domenica, aprile 30, 2006
Tesi congressuali FUCI. Premessa 2
3. La rivoluzione dei saperi tra globalizzazione e frammentazione
Come e quando nasce la rivoluzione dei saperi? Da cosa è prodotta e come si caratterizza? Quali rischi e quali opportunità porta con sé? Da cosa si evince la consapevolezza di essere immersi in una simile trasformazione? Rispondere a queste domande è difficile per tutti, perché si tratta di un cambiamento ancora in corso: un work in progress, come sottolineato anche nel titolo del nostro congresso.
Nella storia, come è noto, spesso si verificano lente e naturali evoluzioni che durano secoli; invece saltuariamente assistiamo a rivolgimenti “epocali”, inattesi e radicali, che possono lasciare spiazzati: solo la distanza storica e intellettuale dagli eventi quotidiani riesce forse a individuarne le cause. Sembra proprio ciò che stiamo vivendo in questi anni: una rivoluzione ampia e complessa che interessa il campo della conoscenza. Si tratta di un insieme di cambiamenti che si sta manifestando con vigore negli ultimi decenni, ma ha radici lontane e difficilmente identificabili, e che riguarda in particolar modo l’organizzazione della conoscenza e il rapporto tra i diversi saperi. Qualcuno suggerisce che si stia avviando una nuova fase di ricomposizione del sapere, che segue quella della sua esplosione prima e della sua frammentazione poi. Chiaramente non abbiamo la certezza che le cose stiano effettivamente così, ma anche le molte trasformazioni che stanno interessando la nostra Università ci dicono che forse ci stiamo muovendo in questa direzione.
Innanzitutto, si assiste a un processo in cui la conoscenza deriva sempre più dall’attitudine a “saper fare”. Si bada cioè al risultato, alla performance, un interesse che risulta in accordo anche con i criteri di selezione della nostra società, spesso basati sulle competenze fattive del singolo. Questo atteggiamento riguarda in modo particolare il mondo delle scienze e pone numerosi interrogativi sulla capacità dello studioso di oggi di dare un senso al proprio agire e sull’utilità dei saperi di tipo speculativo. Inoltre, spesso accade di credere solo alle scienze empiriche in quanto esse sono in un certo senso “dimostrabili”, mentre si ritiene semplice opinione tutto quel settore della conoscenza che ha a che fare con le idee o con l’investigazione . Anche alla luce di questi fattori, appare invece sempre più importante non perdere di vista che l’obiettivo primario del nostro sistema educativo dovrebbe essere quello d’insegnare a pensare, ad affrontare le grandi sfide della società, della scienza e della vita, con uno sguardo umanizzante globale e complesso, eppure capace di entrare nella specificità dei problemi. Ciò significa forse anche adottare una prospettiva d’interconnessione dei saperi, formare le menti a sviluppare attitudini generali più che riempirle di nozioni.
Sembra che il mondo della cultura occidentale sia interessato da una profonda trasformazione anche a seguito del processo di globalizzazione, che ha consentito pure a civiltà e conoscenze distanti l’ingresso nel nostro campo dei saperi: di conseguenza questi sono entrati in discussione, costretti a mettersi in dialogo, a superare i vecchi confini eurocentrici, realizzando di non essere più gli unici. Ciò non senza un senso di smarrimento, amplificato dalla consapevolezza di vivere all’interno di una società dell’incertezza, nella quale anche le tradizionali istituzioni educative vengono affiancate da altre agenzie e percorsi concorrenti che rischiano di mettere in crisi il loro ruolo.
A fronte di questi fenomeni, l’Italia avverte forse in maniera più traumatica la trasformazione di cui si parla, perché è una delle roccaforti del vecchio sistema educativo. Quali sono le cause di questa “anomalia”? Si è parlato spesso di un processo involutivo che stride rispetto al decorso della storia, dovuto a peculiari fattori politici, economici e sociali. Si può parlare, come alcuni suggeriscono, di una “rivoluzione incompiuta”, iniziata un secolo e mezzo fa che oggi rivendica un seguito? Infatti, si sa, il sapere non è mai indipendente dalle condizioni politiche ed economiche in cui si sviluppa. Per questo motivo c’è chi pensa che nel nostro Paese sarebbe stata proprio una volontà politica a determinare la stasi di un insegnamento prevalentemente elitario, incapace di fornire un’educazione civica a tutto tondo : un modello insomma che non favorisse la capacità degli studenti a utilizzare gli strumenti appresi prima di tutto per diventare cittadini consapevoli e responsabili della propria realtà, in grado anche di “controllare” i propri rappresentanti, qualità indispensabili a una vera democrazia.
Oggi, ci sembra di vivere un fenomeno che scatena due spinte divergenti: conservazione e innovazione. L’una prenda il sopravvento sull’altra a seconda di quale prospettiva del cambiamento si adotti: la prima, decisamente negativa, demonizza il nuovo, la seconda assolutamente positiva, quasi tende a cancellare il passato. L’atteggiamento migliore con cui ci sembra opportuno avvicinarci al tema della rivoluzione dei saperi è invece quello dell’equilibrio tra queste due tendenze, senza pregiudiziali verso il nuovo, ma anche senza facili esaltazioni contro il vecchio. La trasformazione che stiamo attraversando è un processo inevitabile, frutto di complesse evoluzioni sociali e culturali, con cui ci sembra importante confrontarsi in atteggiamento positivo.
4. Quali trasformazioni riflesse sull’Università?
La rivoluzione dei saperi, che riguarda l’organizzazione della conoscenza, incide significativamente sul processo di trasformazione dell’Università dei grandi numeri. Ad esempio, a livello disciplinare, si sta ormai superando l’idea della separazione netta fra ambito umanistico e ambito scientifico, e il criterio principale dell’organizzazione dei saperi diventa l’interconnessione, legata al paradigma della complessità, che consente la comunicazione virtuosa tra diverse conoscenze, attraverso linguaggi omogenei ma non omologanti. Infatti, sembra indispensabile che l’Università continui a dotarsi di percorsi formativi che insegnino a pensare in modo che la ricerca della verità, non solo scientifica, sia perseguita secondo l’originalità di ognuno, nei diversi modi che l’esplosione dei saperi ha determinato.
