Un poeta, in nome di tutti i poeti — che per umano e divino
privilegio sono i più vicini alla fanciullezza, perché non v’è fanciullo che
non sia poeta, né poeta che non conservi un’anima dolce e mite da fanciullo —
ha detto di recente che la più terribile, l’inespiabile colpa frutto di questa
guerra è lo scempio dell’infanzia, il martirio dell’innocenza.
Ed è vero. Noi li abbiamo visti, durante le tremende
incursioni, i nostri bambini stringersi terrorizzati al petto dei grandi, con
una invocazione suprema negli occhi smarriti: un’invocazione che era già
condanna per chi aveva scatenato il flagello. Anche quando la morte non li
ghermiva, quei piccoli cuori ne uscivano così sgomenti da restarne intimamente
feriti. Ci è toccato, proprio in questi giorni, assistere — in una corsia
d’ospedale — all’agonia lenta e disumana di una bimba ridotta a pelle e ossa.
Il cuore, malato per i troppi spaventi, le batteva forte in gola; si fermava,
riprendeva la corsa fino a sgranarle gli occhi — due fiamme — in un visino
terreo, dove già soffiava l’alito della morte.
A quella, a tutte le creaturine vittime dell’odio degli
uomini, abbiamo pensato giorni fa, quando la piccola Luciana Sisti è caduta
sotto il tallone del proprio genitore. Padre? O belva in sembianze umane? Belva?
E perché riabilitare così la specie animale, se la belva difende i suoi piccoli
fino a immolarsi?
La cronaca è un rigurgito d’innominabili delitti contro
l’infanzia. L’uomo, che ha perduto ogni senso di bontà e pudore, sembra volersi
vendicare di se stesso, della propria follia, accanendosi contro chi ancora gli
parla di bontà e d’innocenza. Contro i teneri virgulti della sua stessa carne,
che gli ricordano un tempo beato, quando i cavalieri erano prodi perché
conoscevano e facevano rispettare le leggi dell’onore e del focolare domestico,
dove accanto al talamo dondolava la culla avita, candida come un altare.
La piccola Luciana Sisti era di carattere dolce e
affettuoso. Abbandonata dalla madre, aspettava che suo padre rincasasse per
sentire un po’ di tepore, il calore di casa. Tremava, forse, perché temeva
l’orco della favola — che nessuno sapeva più raccontarle. Così gli andò
incontro fiduciosa, senza immaginare che l’orco si fosse rifugiato proprio in
quel petto villoso, in quelle zanne rapaci.
«Senza mandare un piccolo grido, la bambina fu sbattuta a
terra e colpita ciecamente a calci e a pugni. Ben presto, dal viso
dell’innocente il sangue sgorgò copioso. Il padre, alla vista del sangue,
infierì con maggior furore sul corpicino…».
Assisteva al martirio, forse complice, un’altra donna, e non è
difficile intuire chi fosse.
È un brano di cronaca, disadorna cronaca, di un atto
abominevole che — Dio non voglia! — si ripeterà, finché l’umanità non torni sui
propri passi, non risalga l’abisso in cui è caduta, non ricostituisca atomo per
atomo la cellula della famiglia, disintegrata da questa ventata di follia che
minaccia di abbattere gli ultimi pilastri del ponte.
Dall’alto della Croce, con gli estremi aneliti del suo
passaggio terreno, una voce eterna risuona, a esaltazione degli innocenti e
condanna degli orbi: «In verità vi dico: se non vi farete umili come questi
fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli!»
Un relitto di tabacco caduto tra i relitti di pellicole ha
provocato una strage: ventinove creature umane trasformate in torce viventi.
Per pochi, terribili minuti hanno continuato a consumarsi, a bruciare tutto di
sé: venti, trenta, quarant'anni di vita cancellati in un attimo, con le loro
speranze e le loro delusioni, le gioie, gli affetti, i dolori, le aspirazioni,
i sogni — tutti bruciati vivi.
