mercoledì, settembre 18, 2013
Hiroshi Yoshida
Early 20th Century painter and printmaker Hiroshi Yoshida is known in his native Japan as a Western style artist, and his work is very much in demand.
Having trained in Western style painting, he carried those influences with him when he moved into traditional Japanese woodblock printmaking, also taking inspiration in subjects from his travels in the U.S. and Europe, as well as India and other parts of the world.
Yoshida is considered one of the foremost proponents of the shin hanga (or “new prints”) style, but combined some of that style’s return to the collaborative printmaking of the ukiyo-e system, in which the artist worked with a carver and block printer, with the personal involvement more common to the sosaku hanga (“creative prints”) style emerging at the time.
His depictions of the Swiss Alps, U.S. national parks and related landmarks, as well as scenes in Japan and elsewhere, resonate with superb drawing and beautifully chosen color.
In addition to returning to favorite themes, like scenes of landscape reflected in water, sailing boats, mountains and clouds, Yoshida often would print the same block in different color schemes, producing dramatically different atmospheric and emotional effects.
(See also my previous post on Hiroshi Yoshida.)
domenica, settembre 01, 2013
Quando la poesia inizia dalla gioia. Ricordo di Seamus Heaney »
Quando la poesia inizia dalla gioia. Ricordo di Seamus Heaney »:
Enrico Reggiani (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano), L’Osservatore Romano, a. 153, n. 199, domenica 1 settembre 2013, p. 5
Un “Colosso della Letteratura”: lascia un’ “enorme eredità “ che “continuerà a risplendere nei secoli a venire”. Uno straordinario poeta dotato di un “profondo rispetto per ciò che è umano”: virtù rara, questa, che “ha conferito alla sua opera un’irripetibile capacità di comunicare il rifiuto di ogni violenza, ingiustizia e pregiudizio e di spronare noi tutti ad esprimere il lato migliore della nostra natura umana”.
Così l’Irlanda tutta – senza divisioni di sorta – ha accolto, sgomenta e ferita, la notizia della morte a 74 anni di Seamus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura 1995 (che egli definì il suo “Stockholm business”). Indiscusso il suo prestigio internazionale: il poeta americano Robert Lowell (1917-1977) lo definì “il più grande poeta irlandese dopo Yeats”; da un suo verso memorabile il Presidente Clinton plasmò il titolo di un libro sulla sua visione del ruolo degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo: hope and history rhyme (trad. libera: “quando storia rima con speranza”).
Il grande successo editoriale della sua opera poetica, che in tempi recenti pare raggiungesse i due-terzi delle vendite di libri di poesia nel Regno Unito, non ne mutò la natura umile, generosa e disponibile, che i lettori italiani hanno potuto apprezzare in numerose occasioni (compreso chi scrive, in Italia e altrove): non gli instillò il virus letale della presuntuosa e pretenziosa autoreferenzialità individualistica (assai diffuso presso i protagonisti della scena letteraria contemporanea, nostrana e altrui) e non gli impedì di continuare ad essere “la voce della sua comunità, un uomo del popolo che conosceva bene la sua comunità e che ne rifletteva la storia e la ricchezza culturale”. Riconoscente per ogni minimo anfratto della propria vicenda personale e nazionale, nel dicembre 2011 sentì il dovere di compiere il gesto simbolico di provvedere personalmente a recapitare il proprio ingente archivio di note, appunti e bozze alla National Library of Ireland (rinunciando a quanto avrebbe guadagnato da una loro vendita all’asta).
Nato il 13 aprile 1939 nel paesaggio rurale della contea di Derry (Irlanda del Nord), Seamus si trasferì non lontano da Dublino nell’annus horribilis 1972 (quello dei Troubles e della tragica Bloody Sunday), dove iniziò a lavorare come giornalista freelance e a “mettere la pratica della poesia al centro della mia vita. Fu una sorta di verifica”. Se per amor di sintesi (celebrativa, ma con una forte partecipazione affettiva) si dovesse indicare una cifra simbolica della sua vita, del suo pensiero e della sua opera letteraria (in larga misura tradotta in italiano),…
[il resto dell'articolo è reperibile in questo pdf scaricabile a p. 5. © Riproduzione riservata].
Enrico Reggiani (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano), L’Osservatore Romano, a. 153, n. 199, domenica 1 settembre 2013, p. 5
Un “Colosso della Letteratura”: lascia un’ “enorme eredità “ che “continuerà a risplendere nei secoli a venire”. Uno straordinario poeta dotato di un “profondo rispetto per ciò che è umano”: virtù rara, questa, che “ha conferito alla sua opera un’irripetibile capacità di comunicare il rifiuto di ogni violenza, ingiustizia e pregiudizio e di spronare noi tutti ad esprimere il lato migliore della nostra natura umana”.
Così l’Irlanda tutta – senza divisioni di sorta – ha accolto, sgomenta e ferita, la notizia della morte a 74 anni di Seamus Heaney, Premio Nobel per la Letteratura 1995 (che egli definì il suo “Stockholm business”). Indiscusso il suo prestigio internazionale: il poeta americano Robert Lowell (1917-1977) lo definì “il più grande poeta irlandese dopo Yeats”; da un suo verso memorabile il Presidente Clinton plasmò il titolo di un libro sulla sua visione del ruolo degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo: hope and history rhyme (trad. libera: “quando storia rima con speranza”).
Il grande successo editoriale della sua opera poetica, che in tempi recenti pare raggiungesse i due-terzi delle vendite di libri di poesia nel Regno Unito, non ne mutò la natura umile, generosa e disponibile, che i lettori italiani hanno potuto apprezzare in numerose occasioni (compreso chi scrive, in Italia e altrove): non gli instillò il virus letale della presuntuosa e pretenziosa autoreferenzialità individualistica (assai diffuso presso i protagonisti della scena letteraria contemporanea, nostrana e altrui) e non gli impedì di continuare ad essere “la voce della sua comunità, un uomo del popolo che conosceva bene la sua comunità e che ne rifletteva la storia e la ricchezza culturale”. Riconoscente per ogni minimo anfratto della propria vicenda personale e nazionale, nel dicembre 2011 sentì il dovere di compiere il gesto simbolico di provvedere personalmente a recapitare il proprio ingente archivio di note, appunti e bozze alla National Library of Ireland (rinunciando a quanto avrebbe guadagnato da una loro vendita all’asta).
Nato il 13 aprile 1939 nel paesaggio rurale della contea di Derry (Irlanda del Nord), Seamus si trasferì non lontano da Dublino nell’annus horribilis 1972 (quello dei Troubles e della tragica Bloody Sunday), dove iniziò a lavorare come giornalista freelance e a “mettere la pratica della poesia al centro della mia vita. Fu una sorta di verifica”. Se per amor di sintesi (celebrativa, ma con una forte partecipazione affettiva) si dovesse indicare una cifra simbolica della sua vita, del suo pensiero e della sua opera letteraria (in larga misura tradotta in italiano),…
[il resto dell'articolo è reperibile in questo pdf scaricabile a p. 5. © Riproduzione riservata].
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