Un secondo elemento caratterizzante il processo in atto, in riferimento all’Università, è l’avvento della società tecnologica: secondo la lettura di Galimberti, infatti, la tecnica non rappresenta più un semplice strumento utile alla trasmissione delle informazioni, ma diventa l’ambiente nel quale siamo immersi e in cui si muovono le conoscenze. Così di riflesso, anche nell’università, la tecnologia origina decisivi cambiamenti intellettuali attraverso strumenti quali la rete, l’e-learning, i database, i motori di ricerca et similia. Infatti, essi hanno sicuramente agevolato la ricerca e lo scambio rapido delle informazioni, mutando radicalmente tempi e modi di pensare e produrre conoscenza, ma contemporaneamente hanno creato nuovi rischi, come il passaggio dell’impiego della tecnologia da semplice mezzo a messaggio, nonché l’assunzione dei mezzi tecnici a vere e proprie estensioni dei sensi e del pensiero.
Alla luce dei rivolgimenti fin qui tratteggiato a grosse linee, ci interrogheremo di seguito prima sulle conseguenze della rivoluzione dei saperi nell’ambito della didattica nei nostri Atenei (Titolo Primo), poi su quelle relative al rapporto sistema universitario, ricerca e mondo del lavoro (Titolo Secondo). A proposito del primo nucleo, ci chiederemo se l’Università riesca ancora ad adempiere al suo tradizionale ruolo, promuovendo l’universalità della conoscenza ed educando a una piena cittadinanza, ormai non più solo nazionale ma globale. La sfida che sembra pararsi davanti è il passaggio da un sistema educativo incentrato sull’insegnamento ad uno basato sull’apprendimento: quello in cui insomma il discente diventa parte attiva e creativa del percorso formativo.
In secondo luogo, ci chiederemo quanto l’Università sia in grado di interagire con le altre istituzioni, in un’ottica di cooperazione che punti ad una formazione dinamica, transdisciplinare, capace di adattarsi in maniera flessibile al cambiamento di una società sempre più fluida e di un sistema basato sull’apprendimento continuo. In questo discorso si collocano alcuni quesiti relativi a un incontro, quello tra mondo universitario e mondo del lavoro, non lineare, almeno in relazione alle esperienze che hanno visto in dialogo questi due interlocutori.
Di sicuro, le domande superano le risposte in un tema simile. L’interrogativo di fondo, però, riguarda la persona all’interno del cambiamento: che ruolo può occupare la nostra università nella formazione piena dell’uomo nella nuova società della conoscenza? Come trovare il proprio posto al suo interno realizzandosi pienamente come singoli, seguendo e non sacrificando le proprie inclinazioni, e allo stesso tempo contribuendo al bene comune? Può l’università orientare a scoprire, a non sbagliare, la vocazione di ognuno?
Tesi congressuali FUCI 1
Università e forme nuove del sapere
PREMESSA
1. La FUCI e la nuova Università
Torniamo a parlare di Università in un momento di grande cambiamento che coinvolge non solo l’istituzione accademica ma anche la riorganizzazione della conoscenza, l’interazione tra formazione universitaria e mondo del lavoro. L’esperienza maturata dalla FUCI sino a oggi, che arriva a contare 110 anni di vita, è la sintesi di un percorso lungo e vario. La FUCI dei nostri giorni non è più quella di ieri: infatti, anch’essa è stata plasmata dai mutamenti sociali e culturali intervenuti nel corso degli ultimi tempi. Queste trasformazioni sono particolarmente significative se andiamo a guardare gli anni più recenti, in particolar modo in ambito universitario. Se è cambiata l’Università, possiamo facilmente dedurre che sia cambiata anche la FUCI, composta da studenti universitari che certo sono parti importanti del momento che stiamo vivendo. Convivono così queste due anime nella FUCI: da un lato quella che si rinnova in conseguenza alle spinte culturali, dall’altro quella che non muta nei punti di riferimento e nei caratteri di base. La FUCI dei nostri giorni continua a trarre, come in passato, vitalità e stimoli dal proprio ambiente di riferimento, con rinnovata attenzione e rinnovato entusiasmo.
Anche alla luce di queste considerazioni, siamo convinti che l’Università possa essere ancora oggi il luogo in cui impariamo a pensare e a maturare quegli strumenti che sono indispensabili per diventare pienamente cittadini e pienamente cristiani. Inoltre, crediamo che l’atteggiamento migliore per affacciarci alla novità sia quello di riformulare, seppur in un contesto radicalmente mutato, lo stile centenario della mediazione culturale che sentiamo nostro.
Rinnovata, ma sempre se stessa, la FUCI rimane per noi un’esperienza intensa di maturazione nell’approccio allo studio e alla ricerca. Ricerca che non riguarda solo l’ambito culturale, ma anche quello di fede. Prendendo atto del fatto che la società ci sembra in questo momento lontana dal pensiero cristiano, crediamo necessario ripensare la sfida della testimonianza cristiana nel nostro ambiente di vita quotidiano. Per far questo è importante saper leggere innanzitutto il contesto universitario e la tipologia dei soggetti che in esso operano, per poi tradurre nei linguaggi e nelle forme adeguate la missione laicale che ci assumiamo, elaborando nuovi modelli che siano coerenti con la nostra fede ma anche con la nostra storia.
2. Quale presenza cristiana in Università oggi?
La popolazione universitaria oggi è estremamente eterogenea e lo studente-tipo approda agli studi accademici con motivazioni e prospettive decisamente diverse da quelle del passato. Forse generalizzando, si potrebbe osservare un passaggio da studente vocazionale a uno professionale, cioè da un tipo di studente che frequenta l’Università per maturare e perfezionare la propria vocazione intellettuale a uno che la frequenta per acquisire delle competenze utili per entrare nel mondo del lavoro, con migliori prospettive. Ma è proprio così? Le aspettative corrispondono alla realtà?