Quando la casa era ormai un rogo, e orribili ustioni
straziavano le povere carni, qualcuno ha tentato di salvarsi aggrappandosi
disperatamente alle grondaie, ai cornicioni, ai davanzali. Ma è precipitato
sulla strada, in fiamme.
Scene terrificanti — che la mente umana non riesce a
contenere, tanto la realtà supera la fantasia — si sono svolte attorno alla
casa maledetta, nell’obitorio dove, sul freddo marmo, erano allineate le salme
carbonizzate, e negli ospedali dove venivano accolti i superstiti.
Alle grida di terrore, al panico, agli atti di eroismo, alla
disperazione, è subentrato il silenzio. Ma un silenzio pesante come un incubo.
Qualcuno ha parlato di supremo avvertimento.
Il giorno luminoso dell’Ascensione è trascorso quanto mai
triste. Solo una pausa di respiro: quando le campane, da San Pietro a San
Giovanni, hanno suonato a distesa per annunciare al mondo che la Chiesa di
Cristo ha un nuovo Santo.
Poi, alla sera, il popolo è salito sui colli, sulle
terrazze, alle finestre alte, per cogliere il riflesso di una certezza eterna:
nella visione incomparabile della cupola michelangiolesca illuminata a giorno.
Avvertimento? Ma perché pochi hanno pagato per tutti, se
tutti siamo colpevoli d’aver ridotto la terra a un immenso mattatoio, dove
perfino gli agnelli aspirano a diventar lupi come i lupi?
Domande cominciano a trovare, qua e là, una risposta
precisa, inesorabile. Eppure, consolatrice.
Intanto, dalle salme straziate si è levato un monito che i
superstiti hanno raccolto, affratellati — come non accadeva da tempo
immemorabile — da un dolore comune, acerbo. Dal Sommo Pontefice al più umile
cittadino, enti, istituti, associazioni e privati si stringono in nobile gara
intorno alle famiglie delle vittime. Vittime benedette, che hanno saputo
ridestare sentimenti che parevano inariditi nei cuori devastati dall’odio. È
come una schiarita di cielo sulle coltri funebri, un respiro ampio di
solidarietà umana che avvolge chi soffre.
È la pietas romana che rifiorisce, raccogliendo
frutti d’amore per infiorare le tombe precoci di chi ci ha soltanto preceduto. Perché
noi non crediamo alla morte. Noi crediamo alla Vita.
Dal 1948, per oltre vent’anni, L’Osservatore della
Domenica ospitò la rubrica “L’Appuntamento della Carità”, dedicata alla
raccolta di aiuti per persone in difficoltà.
Nel dare notizia dell’improvvisa scomparsa del curatore
della rubrica, avvenuta sessant’anni fa, il 15 aprile 1965, il direttore Enrico
Zuppi rivelò ai lettori che dietro lo pseudonimo “Benigno” si celava il poeta
Auro d’Alba. Un nome che, nella discrezione dell’anonimato, aveva fatto della
carità una missione silenziosa ma concreta.
La rubrica era nata quasi per caso quando a Benigno, che già
scriveva meditazioni religiose per il giornale, fu chiesto di presentare un
caso particolarmente grave. In pochi giorni arrivarono, inaspettate, numerose
offerte da parte di lettori colpiti dalla delicatezza delle sue parole. Da quel
momento, l’appuntamento divenne fisso.
Erano gli anni difficili, quelli del dopoguerra. Benigno si
occupava quotidianamente di selezionare fasci di lettere, verificarne l’autenticità,
valutare il reale bisogno, e infine proporre ai lettori i casi più urgenti.
L’assistenza non era soltanto economica: tramite la mediazione del giornale
venivano distribuiti viveri, medicinali, indumenti, apparecchi ortopedici,
protesi, persino mezzi di locomozione, sia ad individui che ad istituzioni.
Ma chi era Auro d’Alba? Nato a Roma nel 1888 da una famiglia
di origini abruzzesi, pubblicò a soli 17 anni la sua prima raccolta di versi, Lumi
d’argento, firmata con il suo vero nome, Umberto Bottone. Erano
componimenti di ispirazione crepuscolare, recensiti con interesse dall’amico
Sergio Corazzini.
