL- surrogato dei conforti religiosi – testamento economico e biologico debitamente protocollati, espianto degli organi riutilizzabili. Quel che resta del fugace transito sulla terra del superbo Homo sapiens Dio di se stesso.

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Vinceranno anche la battaglia dell’eutanasia, la chiameranno avanzamento di civiltà; sarà sempre più difficile opporre argomentazioni alternative, fastidiosi rigurgiti del barbaro passato, indegni delle magnifiche sorti e progressive della Rue Morgue. La rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica ha espresso la rassegnazione dei perdenti accettando di fatto l’eutanasia legale – pardon il suicidio assistito- con qualche correttivo. Forse per questo Bergoglio- gesuita anch’egli – ha dovuto ribadire la dottrina di sempre. Su un tema tanto profondo, che attiene alla fibre più intime, è assai difficile assumere una posizione apodittica, assoluta. Tuttavia, l’aspirazione dell’uomo, di ciascun uomo, è la vita, non la morte. Per Hannah Arendt, rassegnarsi al male minore – una società “moderatamente “ suicida- è comunque scegliere il male. Parole forti per coscienze lacerate, come la nostra.

Prima la vita, però, prima la speranza, prima un’idea alta dell’uomo. Soprattutto, nessuna rinuncia a testimoniare la verità in quanto non ha possibilità- oggi- di trionfare. Etiam si omnes, ego non. Anche se tutti, io no.

 

da www.maurizioblondet.it

martedì, febbraio 08, 2022

Radical assisted suicide organisation opens in Ireland to almost no reaction



Exit International, one of the most radical assisted suicide organisations in the world, has launched an Irish branch. They want almost no limits on euthanasia/assisted suicide. They believe that any adult who wishes to kill themselves, and is mentally competent, should be facilitated in doing so. The person doesn’t have to be sick, let alone terminally ill. They only have to find their life ‘unbearable’, a tremendously subjective term.

The current proposal for assisted suicide in Ireland would “only help a very small group of terminally ill people”, they claim, while there should be no restrictions at all to access it, for those who have reached the legal age and are of sound mind.

People who oppose the so called “right-to-die” always warn of the slippery slope. They say once permitted in limited circumstances, assisted suicide is normalised and demands grow that it be made available on ever wider grounds.

The launch of Exit Ireland proves that the slippery slope is more than real. It is already happening. They want no limits as they believe that suicide is a right. No one should interfere with the free choice of death.

Moreover, they think that the law discriminates against those who are physically unable to kill themselves, as so helping suicide should be decriminalised too.

Exit Ireland is led by Tom Curran, the partner of the late ‘right-to-die’ campaigner Marie Fleming, who has been their Europe coordinator since 2010. Two years ago, he told the Sunday Independent that assisted suicide should be offered to people with mental illnesses.

Will the Irish campaigners who say want assisted suicide only for the terminally-ill, and insist there is no slippery slope, now decry Exit International and its aims? If they mean what they say, they should.

The newly launched Exit Ireland website links to the ‘Peaceful Pill Handbook’, which provides information on how to kill yourself. The latest version of the Handbook focuses on the Sarco euthanasia pod. ‘Sarco’ (short for sarcophagus), is described as “an exciting futuristic project”. It is a coffin-shaped machine that releases deadly nitrogen once activated from inside. Its use has been approved in Switzerland, where facilitating suicide is legal.

We can assume that Exit Ireland want this killing capsule to be legal here as well. Do the Irish supporters of assisted suicide approve the lethal machine? They have been silent so far.

The machine was developed by Philip Nitschke, one of the founders of Exit International. Nitschke, referred by the media as “Dr Death”, is a medical doctor who left the profession in his home country after the South Australian Medical Board imposed restrictions on his activity, including a ban on offering information on lethal sedatives to patients.

In the past, Philip Nitschke has held suicide workshops in Dublin organised by Exit International.

It is incredible how the public debate can move so swiftly from seeking assisted suicide only for the terminally ill, to demands that it be granted to anyone of sound mind who wants it. The launch of Exit Ireland confirms that the slippery slope flagged by prolife campaigners in the past was not scaremongering but an easily predictable development.

The only two limits that Exit International still defend -age and mental competency – have been lifted in other countries.

Soon, there will be someone here who will say that it is wrong to deny minors who suffer unbearable pain what is instead offered to adults. The same can be demanded for those who are mentally incompetent. If death is the solution, it is hard to justify any limit.

giovedì, febbraio 03, 2022

How during the pandemic couples have changed their plans to have children

 As now people live longer and fertility rates are declining, the postponement of the retirement age is almost inevitable to address the issue of balance between generations, unless we have more births. A recent survey from Canada can help understanding why couples postpone or abandon childbearing and it shows that marriage is a key positive factor mitigating the negative effect of the pandemic on birth rates.

Last year the Commission on Pensions recommended to raise the State retirement age to 68 in order to maintain a sustainable pension system and the Government is considering this possibility.

We can’t have too many elderly people without a substantial cohort of younger population paying for their pensions. To tackle the problem of an aging population importing, other solutions are possible: importing working force through immigration and incrementing the birth rate. These are not mutually exclusive, and immigrants also tend to produce more children than natives, at least initially, before they conform to the local trends.

The birth rate in Ireland has constantly declined, reaching its lowest point during the pandemic. According to the last figures available, in the second quarter of last year the number of births in Ireland dropped by 14.6pc, compared to the previous year.