Inoltre, l’incremento esponenziale del numero di iscritti rende di fatto impossibile l’antico modello di Università quale “comunità di studenti e di discenti”. Le Università italiane odierne somigliano infatti a piccole città, in cui sembrano regnare indifferenza e individualismo e in cui sopravvivono solo ristrette comunità omogenee. Così come accade ormai da tempo alle città, anche negli atenei va aumentando la complessità della popolazione pure in conseguenza del sensibile aumento del numero di studenti stranieri in Italia (prevalentemente dall’Est Europeo, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Asia centrale). E così sorgono nuovi problemi legati all’interazione tra diverse religioni e culture: il dialogo interreligioso, per fare un esempio a noi caro, diventa terreno d’incontro nel piccolo del quotidiano. La vecchia contrapposizione tra cultura cattolica e laica sembra oggi allentata, nel senso che non è l’unica contrapposizione possibile, anche perchè la cultura cattolica si ritrova ad essere una tra le tante. Non per questo, però, essa deve perdere di vista il proprio ruolo nella vita universitaria: testimoniare la Salvezza a tutti coloro che ci sono prossimi, compagni di studio e di ricerca.
Il numero crescente di soggetti, le diverse età di inizio degli studi, l’eterogeneità di culture e di motivazioni allo studio possono essere alcuni dei molteplici fattori che spiegano il senso di estraneità dominante nelle nostre facoltà. Bisogna allora chiedersi: qual è il migliore modello di interazione tra singoli soggetti sempre meno omologati e inseriti in micro-comunità? Infatti, la realtà dei gruppi (associazioni, collettivi, giovanili di partito) rappresenta il piccolo spazio umano nel quale si tenta di ricostruire un modo diverso di vivere tempi e luoghi universitari, recuperando innanzitutto la cultura della prossimità, sempre più indispensabile per affrontare lo smarrimento e la crescente complessità della realtà degli Atenei. L’idea di una comunità universitaria rimane forse un’utopia ma può rappresentare ancora una tensione in cui combinare integrazione culturale e testimonianza cristiana. Ciò appare possibile però solo se si ripensa uno stile cristiano e laico capace di porsi umilmente in dialogo sul terreno fertile e comune della cultura, dello studio e della ricerca: uno stile insomma che non sia ostentato per essere riconosciuto. Questo percorso dovrebbe presupporre un’analisi accurata e una seria critica delle nostre categorie di riferimento e dei nostri linguaggi, che spesso rischiano di essere autoreferenziali e inadatti a una comprensione esterna.
Pensiamo che un’esperienza viva e coerente di cristianesimo in Università sia oggi possibile se fondata sulle categorie del confronto e del rispetto reciproco. Questo significa scardinare innanzitutto la rigida distinzione tra “noi” studenti cattolici e gli “altri” universitari. L’elemento religioso non può definire appartenenze escludenti. Infatti, la continua rivendicazione dei propri “confini” culturali sottolinea la differenza e crea conflitto con gli altri gruppi che sono allo stesso tempo parte del tessuto universitario, anziché favorire un atteggiamento di collaborazione e di ricerca di una minima comune identità.
“Si impara a credere solo nel pieno essere aldiquà della vita” : questa intuizione di Bonhoeffer ci suggerisce che per noi la fedeltà a Dio si manifesta non solo attraverso i percorsi di spiritualità parrocchiali o di gruppo, ma anche attraverso la cura dei complessi contesti in cui viviamo: questo per noi significa confrontarci secondo le categorie universitarie con la realtà complessa dei nostri Atenei. Uno sforzo di questo tipo può comportare delusioni e fallimenti; allo stesso tempo, è importante tentarlo anche per non eludere il diffuso pregiudizio con cui, in genere, vengono considerati i cattolici in questi ambienti. Una risposta lungimirante potrebbe essere costruire basandosi non su un approccio all’insegna di divisione, imposizione e contrapposizione, bensì su un atteggiamento di umiltà, di consapevolezza dei propri limiti e di ascolto. Solo l’interazione serena e rispettosa tra soggetti, a prescindere dalle appartenenze, può realizzare a lungo andare quell’originario modello di comunità universitaria cui si faceva riferimento. In piena compatibilità con la dichiarazione della nostra fede, è necessario assumere linguaggi, metodi e strumenti non-religiosi, aperti e accessibili, che permettano di tradurre l’attenzione e la sensibilità cristiana attraverso interpretazioni “mondane”. Può essere questo lo stile e la prospettiva che risponde all’interrogativo: “Come portare Cristo e la nostra fede laddove nessuno lo vuole?”, ricordando che Cristo, prima ancora di non esser voluto, forse non è nemmeno conosciuto. L’etichetta che può essere sovrapposta su coloro i quali espongano le proprie idee seguendo principi riconducibili alla fede cattolica può derivare anche da una distorta percezione dello stile di presenza cristiana in Università.
Con queste premesse torniamo a parlare di Università. Con una FUCI dicevamo nuova, che tenta di tradurre adeguatamente, nei diversi momenti, il proprio stile ecclesiale e secolare, caratterizzato da autonomia e responsabilità. Chiesa e Università, dunque fede e cultura, rimangono i due poli identitari della Federazione. In un momento in cui questi mutano, la FUCI inevitabilmente deve ripensarsi.. Se cambia il modo di fare cultura oggi, la sfida è tentare di reinventare ancora una volta la possibilità di un fruttuoso dialogo tra pensiero e credo, nella consapevolezza che la cultura non è un modo per affermare un potere, né un privilegio, ma una meravigliosa occasione per metterci in discussione e in dialogo con gli orizzonti schiusi dalla storia che Dio intreccia da sempre con l’uomo.
La rivoluzione del mondo della conoscenza che oggi intendiamo affrontare s’inserisce qui, come ennesimo passaggio nel lungo cammino da un’Università per pochi a un’Università per molti, forse più libera nell’accesso, ma visibilmente in affanno nel fare sintesi tra spinte globali, di novità e di conservazione. Fedeli al nostro stile laicale di protagonismo discreto e pensante, ci affacciamo alla complessità del tema del cambiamento dei saperi con la consapevolezza di non essere esaurienti ma allo stesso tempo con l’intenzione di dare un contributo utile alla riflessione degli studenti e di coloro che s’interessano delle sorti dell’Università.
sabato, aprile 29, 2006
Work in progress
Sto leggendo le tesi congressuali e mi paiono ben fatte. Anche se sono un po' lunghe, ho deciso di riproporle sul mio blog, a puntate.