Negli anni Dieci fu coinvolto da Filippo Tommaso Marinetti
nell’esperienza futurista, pubblicando anche su Lacerba di Papini e
Soffici, per poi avvicinarsi all’avanguardismo della rivista napoletana La
Diana.
Militante politico, nel 1916 fu arrestato insieme ai futuristi
Marinetti, Balla, Depero, Cangiullo e Jannelliin occasione di una manifestazione interventista. Coerente con le sue
convinzioni, partecipò alla Prima guerra mondiale, combattendo tra i
bersaglieri. L’esperienza al fronte gli valse una medaglia d’argento e una
croce di guerra, ma anche materiale per i racconti e le poesie degli anni
immediatamente successivi.
In quello stesso periodo scrisse versi per l’infanzia
destinati al Giornalino della Domenica di Vamba, l’autore di Gian
Burrasca.
Fascista della prima ora, fu responsabile dell’ufficio
stampa e storico della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il
culmine della sua notorietà letteraria coincise con una tragedia che lo riportò
a una profonda fede cattolica.
Nel 1930 pubblicò Nostra famiglia, romanzo
parzialmente autobiografico, in cui immaginava la famiglia ideale del nuovo
regime. Ma pochi mesi dopo la pubblicazione, la figlia diciottenne Ofelia, si
tolse la vita nella casa di famiglia. La tragedia cambiò radicalmente la sua
esistenza e commosse il mondo letterario italiano.
In un volume commemorativo uscito un anno dopo, troviamo gli
omaggi ad Ofelia d’Alba di Salvatore Quasimodo, Grazia Deledda, Giuseppe
Ungaretti, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi e molte altre firme
illustri dell’epoca.
La produzione poetica di Auro d’Alba immediatamente
successiva alla tragedia è tutta dedicata alla figlia perduta.
Negli anni seguenti, Auro d’Alba collaborò con Il
Frontespizio, prestigiosa rivista fiorentina di ispirazione cattolica e
punto di riferimento della cultura letteraria del tempo.
Affiancò nuovamente Marinetti durante la guerra d’Etiopia,
distinguendosi in operazioni militari che gli valsero una medaglia d’argento al
valor militare e due croci al merito di guerra. In quegli anni fu anche autore
di testi di canzoni militari, tra cui Battaglioni M e Cantate di
legionari.
Dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale partecipò in
ruoli legati alla propaganda, e segnato dalla perdita della moglie, Auro d’Alba
tornò alla scrittura. Scelse spesso però di firmare i suoi contributi su
riviste con vari pseudonimi, forse nel tentativo di prendere le distanze da un
passato politico ormai compromesso.
Collaborò alla terza pagina de Il Popolo, quotidiano
della Democrazia Cristiana, firmando con lo pseudonimo Benigno Assunti ritratti
e profili letterari tratti dai suoi ricordi. Questi testi confluiranno più
tardi nel volume di memorie Formato tessera (1956).
Oltre alla critica letteraria, continuò a pubblicare poesie
e meditazioni, specialmente sulla rivista fiorentina Città di Vita e su L’Osservatore
della Domenica. In quest’ultimo, curò come Benigno la rubrica “Voli”. Inizialmente
solo letteraria, divenne in breve “L’Appuntamento della Carità”, dove i casi bisognosi
venivano spesso introdotti da brevi, intense riflessioni spirituali.
Benigno dava voce agli indigenti con profonda delicatezza,
lasciando molte volte che fossero le loro stesse parole a raccontare il
bisogno. Presentava i casi attraverso le lettere ricevute, preservandone
l’autenticità e il tono umano. Era come se chi scriveva trovasse finalmente uno
spazio d’ascolto, una mano tesa attraverso la pagina.
Settimanalmente, Benigno offriva ai lettori dell’Osservatore
della Domenica l’occasione concreta di compiere un gesto di carità. Quando
la generosità non bastava a soddisfare il bisogno, interveniva personalmente,
colmando le mancanze con discrezione. La sua penna dava voce al dolore, ma
anche risposta silenziosa, spesso tangibile, alla sofferenza altrui.