With the exception of Scandinavian countries, this is a common trend but Ireland experienced the second bigger drop in Europe.

We don’t have proper studies yet on who has delayed or stopped having children here in response to the pandemic, and why Covid is impacting Ireland’s fertility rate more negatively than other countries, but we can get some insights from studies conducted abroad.

For instance, a recent survey of the Canada statistics office explores how during the pandemic couples have changed their plans to have children. It emerged that almost a quarter (24pc) of people aged 15-49 have changed their intentions. 19.2pc want to postpone childbearing or have fewer children while 4.3pc want more children or earlier childbearing.

This is not surprising but let’s explore more the demographic characteristics of those who have negatively revised their fertility plans.

The difference between sexes is not significant: 18.5pc of men and 19.9pc of women want to postpone or stop having babies.

The existence of other children, instead, is a significant factor. Non-parents are twice more likely to postpone or not begin childbearing compared to those who already have children (25pc vs 12pc).

With regard to age groups, those between 25 and 34 were more likely (30.5pc) to negatively revise their fertility plans. This is understandable as they are also those who are more likely to consider whether or not having children soon, compared to the younger or older cohort, who might think that this issue is not yet, or anymore, relevant for them. (The current mean age of mothers is 31.3.)

When looking at the conjugal status, the percentage of those people who changed negatively their fertility plans is lower among those who are married (14.2pc) compared to couples who are not living together (28.6) or cohabiting (20.6).

This proves that people in stable committed relations are feeling less the impact of great uncertainty and economic downturn following from the pandemic.

Being an immigrant was not found to hold a significant bearing on the likelihood of changing one’s fertility plans.

Age, being married and already having children are the key factors that mitigate the decision to delay or abandon childbearing.

If we want to increase the birth rate in Ireland, we need similar studies tracking trends in fertility intentions here. Understanding the sociodemographic characteristics of couples and of women of fertile age, will help to inform and plan long-term policies.

martedì, febbraio 01, 2022

Officials warn against commercial overseas surrogacy

 

There is a mounting pressure in Ireland to have foreign commercial surrogacy arrangements recognised here. Today the matter is being considered by a Special Oireachtas Committee, but ahead of that meeting, the Attorney General’s office produced a document highlighting the ethical pitfalls with commercial surrogacy. It also challenges the recommendations on the matter of the Rapporteur on Child Protection.

To summarise, the document warns that commercial surrogacy commodifies babies, exploits women, and if we ban it here and recognise it overseas, that creates a double standard. These arguments echo the concerns of The Iona Institute, among others.

International commercial surrogacy by its nature involves paying poor women, usually in low-income countries to conceive and give birth for a commissioning couple or a single person. Usually, the gametes (eggs and sperm) are provided by the intending parents, but sometimes it comes from “donors”, who are also paid or compensated. In Europe, commercial surrogacy is legal only in Ukraine, Belarus and Russia.

Many European countries ban ‘altruistic’ as well as commercial surrogacy because it splits motherhood into several women potentially creating identity problems for the child.

The planned Irish law covering this area will allow non-commercial surrogacy while prohibiting commercial surrogacy agreements in Ireland. In practice, some Irish couples are going to places like Ukraine to avail of commercial surrogacy there.

Those couples are now campaigning for Ireland to recognise these arrangements, but the document from the AG’s office raises several objections.

It expresses concerns about “commodification of children and exploitation of surrogate mothers”, and says, “These issues are heightened in international surrogacy, especially where intending parents from a wealthy country such as Ireland undertake a commercial arrangement with a surrogate mother in a poorer country, or one where the rights of women are less protected.”

The paper also warns that prohibiting commercial surrogacy here, but recognising it when Irish couples go abroad would create a double standard.

It states: “If commercial surrogacy arrangements are to be prohibited in Ireland due to concerns relating to welfare of children and surrogate mothers, those concerns arise to an even greater extent in relation to commercial surrogacy arrangements undertaken outside the State. Providing for recognition of foreign commercial surrogacy arrangements while limiting domestic surrogacy to altruistic arrangements, thereby providing a greater standard of protection for women in Ireland than abroad, would create a double standard in Irish law which may be difficult to justify.”

In December 2020 Dr Conor O’Mahony, the Special Rapporteur on Child Protection, produced a report that addressed the ‘best interests’ of a child born through different forms of assisted reproduction, including surrogacy arrangement.

The report by Dr O’Mahony recommended that Irish law should make provision for international commercial surrogacy, when certain criteria are satisfied.

It is a plain contradiction to make a certain practice illegal here and at the same time to give it legal recognition it if it happens abroad.

The Attorney General’s office suggests the Joint Oireachtas Committee some possible options in dealing with international commercial surrogacy.

The current legislative provision could be maintained, that is, those who intend to become parents of children born via international surrogacy arrangements will apply to court, and each case will be considered individually.

A second option is that the same requirements for surrogacy in Ireland would apply for arrangements abroad and so only parents commissioning non-commercial arrangements abroad would receive parental status here.

The third option would be to allow commercial surrogacy in Ireland, but that would make Ireland an outlier in Europe and internationally.

But there is one option that neither this document nor the drafted Bill consider, even if it is the solution adopted by Germany, Italy, France, Spain, Austria, Norway, Finland, and many other European countries: i.e. a total ban of surrogacy in all its forms. This avoids the problems inherent in all surrogacy procedures.