Forme del sapere, la Fuci riflette a Pisa
Da Pisa Andrea Bernardini
L'università italiana cambia. I corsi di laurea proliferano e accolgono un numero sempre più alto di studenti; la formazione interessa ormai anche l'ingresso (orientamento) e l'uscita (job placement) dal percorso universitario vero e proprio. Gli studi umanistici e quelli tecnici scientifici sono mondi sempre più lontani e la cultura del nostro tempo sembra privilegiare i risultati, la performance, il saper fare, rispetto alla pura speculazione, all'indagine. Se ne parla in questi giorni a Pisa in occasione del 58° congresso nazionale della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) dal titolo «Work in progress: Università e forme nuove del sapere». Ieri i 180 delegati al congresso hanno dipinto l'affresco del cambiamento: le recenti riforme del 1999 e del 2004 hanno arricchito l'offerta formativa. «Oggi - dice la presidente della Fuci, Federica Di Lascio - si parla più coerentemente di saperi al plurale, perché le conoscenze sono sempre più specializzate e frammentate. E, tra i saperi occidentali, hanno acquisito pieno diritto di cittadinanza anche culture un tempo lontane». Ma dentro gli atenei c'è ancora spazio per la partecipazione e lo scambio? In una parola: c'è vita? Si offrono strumenti utili al discernimento vocazionale? La formazione segue le inclinazioni del singolo? E chi esce dalle quattro mura dell'università è consapevole che ciò che ha imparato deve essere una risorsa da "distribuire" a tutti? Queste sono le domande al centro del congresso della Fuci. Sapore e lievito dell'università italiana da ben centodieci anni (gli auguri sono arrivati anche dal segretario generale della Cei, Giuseppe Betori), i fucini sono presenti in una cinquantina di atenei (ma i gruppi sono più numerosi). Chiaro il loro stile: in pochi, si inseriscono tra centinaia di migliaia di studenti fuori sede presi tra lezioni, affitti onerosi, sudate notturne per il prossimo esame, proponendo a tutti una domanda semplice: che senso ha quello che facciamo? E proprio questa domanda libera ricerca (quella vera) che in diversi casi porta alla «Verità». «Nell'università lo studente deve costruire la propria personalità: il proprio modo di pensare, vedere, giudicare il mondo - ha commentato l'arcivescovo di Pisa, Alessandro Plotti -. E l'ateneo deve tornare ad essere luogo di vita dove si creano ponti tra docenti e studenti e tra studenti e studenti». Incalzante il rettore dell'ateneo pisano, Marco Pasquali: «Voi studenti non siete i clienti dei nostri servizi, ma i protagonisti». Interessante il dibattito tra Salvatore Natoli, filosofo, e Carlo Calandra, fisico, testimonial della giornata di apertura. Un chiaro segno che per i fucini la cultura è una sola e che le barriere interdisciplinari non sono insormontabili.
No greater love
NO GREATER LOVE...
una giornata dedicata alla cultura, alla storia, alla tradizione Irlandese.
Sabato 6 Maggio
Dalle ore 18.00 presso il CROSSING PUB, Via Furio Camillo 111 (zona S.Giovanni-Re
di Roma), Roma
PROGRAMMA:
ore 18.00
Prof Guido Iorio:
I CARATTERI DEL MONACHESIMO IRLANDESE COME FONDAMENTO DELLA RIACCULTURAZIONE
LATINA E CRISTIANA DELL'OCCIDENTE
Guido Iorio è Docente di Storia medievale presso la S.I.S.S.-Università di Salerno. I suoi campi di ricerca sono sostanzialmente due: le istituzioni militari nel periodo angioino meridionale, e il medioevo monastico celto-ibernese.
Ha pubblicato oltre 70 articoli per riviste di settore, oltre a numerose monografie di angioinistica e storia celtica. Fra queste ultime ricordiamo: I sentieri di San Patrizio, Salerno 1995; L'Apostolo rustico, Rimini 2000; Terra di San Patrizio, Rimini 2004. Il suo più recente contributo in materia, è comparso sulla rivista della società tolkeniana italiana 'Minas Tirith', n. 14 (2005), intitolato Le invasioni vichinghe in Irlanda.
Ing.Gianguido Saletnich
CENNI STORICI,SOCIALI E POLITICI SULLA QUESTIONE IRLANDESE
ore 20.30
possibilità facoltativa di cenare in loco previo prenotazione
ore 22.00
concerto di musica tradizionale irlandese con i The Shire e Ceilidh Dance con i Gens d'Ys
ingresso gratuito
Per informazioni e prenotazioni tavoli: tel.338.1483241 ithil@tiscali.it
ideuropealazio@fastewbnet.it
lunedì, aprile 24, 2006
Dialogando
Vale la pena leggere le trascrizioni di questi dialoghi, anche alla luce delle recenti polemiche riguardanti l'intervista all'Espresso del Cardinale Martini. Rispondendo alla prima domanda, papa Ratzinger, che i giornali continuano a rappresentare in contrapposizione con Martini, indica proprio l'arcivescovo emerito di Milano come maestro nell'interpretazione delle Scritture.
Certo, leggendo la famosa intervista non mi è parso un maestro in altri ambiti della fede. Alcuni passaggi, infatti, non mi hanno proprio convinto. Approfondiremo. Intanto, seguendo l'invito del papa, cominceremo a leggere gli studi esegetici del Cardinale Martini.
1) Santità, sono Simone, della Parrocchia di San Bartolomeo, ho 21 anni e studio ingegneria chimica all'Università «La Sapienza» di Roma.
Innanzitutto ancora grazie per averci indirizzato il Messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù sul tema della Parola di Dio che illumina i passi della vita dell'uomo. Davanti alle ansie, alle incertezze per il futuro, e anche quando mi trovo semplicemente alle prese con la routine del quotidiano, anch'io sento il bisogno di nutrirmi della Parola di Dio e di conoscere meglio Cristo, così da trovare risposte alle mie domande. Mi chiedo spesso cosa farebbe Gesù se fosse al posto mio in una determinata situazione, ma non sempre riesco a capire ciò che la Bibbia mi dice. Inoltre so che i libri della Bibbia sono stati scritti da uomini diversi, in epoche diverse e tutte molto lontane da me. Come posso riconoscere che quanto leggo è comunque Parola di Dio che interpella la mia vita? Grazie.