Una delle prime lettere presentate da Benigno non proviene
da un richiedente aiuto ma da un benefattore. È il gennaio del 1948 e a
scrivere è un reduce dal campo di concentramento di Mauthausen. L’uomo chiede
che la sua offerta, inviata in forma anonima, sia destinata attraverso il
giornale a un tedesco in difficoltà, come segno di riconciliazione.
“In più del perdono voglio, in questo Natale, aiutare una
persona forse che mi ha fatto del male,
ma purtroppo è stata vittima di inganno. Le parole del Papa sono sempre
accorate; possano ascoltarlo di più, e guadagnare così, coll’amore e non coll’odio
questa pace alla quale il mondo aspira”, scrive il lettore.
Benigno riconosce in questo gesto non solo un atto di
generosità ma l’espressione di una santità autentica.
In un commosso articolo di commiato, sessant’anni fa, il direttore
Enrico Zuppi ricordava che Auro d’Alba, avendo dovuto affrontare tempeste
dolorose, “trovava un particolare conforto nel fare del bene agli altri, con
inesausta carità”.
Il poeta, in una delle sue meditazioni introduttive a
L’Appuntamento della carità, scriveva: “Il dolore ci rende comprensivi,
caritatevoli, ci è più facile tendere la mano al fratello, aprirgli le braccia,
ascoltargli il cuore che batte col nostro; infine spartire il pane e la pena
con lui. Quante volte invece mi sono accorto che la gioia è egoista, è crudele,
come spesso è la giovinezza, che ha tutta la vita dinanzi e non vuol saperne di
soffrire. E sapete perché è egoista? Perché vorrebbe non finir mai; è crudele
perché l’altrui tristezza fa ombra, le dà noia, la disturba, la richiama a un
dovere che preferisce trascurare, ignorare, disdegnare forse … E dimentichiamo
la più alta verità della nostra Fede: «Un bicchiere d’acqua dato con amore è
meritevole di vita eterna».”
Enrico Zuppi, nel suo articolo celebrativo, aggiungeva: “Non
lo vedremo più tra noi, con quel suo sorriso apparentemente scettico, di uomo
di mondo, col quale credeva di poter difendere la sua immensa bontà, il suo
altruismo, la sua squisita sensibilità.”
L’Appuntamento della Carità proseguì anche dopo la
morte di Auro d’Alba, grazie all’impegno della seconda moglie, Maria Antonietta
Pozzi, sua collaboratrice nella vita e nell’opera.
Auro d’Alba è oggi un autore dimenticato. I suoi libri
sopravvivono tra le pagine ingiallite di vecchie edizioni, reperibili solo nei
negozi di antiquariato o nelle biblioteche. Il suo nome, un tempo noto, è stato
oscurato anche da un legame troppo evidente con il Ventennio fascista, che ne
ha segnato il destino culturale più di quanto abbia segnato la sua voce
interiore. Eppure, l’invisibilità che scelse negli ultimi venti anni della sua
vita fu tutt’altro che un rifugio imposto dalla storia. Era, piuttosto, una
forma di pudore, di volontaria discrezione. Una rinuncia al riconoscimento
personale per lasciare spazio all’urgenza dell’altro, al dolore che chiedeva
ascolto. Non si nascose per paura ma per promuovere la carità silenziosa.
Dietro Benigno, più che un autore in ritirata, c’era un uomo che aveva imparato
a scrivere non più di sé, ma per gli altri.
«Padre, ricordaci che siamo polvere, e polvere ritorneremo. Perché,
vedi, nonostante l’età, i guasti, le cadute, le ricadute, e il cammino duro,
siamo ancora tanto deboli, e da un momento all’altro, a una svolta, può
accadere che il Maligno ci tenti.»