Rispondo sottolineando intanto un primo punto: si deve innanzitutto dire che occorre leggere la Sacra Scrittura non come un qualunque libro storico, come leggiamo, ad esempio, Omero, Ovidio, Orazio; occorre leggerla realmente come Parola di Dio, ponendosi cioè in colloquio con Dio. Si deve inizialmente pregare, parlare con il Signore: “Aprimi la porta”. E’ quanto dice spesso sant’Agostino nelle sue omelie: “Ho bussato alla porta della Parola per trovare finalmente quanto il Signore mi vuol dire”. Questo mi sembra un punto molto importante. Non in un clima accademico si legge la Scrittura, ma pregando e dicendo al Signore: “Aiutami a capire la tua Parola, quanto in questa pagina ora tu vuoi dire a me”.
Un secondo punto è: la Sacra Scrittura introduce alla comunione con la famiglia di Dio. Quindi non si può leggere da soli la Sacra Scrittura. Certo, è sempre importante leggere la Bibbia in modo molto personale, in un colloquio personale con Dio, ma nello stesso tempo è importante leggerla in una compagnia di persone con cui si cammina. Lasciarsi aiutare dai grandi maestri della “Lectio divina”. Abbiamo, per esempio, tanti bei libri del Cardinale Martini, un vero maestro della “Lectio divina”, che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura. Lui che conosce bene tutte le circostanze storiche, tutti gli elementi caratteristici del passato, cerca però sempre di aprire anche la porta per far vedere che parole apparentemente del passato sono anche parole del presente. Questi maestri ci aiutano a capire meglio ed anche ad imparare il modo in cui leggere bene la Sacra Scrittura. Generalmente, poi, è opportuno leggerla anche in compagnia con gli amici che sono in cammino con me e cercano, insieme con me, come vivere con Cristo, quale vita ci viene dalla Parola di Dio.
domenica, aprile 23, 2006
Back to Dublin
Finite le vacanze pasquali, sono di nuovo a Dublino.
I bozzetti e le sculture che ho messo sul blog in questi giorni sono del mio amico Dony MacManus. Dony è un giovane scultore, ha studiato a New York e Firenze e si ispira alla 'teologia del corpo' di Giovanni Paolo II. Da poco ha fondato la Irish Academy of Figurative Art. Visitate il suo sito, secondo me è molto bravo.
domenica, aprile 16, 2006
venerdì, aprile 14, 2006
martedì, aprile 11, 2006
Che v'avevo detto?
l'Unione non vince, questo mi pare chiaro. La legge elettorale è un po' complicata e quindi prevedo un quasi pareggio, nel senso che ci sarà differenza tra Camera e Senato, ma con un leggero vantaggio favore della CDL.
Tre giorni fa, nonostante apparenti segnali contrari, ho confermato la mia previsione.
Ora, io sfido chiunque a trovare un solo blog che a così grande distanza di tempo abbia dato una descrizione tanto accurata di quanto poi è successo con somma sorpresa generale. Chi aveva ragione?
Solo per oggi, vista l'occasione, offro consulti gratuiti per quanto riguarda amore e salute. (Denaro no, quello dovete meritarvelo) Chiamate il solito numero in sovraimpressione. ;)
PS.
Sono stato appena contattato dalla RAI. Hanno deciso di licenziare sondagisti ed esperti di statistica. Dalla prossima settimana condurrò le previsioni del tempo e dopo l'estate avrò un programma tutto mio sui numeri da giocare al lotto.
giovedì, aprile 06, 2006
BASTAAAA!!
Ormai ci siamo. Chi (non) vincerà l'ho previsto a febbraio e lo confermo.
Comunque, credo che gli italiani abbiano ora due priorità: liberarsi di Berlusconi, con tutto quello che gli sta intorno, e liberarsi di Prodi, con tutto quello che gli sta intorno. Che vadano a godersi la pensione, questi due settantenni, uno in un'isola caraibica, lontano dalla giustizia, e l'altro in un eremo sull'appennino toscoemiliano.
Come fare? Votando centro-sinistra. Perchè, se dovesse vincere, questa coalizione non durerà molto. Mi pare sempre più chiaro che la vera questione non è il dopo Berlusconi ma il dopo Prodi. L'ideale sarebbe un'aggregazione dei partiti di centro (Margherita, UDEUR, UDC, qualche pezzo di quel che resterà di Forza Italia) e parte dei DS. Casini-Rutelli-Verltroni. Liberarsi di estremisti e nostaglici è l'unico modo per assicurare governabilità. A sinistra rimarrebbero un polo laico-verde-socialista ed i comunisti.
A destra AN con più o meno gli stessi voti e la Lega in libertà.
La questione non è SE ma QUANDO. Subito? Fra otto mesi? Già dal voto di lunedì si dovrebbe cominciare a capire qualcosa.
mercoledì, aprile 05, 2006
La laicità non può essere una clava, l’ispirazione religiosa non può essere un ghetto
La laicità non può essere una clava, l’ispirazione religiosa non può essere un ghetto
di Stefano Ceccanti
Chiunque frequenti, anche solo sporadicamente, qualche pezzo di quella realtà molecolare che è il cattolicesimo italiano, sa che c‘è un diffuso disagio per varie modalità con cui la Rosa nel Pugno conduce la propria campagna. Può darsi che questo non sposti voti in modo significativo, visti soprattutto i risultati prodotti da cinque anni di centro-destra e viste altresì le stesse biografie individuali e politiche dei suoi leaders. Dubito che sia possibile dedurre una reale vicinanza alle istanze di questi ambienti a partire dalla tv commerciale, dall’evoluzione democratica del postfascismo o anche dalla declinazione in chiave conservatrice europea della tradizione democristiana italiana, che era in larga parte ben altro, come dimostra anche il bello e recente libro di Marco Damilano. Tuttavia è sbagliato non dare risposte a un disagio che potrebbe sfociare in astensione o comunque in un voto “turandosi il naso”, che sarebbe poi svincolato da un successivo impegno di vicinanza e di stimolo critico di cui il centrosinistra avrà bisogno per non cadere nei vizi di un riformismo dall’alto. Penso che fosse proprio questo l’intento di Bobba e Binetti nella loro lettera agli “elettori cattolici”, che contiene altresì un giusto invito a non selezionare arbitrariamente i temi e gli ambiti di impegno, omettendo quelli più scomodi alla propria coalizione o ponendoli in una gerarchia di convenienza personale. Tuttavia la lettera non mi sembra ben centrata, ben rispondente a quella finalità, perché almeno a me dà la sensazione di coltivare l’ispirazione religiosa come una separatezza, sia per il fatto di rivolgersi agli “elettori cattolici”, quasi che i candidati si ritaglino un ambito chiuso di raccolta del consenso, mentre ciascuno dovrebbe aspirare a rappresentare realmente il Paese nella sua complessità, anche di diversità di appartenenze e di posizioni sul fatto religioso, sia soprattutto perché la lettera indica come soggetto politico non l’intero Ulivo, ma la sola Margherita, in quanto capace potenzialmente di “rappresentare adeguatamente” una laicità che rifugga dalle “tentazioni laiciste” e perché essa da sola abbia “il consenso necessario per svolgere un ruolo di equilibrio nella coalizione”.
Sono ben cosciente che Bobba e Binetti sono candidati al Senato per la Margherita e non alla Camera nella lista dell’Ulivo e quindi giustamente fanno riferimento al partito e al simbolo per il quale corrono, ma posto così il problema, parlando solo di Margherita e Unione, sembrano configurare una specializzazione dentro l’Ulivo tra Margherita e Ds per rappresentare separatamente credenti e non e sembra puntare a radicalizzare le differenze nella coalizione. A ben vedere anche alcune delle posizioni della Rosa nel Pugno derivano da queste separatezze, da questi linguaggi non comunicanti. Dobbiamo invece, senza azzerare le diversità, ripartire dall’Ulivo, sia come eredità sia come progetto unitario per il futuro. L’eredità ci consentirebbe di richiamare alcuni punti fermi della legislatura in cui l’Ulivo è esistito, ha governato ed ha prodotto alcuni sintesi che mostrano la totale infondatezza dell’utilizzo della laicità dello Stato come principio divisivo anziché unitario. Tra di essi rientra, ad esempio, la legge n. 62/2000, “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione”, tuttora vigente, che prevede un servizio pubblico integrato tra gestione statale e privata. Proprio chi si rifà a Blair, ma anche a Zapatero, e quindi a posizioni non stataliste in economia, dovrebbe valorizzare quella legge che imita, tra le altre, quella del governo socialista spagnolo di Felipe Gonzalez sulle “scuole concertate”, che Zapatero si è ben guardato dal toccare, finanziando le scuole private che accettano le regole del sistema pubblico. Del resto, nell’ambito informativo, Radio Radicale non è al tempo stesso una radio di partito e un bel servizio pubblico? Sarebbe anzi quanto mai auspicabile che non Bobba e Binetti, ma proprio vari esponenti “laici” dell’Ulivo scrivessero agli elettori cattolici per ricordare la positività di quella riforma scolastica varata sotto il ministro Luigi Berlinguer, a dimostrazione che anche un non appartenente alla comunità ecclesiale può valorizzarne le iniziative e che è possibile farlo a servizio del bene comune e non per logica corporativa. Il progetto dell’Ulivo consentirebbe poi a Bobba e Binetti di scrivere agli elettori “laici” dell’Ulivo per far loro presente che il loro passaggio dall’associazionismo cattolico al ruolo di rappresentanza di tutti maturerà nella piena consapevolezza della diversa funzione e che il loro modo di rapportarsi ai mondi di provenienza non sarà né quello di credenti del dissenso (giacché non lo sono) né quello di portavoce passivi (che non vogliono essere), ma quello di Alcide de Gasperi che andò alla settimana sociale del 1945 non a confermare i cattolici nelle loro convinzioni, ma a ricordare che un conto è parlare in un ambito omogeneo, per darsi motivazioni in un’ “atmosfera ossigenata” di “alta montagna” dove si va per allenarsi, e un altro “fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione”. Ognuno dovrebbe scrivere ai diversi da sé, non ai propri simili, per dimostrare la capacità propria e dell’Ulivo di costruire sintesi nuove tra laici e cattolici: questa è la vera laicità, come rifiuto di ridurre le convinzioni a ricette ideologiche e come scelta di integrare le differenze. Ciò tanto più dovrebbe farlo chi si rifà a un’ispirazione religiosa, che dimostra la propria vitalità quando rinvia alla responsabilità personale e alla creatività di ciascuno. Beniamino Andreatta, quando criticava gli “atei devoti” e contrapponeva loro i “credenti laici”, sottolineando anche gli elementi comuni a certi filoni cattolici e ad alcune modalità spirituali delle chiese della Riforma, diceva: “Il fondamentalismo religioso tende a chiudersi nelle identità presenti. Quando manca lo Spirito, non rimane che cercare il senso dell’identità nelle esperienze primarie della nazione o della religione: ma quando lo Spirito alita, allora nella storia si cerca di costruire ordini che corrispondono alla dimensione dei problemi”. Andreatta è uno dei padri dell’Ulivo. Non a caso.
martedì, aprile 04, 2006
Lettera aperta di Franco Cardini.
LETTERA APERTA A TUTTI QUELLI CHE VORRANNO LEGGERLA
Cari Amici,
anzitutto, una buona notizia. A sessantacinque anni sonati da parecchi mesi, ho conservato intatta l’ingenua capacità d’indignarmi. Mi succede di rado, ma mi succede.
Credo che, al di là delle legittime e sacrosante simpatie o idiosincrasie politiche, certe indecorose faccende vadano denunziate con il più energico impegno.
Amici impegnati nella Chiesa fiorentina mi hanno fatto pervenire un indecoroso opuscolo di Forza Italia dal titolo I frutti e l’albero. Cinque anni di governo Berlusconi letti alla luce della dottrina sociale della Chiesa. A quanto pare, esso è pervenuto a parrocchie, comunità religiose, e gruppi e movimenti cattolici.