La basilica sembrava emersa da un lago (o che fosse stata
raggiunta dallo straripante fiume che, per tre volte quell’anno, aveva invaso i
quartieri bassi?) Una luce d’acque diffuse saliva fino ai matronei, fino al
soffitto, per ricadere estrosa sul limitare delle cappelle, dove i fedeli
prostrati ricordano che tutto è vanità, che la vita è dura con la Croce, ma
senza la Croce è insopportabile: e vengono ad abbracciarla.
Da poco riaperta al culto quotidiano, la chiesa era piena di
meraviglia: e di questa meraviglia dei
marmi, degli archi, dei chiostri, delle colonne, degli altari, dei tabernacoli partecipavano
gli occhi dei fedeli, che tornavano a lei dopo anni di lontananza, fuorviati
dal turbine. In verità, se ci guardavamo negli occhi, ci riconoscevamo appena.
Ci pareva, sì, di esserci incontrati in un mondo scomparso, ma certe
incancellabili orme le avevamo pur lasciate sulle strade percorse. E i volti
stanchi, le anime stordite, s’illuminavano ancora di quel sole. Perché si può
ben dire che sia sempre lo stesso sole. Ma non è vero: è la nostra giornata,
sono le nostre opere, i nostri anni, le diverse svolte della vita che ne
rifrangono i raggi. E il sole dell’infanzia non è più quello della giovinezza,
e questo non somiglia al sole della maturità se non attraverso i rimpianti, i
lutti, le nostalgie: tutto il bagaglio che non vorremmo, ma siamo obbligati a
portare. Il bagaglio che altera i segni del viso, la linea delle membra, il
passo, lo sguardo, la voce.
Anche la basilica — la nostra basilica — aveva cambiato
volto. Ricordavamo un volto rugoso, ed ora ci restituiva un luminoso profilo. Accogliente,
l’ambone ci apriva le braccia come per contenerci tutti e portarci ai piedi di
Colui che ha sì grandi braccia da condensare nel petto piagato tutto il dolore
del mondo.
E sentirsi con Lui volontari della Croce, candidati al
perpetuo eroismo. È proprio questa l’epoca più adatta, il clima propizio:
quando l’aria stessa è corrotta, fioriscono, prodigiosi nel silenzio e
nell’ombra, i gigli della santità.
«La cattolicità è una nota essenziale della vera Chiesa,
e nessuno può dirsi partecipe o devoto alla Chiesa se non partecipa e non è
devoto alla sua universalità, cioè al tuo radicarsi e fiorire dappertutto sulla
terra. Quei due laici, come il sacerdote loro guida, non trovavano riposo, al
solo pensiero che milioni di uomini non conoscevano ancora Cristo. Beati quei
tre! Le loro ossa riposano ora insieme, custodite nel reliquiario naturale
della collina verdeggiante che s’innalza dolcemente dal fiume dei Mohawks,
fluente placido e dolce.»
Il brano è tratto dal
radiomessaggio pontificio per i protomartiri del Nord America, e lo riportiamo
qui per tre motivi di alta spiritualità: 1.) L’universalità della Chiesa ha un
respiro così vasto che tutte le umane ideologie appaiono meschine al suo
confronto. 2.) Il richiamo alla vera essenza della cristianità, che è quella di
non avere pace, se davvero fedeli alla Croce, finché sulla terra vi sia
un’anima che non conosce Cristo. 3.) Il profumo di poesia che emana da queste
parole apostoliche, espresse con il tono delle più alate Scritture del Libro
eterno.
Giorno certamente verrà in cui le pagine più belle e
ispirate dei successori di Pietro saranno raccolte e andranno ad arricchire la
serie che compone quel libro senza tempo.
* *
Durante la nostra giornata affannosa, ci capita spesso di
ricordare i discepoli di Emmaus e il cammino percorso insieme, mentre Gesù —
viandante sconosciuto — spiegava loro le Scritture: «E come furono vicini al
villaggio dove si recavano, Egli fece finta di andare oltre.
Ma essi lo trattennero dicendo: “Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno
è ormai al tramonto.” Ed entrò con loro. E avvenne che, messosi a tavola, prese
il pane, lo benedisse e lo spezzò. Allora si aprirono loro gli occhi, e lo
riconobbero.»
Lo riconobbero da quel gesto: era il Maestro. Colui che,
nell’ultima Cena, prima del Sacrificio, spezzò il pane e alzò il calice,
istituendo il sacramento ineffabile dell’Eucaristia. Affinché, tornando Egli al
Padre, l’uomo che tanto amò, per cui diede la vita non si sentisse più solo
nelle tentazioni e nelle sofferenze.
Anche a noi accade, ingannati dalle apparenze, di sentirci
soli. Anche a noi capita di gridare nel buio: «Signore, rimani con noi, si fa
sera!»
E non pensiamo che i discepoli di Emmaus ne avessero meno
diritto di noi, loro che avevano conosciuto personalmente Gesù e ascoltato le
sue parole.
Noi non abbiamo soltanto la sua Parola, eredità che non
passa, ma il suo stesso Vicario, che dalla Cattedra di Pietro parla a tutti
coloro che hanno orecchie per udire e pupille per vedere.
Beati coloro che, al di sopra della rissa e del fango che
sale, sanno ascoltarlo.
Parlaci, parlaci ancora e sempre, o Padre nostro! Il giorno
è già declinato, e non sappiamo se il sole sorgerà ancora sul mondo.
* *
Questo mondo è superbo. Il mondo si inorgoglisce sempre più,
ma di che cosa, se non della propria miseria e iniquità?
Il mondo sente che, fuori dalla rete di Pietro, vi è solo
buio e perdizione, ma non vuole arrendersi. Resiste, come se doversi umiliare
alla presenza di un suo pari fosse un'offesa. Come se Dio fosse un altro uomo
già perduto, già condannato. Il mondo si sottomette al giogo duro dell’amor
proprio, che già conosce, e respinge quello “soave” dell’umiltà, che gli è
ignoto.
Ebbene, dobbiamo essere noi, gli addomesticati dal giogo
soave, a ripetere al tuo erede, o Signore, le parole di Simone, quando i
discepoli stavano per abbandonare Gesù, tentati di scuotere il giogo. Ci voleva
Pietro, soltanto Pietro, a pronunciarle con la sua rude schiettezza marinara. E
noi le ripeteremo a te, Padre nostro, che sei in terra per il pascolo
benedetto: «Da chi andremo, se lasciassimo te, che possiedi parole di vita
eterna?»
Ogni giorno che passa è come se facesse notte prima della
sera. Le notti sono in verità troppo lunghe, e talvolta ci opprime il cuore il
terrore di respirare nelle tenebre per tutta la vita. Non potrebbe forse il
Signore vendicarsi così del male che gli uomini fanno? Non più diluvio , promise
a Noè, ma non parlò della tenebra. Egli potrebbe sempre negarci la luce del
sole. Non è tenebra, forse, questa che acceca l’uomo e lo spinge ad uccidere il
fratello? Non è tenebra quella che ci fa dimenticare le parole terribili: «Vendicherò
la vita dell’uomo sopra l’uomo e sopra suo fratello»?
Diluvio no, perché la parola di Dio è una e non mente. Ma
tenebra sì. E perciò tu ci parli, Padre nostro che sei in terra, tu, Vicario di
Cristo, tu, successore di Pietro. La discendenza ti ispira le stesse parole di
Vita, ti suggerisce gli stessi ammonimenti del Cristo, come se fosse ancora tra
noi. Ma a molti dei suoi discendenti, fedeli, che pronunciarono soltanto parole
di Vita, gli uomini hanno preparato il patibolo. E contro la Chiesa fondata dal
Gran Re — il Primogenito di Dio — si accumulano tutte le nefandezze, occulte e
palesi, perché il mondo, che ha odiato il Cristo e odia noi, sa che la tenebra
della menzogna non prevarrà sulla luce, che è Verità.
Padre, rimani con noi, parlaci sempre, parlaci ancora! Si fa
sera, e il giorno è già declinato.