Forza Italia ha tutti i diritti di presentarsi come partito membro del Partito Popolare Europea, che raccoglie molti consensi tra i cattolici in Europa. E’ stato comunque strano tale connubio, dal momento che nel partito di Silvio Berlusconi esiste una forte area laicista: per quanto negli ultimi mesi – a parte le clamorose “conversioni” (!), se non proprio al cristianesimo, quanto meno al “cristianismo” – essa abbia piuttosto teso a mimetizzarsi, credo per considerazioni strumentali. Ma, in fondo, politique d’abord.
Tuttavia, a parte il tono mellifluo della prosa e dello stile impiegati (ma che idea hanno, certi politici, della Chiesa cattolica), quel che stupisce e indigna è che un partito politico si arroghi la pretesa di presentarsi come garante della dottrina sociale della Chiesa, specie dopo le limpide indicazioni dell’Enciclica Deus Caritas est che distingue con molta precisione i piani e i ruoli rispettivi della Chiesa e della politica.
Inoltre, a un partito che si dice apertamente liberale (e non ci risulta, nonostante gli sforzi compiuti da molti fra politici e giornalisti, anche autodefinentisi cattolici, che liberalismo e dottrina sociale della Chiesa siano troppo conciliabili fra loro), l’abito del paladino della Chiesa poco si addice. Non basta al riguardo ricordare i meriti a proposito del divorzio, dell’aborto e di una politica “in difesa della famiglia” su cui molto in verità vi sarebbe da eccepire. Non sono state coerenti con il magistero della Chiesa né con l’etica cattolica le leggi ad personam, i mancati anzi negati provvedimenti in favore dei carcerati (ardentemente ed esplicitamente chiesti da papa Giovanni Paolo II), il mancato sostegno alla cooperazione internazionale (siamo il fanalino di coda tra i paesi donatori OCSE), la riduzione del Fondo per lo Sminamento Umanitario, il tentativo di modificare la legge 185 e d’impedire il controllo parlamentare del commercio delle armi, la cancellazione del debito dei paesi poveri per soli 2,5 miliardi di euro al posto dei 6 previsti dalla legge 209/2000, soprattutto la collaborazione alle campagne militari in Afghanistan e in Iraq avviate entrambe sia in spirito di servile ossequio all’alleato-padrone statunitense, sia per trarne vantaggi a favore non del popolo italiano, bensì di alcune imprese impegnate in poco edificanti forme di business. A ciò si aggiunga la politica economica di un governo che ruba ai poveri per dare ai ricchi, che tiene basse le tasse dei ceti privilegiati, che non combatte se non in modo irrisorio l’evasione fiscale, che s’impegna in “grandi opere” destinate ad arricchire alcune imprese private mentre interi settori della vita produttiva e dell’organizzazione infrastrutturale italiana vanno a pezzi (si pensi alla rete ferroviaria).
Nell’operato del governo Berlusconi, a parte qualche apprezzabile eccezione – che però, in ultima analisi, ha finito con far troppo poco per distinguersi dalle pesanti responsabilità del leader – di cristiano non c’è stato un bel niente; e ancor meno di cattolico.
L’arroganza e l’ipocrisia del documento destinato a condizionare i voti cattolici debbono pertanto essere denunziate e respinte con ferma indignazione.
Firenze, 12.3.2006
Franco Cardini
“I cattolici del Centrodestra si sono agitati molto, e questo è un buon segno. Il segno che temono la nostra credibilità, la nostra intraprendenza, la nostra affidabilità. Ci hanno dato degli “utili idioti”, ci hanno invitato a guardarci intorno e a passare dall’altra parte. Io, con cortesia, rispedisco al mittente: si guardino intorno loro, guardino bene chi gli sta a fianco e soprattutto chi gli sta sopra. Pensino alle loro incoerenze sui temi della giustizia, della povertà, degli immigrati, delle carceri, della legalità, delle democrazia, della pace, della cooperazione internazionale. E anche sulla famiglia vorrei dire una cosa con nettezza: per difenderla e promuoverla non è sufficiente evocarla, occorre invece agire concretamente e con intelligenza. Cosa che questo governo, in questi cinque anni, non ha fatto a sufficienza. O non ha fatto per niente: si pensi, per fare solo un esempio, a tutte quelle famiglie di immigrati cui è stato impedito il ricongiungimento familiare”.
Nessuno in politica rappresenta la Chiesa
“Un’altra cosa vorrei ricordarla ai tanti “alfieri” del cattolicesimo presenti Centro-destra: nessuno, in politica, rappresenta la Chiesa. Né ci sono cristiani “più cristiani” a seconda dello schieramento di appartenenza. I cristiani – insegna il Concilio Vaticano II – fanno politica a titolo personale. Nella politica, che è sempre mediazione, ognuno porta i propri valori e la propria storia. Esattamente quanto abbiamo fatto con la nostra lettera: abbiamo raccontato chi siamo e ciò in cui crediamo. Anche perché i valori – quelli cristiani in particolare - vanno vissuti oltre che proclamati: è la testimonianza la misura della nostra credibilità”.
La nostra linea è il programma dell’Unione.
“Anche nel centrosinistra c’è chi si è agitato molto, e anche questo era prevedibile. Noi abbiamo invitato gli elettori a fidarsi dell’Unione e del suo programma elettorale. Proprio per difendere questo programma e le mediazioni che vi sono contenute, a partire da quelle sulle coppie di fatto, abbiamo voluto spendere la nostra credibilità personale.
Come mai si sono agitati proprio quelli - i soli – che il programma dell’Unione lo hanno sottoscritto “con riserva”?. Chi è “fuori linea”, noi o loro? Qualcuno ci ha accusato – senza tra l’altro aver letto la nostra lettera – di “eccesso di legittima difesa”. Al contrario, proprio il fatto che certi signori si scaldino al solo nominare il programma dell’Unione è il segno che certe cose andavano dette e ribadite. Il loro nervosismo, in fondo, è il buon segno della nostra presenza nel Centrosinistra”.