Bisogna amare il corpo, ma solo come tempio dell’anima;
detestarlo come nido di concupiscenza. L’egoismo dell’uomo è frutto della sua
tirannia, dei suoi istinti bestiali.
Il grido dell’Apostolo risuona alto e angoscioso: «Chi mi
libererà da questo corpo di morte?»
* *
«Io sono la Via, la Verità, la Vita» — disse il divino
Maestro a Tommaso nell’Ultima Cena, che fu pure la prima Messa, celebrata dal
Primo Sacerdote con il proprio imminente Sacrificio. E perciò è inutile
cercarne altre: non c’è che una Via, una Verità, una Vita. Le altre — quale
più, quale meno — sono tutte apparenze, ombre, illusioni, sentieri che non
conducono a Lui, dottrine che non si rifanno alla maggiore, tralci della vite
che non si ricongiungono al tronco.
Ecco perché cercare altrove è vano, quando non è pericoloso.
Un mezzo sicuro per non essere travolti dal fango delle
strade, che è, purtroppo, nella natura umana, è guardare insistentemente
l’azzurro e le stelle.
* *
C’è un canto, il primo canto del primo uomo, che suona come suprema
lode alla prima donna, per tutte le donne, ed è d’una altezza lirica sublime,
perché getta le basi dell’umana convivenza.
Quando il supremo Fattore trasse dal profondo sopore di
Adamo il bellissimo corpo della sua compagna, l’uomo, stupefatto, esclamò: «Questa
è la virago, osso delle mie ossa e carne della mia carne. Perciò l’uomo lascerà
suo padre e sua madre, e aderirà alla sua moglie, e saranno due in una sola
carne.»
Per quanto anche dell’unione l’uomo abbia fatto mezzo di
concupiscenza e oggetto di sterile piacere, non c’è poema che possa eguagliare
l’incontro e la mescolanza di due anime e di due corpi.
È sempre poesia altissima — e lo sarà finché l’odio non
distrugga l’umanità a colpi di bomba atomica — incontrarsi sotto la bianca luna,
in due esseri che si cercano perché si amano.
È l’esaltazione dell’atto che chiama la creatura a
partecipare della creazione; è il complemento necessario alla divina sinfonia
che sale dalle cose create; è il suggello alla fatica dell’Operaio, tanto
innamorato del proprio capolavoro da alitargli sul volto il suo stesso respiro.
* *
Diffida della filosofia tributaria in genere, cioè di quella
che tende a sganciarsi dalla filosofia madre. Studia, specula quanto vuoi, ma a
un dato momento nulla potrai risolvere e placare in te senza un atto di fede.
* *
A chi osserva che parlare del Creatore, in fondo, è trattare
sempre uno stesso tema, rispondiamo che è vero, ma che si tratta di un tema inesauribile.
Parlarne dunque,e ascoltare per amore,
significa “acquistare” sempre, perché l’uomo, creatura imperfetta, prende dalla
creatura amata.
Solo Iddio, che è perfezione, arricchisce l’oggetto del suo
amore.
I due personaggi stanno bene insieme perché, in fondo, «se
ne lavano le mani». Ma Don Abbondio, qualche rischio lo affronta: l’ira di
Renzo, che doveva attendersi scoppiasse un brutto giorno, quando il giovanotto
si fosse accorto d’essere stato gabbato. L’altro invece — Pilato — ha qualcosa
di ripugnante, che ben giustifica il perpetuarsi del suo gesto nel tempo,
volgarizzato a eterna sua dannazione.
Il cattivo prete, dinanzi a Federico che lo tempesta di
colpi — come soltanto i santi sanno fare — si scorda di essere al cospetto di
un principe della Chiesa ed esplode in quelle parole che rivelano tutta la sua
pavida natura: «Gli è perché le ho viste io quelle facce!»