Le questioni sensibili si affrontano con maggioranze ampie
“Un’ultima considerazione riguarda il metodo con cui si affrontano certe questioni “eticamente sensibili”. Il bipolarismo politico non può tradursi in bipolarismo etico. Su questi temi – lo ha ben detto più volte Piero Fassino – ci vogliono leggi condivise, votate da maggioranze ampie quanto più è possibile. Tutti si mettano l’anima in pace: su queste questioni spetta al Parlamento il compito di mediare, senza concessioni ai laicismi da una parte e ai confessionalismi dall’altra”.
domenica, aprile 02, 2006
We miss you
Vi stia a cuore ciò che sta a cuore alla Chiesa: che molti uomini e donne del nostro tempo siano conquistati dal fascino di Cristo; che il suo Vangelo torni a brillare come luce di speranza per i poveri, i malati, gli affamati di giustizia; che le comunità cristiane siano sempre più vive, aperte, attraenti; che le nostre città siano ospitali e vivibili per tutti; che l’umanità possa seguire le vie della pace e della fraternità.
A voi laici spetta di testimoniare la fede mediante le virtù che vi sono specifiche: la fedeltà e la tenerezza in famiglia, la competenza nel lavoro, la tenacia nel servire il bene comune, la solidarietà nelle relazioni sociali, la creatività nell’intraprendere opere utili all’evangelizzazione e alla promozione umana.
John Paul II, we miss you.
sabato, aprile 01, 2006
Luisa Santolini
Riporto due passaggi che mi trovano particolarmente concorde.
SU VITA, FAMIGLIA ED EDUCAZIONE, NON C’E’ SPAZIO DI MEDIAZIONE
Protezione della vita, promozione della famiglia naturale, diritto dei genitori all’educazione dei figli, sono principi non confessionali ma iscritti nella stessa natura umana che attengono la promozione e la dignità della persona e non sono pertanto negoziabili. Lo ha detto Benedetto XVI ricevendo il 30 marzo scorso nell’Aula delle Benedizioni del Palazzo Apostolico i 500 partecipanti al convegno promosso dal Partito popolare europeo. Verso la fine del suo discorso pronunciato in lingua inglese, il Papa ha richiamato in forma sintetica ma precisa i punti che nel dibattito pubblico sono maggiormente a cuore alla Chiesa cattolica: ’protezione della vita in ogni suo stadio, dal primo momento del concepimento alla morte naturale; riconoscimento e promozione della naturale struttura della famiglia - fondata sull’unione di un uomo e una donna basata sul matrimonio - e sua difesa dai tentativi di equipararla giuridicamente a forme radicalmente differenti di unione che in realtà la danneggiano e la destabilizzano, oscurandone lo specifico carattere e il suo ruolo sociale irripetibile; la protezione del diritto dei genitori all’educazione dei figli’. Con questo richiamo ai valori etici primari, il Papa ha pure richiamato il contributo specifico cristiano alla costruzione dell’Europa.
Nel suo discorso ai parlamentari Ppe, Benedetto XVI ha ricordato che l’Europa è chiamata a guardare con ’fedeltà creativa alla eredità cristiana che ha dato un contributo particolare a formare l’identità di questo continente’. Un Europa a più voci può essere solo arricchita dai valori cristiani che aiutano a rispondere in maniera adeguata a sfide quali ’le richieste di una economia globalizzata, i cambiamenti demografici, assicurare la crescita e l’occupazione, la protezione alle famiglie, pari opportunità per l’educazione dei giovani e attenzione ai poveri’.
’Valorizzando le sue radici cristiane - ha aggiunto il Papa - l’Europa sarà capace di dare una sicura direzione alle scelte dei suoi cittadini e popoli, e ciò servirà a rafforzare la consapevolezza di far parte di una civiltà comune e alimenterà l’impegno di tutti per affrontare le sfide presenti e per un futuro migliore. Sostenere l’eredità cristiana - ha aggiunto Benedetto - può contribuire in modo significativo alla sconfitta di una cultura che oggi in Europa è molto diffusa, la quale relega al privato e alla sfera soggettiva le convizioni religiose di ognuno. Politiche edificate su questo fondamento - ha concluso il pontefice lungamente applaudito dai parlamentari - non solo ripudiano il ruolo pubblico del cristianesimo, ma più generalmente escludono l’impegno delle tradizioni religiose europee’. E occorre allora riconoscere che ’una certa intransigenza secolare mostra di essere essa stessa il nemico della tolleranza e di una visione secolare dello Stato e della società’.
PRIMA DI DISCUTERE DI PACS, RISPONDIAMO ALL’EMERGENZA FAMIGLIA
Intervenendo ad una conferenza stampa dell’Associazione famiglie numerose, Luisa Santolini ha condiviso le preoccupazioni dell’associazione che sono prima di tutto culturali: «basta sollevare fumo su Pacs ed unioni civili, se parlerà e se ne discuterà a tempo debito, prima però dobbiamo imparare, come Paese, come società civile, come politica, come istituzioni a ragionare sulle urgenze e sulle priorità. Abbiamo le famiglie – quelle vere – in fortissima difficoltà perché assediate da un fisco insaziabile e da una situazione economica a dir poco pesante… concentriamoci anzitutto su questo e mettiamo in cantiere delle soluzioni ragionevoli, sulle quali è necessario il contributo ti tutti. Per il resto si vedrà».
«Ed a proposito di interventi concreti, l’ANFN, come tutte le 42 associazioni che aderiscono al Forum, ha sottoscritto un Manifesto politico che avanza una serie di proposte, non tutte quelle possibili, ma quelle più urgenti ed irrinunciabili dal punto di vista della famiglia. In quel Manifesto ritroviamo gran parte delle proposte che vengono avanzate in questa sede. Per questo credo che da quel manifesto possiamo ripartire per costruire un cammino di impegno bipartisan che porti nella prossima legislatura - fin dai primi giorni della prossima legislatura – a dei risultati.
«E’ una proposta che giro agli amici che hanno fatto scelte di schieramento diverse dalle mie ma con i quali condividiamo molte delle idee di cui stiamo ora discutendo. Non posso però non notare che la politica si fa con la buona volontà degli individui, ma anche con l’impegno ed il sostegno dei partiti e delle coalizioni. Vedremo come si comporteranno, davanti ai temi che sollecitiamo, i partiti del centro sinistra, di certo l’Udc è per ora l’unica forza politica che ha sottoscritto il Manifesto delle associazioni familiari, non come singoli candidati ma come partito nel suo insieme e come struttura. Non è cosa da poco, anche perché ho la speranza che possa innescare una virtuosa gara di emulazione».