Il dramma di quell’anima è tutto qui. Don Abbondio, badate,
è un povero curato campagnolo che ama, magari, il buon bicchiere, il letto
caldo e il caminetto rovente: faccia piena, passo cauto, animo mite. Lontano,
lontanissimo dalla santità — d’accordo, tanto che non riesce a comprendere
Federico — ma, alla fin fine, senza quella disavventura, sarebbe riuscito un
prete mediocre (accidenti ai signori e ai loro capricci!). Tanto è umano lo
sfogo di Don Abbondio, che Federico è quasi costretto a far macchina indietro e
a domandarsi: «Già, cosa avrei fatto io al suo posto?»
Porsi, all’incirca, questo interrogativo è — se non
giustificare — compatire l’altro. Pilato sa di aver a che fare col Figlio di
Dio, e lo baratta con Barabba. Scade di fronte a sé stesso e al popolo,
nell’investitura ricevuta da Cesare e da Dio. Per paura di Cesare, condanna a
morte il suo Dio. Tanto è sicuro della divinità del Cristo, che sul patibolo
scrive: «Gesù di Nazaret, Re dei Giudei», e resiste ai gran sacerdoti che
protestano: «Devi scrivere: Costui ha detto: “sono re dei Giudei”»
Solo allora Pilato ritorna autoritario e risponde: «Quanto
ho scritto, ho scritto», quasi a farsi perdonare il sangue versato, il
consentito delitto, l’abominevole assassinio che l’inchioderà per sempre alla
gogna, insieme ai tanti — ai troppi — seguaci, con un martello ben più pesante
di quello della Croce.
Una mano ha fermato a mezzo volo
la Vittoria, che registra sullo scudo le gesta compiute contro i Daci; l’altra
è mozza: presente il crollo definitivo. Pensi al gesto disperato di Sansone,
giudice d’Israele, che volle seppellirsi coi nemici, tradito dalla sua
concubina filistea.
Sorta la prima in un’epoca di fede e di martirio, già
splende nel sole eterno della Croce;
l’altra è spezzata dalla cieca furia del tempo, che tutto macera, abbatte,
distrugge.
L’una già respira nella Vita; l’altra è sconquassata dalla
mano fredda della Morte.
Due civiltà? Forse due modi di vita: con Dio o contro Dio.
«Tutto si fece per mezzo di Lui e senza di Lui nulla fu
fatto. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende
nelle tenebre, ma le tenebre non la ricevettero.»
Cominciò da allora il lavorìo lento e inesorabile del tempo:
da quando, cioè, Iddio disse ad Adamo: «La terra è maledetta per causa tua. Col
sudore della tua fronte mangerai il pane
finché non ritornerai polvere.»
Gli uomini eressero templi agli dèi falsi e bugiardi, e il
tempo li azzannò, e l’odio li corrose dalle fondamenta.
Le colonne si ammucchiarono fino alle più alte vette, poi
sprofondarono nell’abisso.
«Ma stava per venire nel mondo la luce vera, ad illuminare
tutti gli uomini. Egli era nel mondo, e il mondo per Lui fu fatto, e il mondo
non Lo riconobbe. Venne nella sua casa, e i suoi non Lo accolsero. Ma a quanti
Lo ricevettero diede il potere di diventare figliuoli di Dio.»
Dal Limbo al Paradiso.
Cristiano, questa è la tua Genesi. Il tuo Avo è Gesù. Tu non
sei nato da sangue, né da volere di carne, né da volere d’uomo, ma solo da Dio.
Da quando il Verbo si fece carne ed abitò fra noi, tu sei colonna della Sua
Chiesa.
«Nessuno, che dopo aver messo mano all’aratro volga indietro
lo sguardo, è buono per il Regno di Dio.»
Talvolta noi crediamo crudeli, o, almeno, egoisti, quei chiamati da Dio che non
si volgono a salutare neppure chi guarda dalla porta di casa. Ma sono, invece,
anime già distanti, definitivamente perdute alla terra, perché guadagnate al
Cielo.
* *
Preghiera:
Fa, o Signore, che nelle infime ribellioni, negli insoffocabili impulsi, nei
momenti irrefrenabili, io non giunga mai a maledire il fratello, ma il male ch’è
in lui. Fa — soprattutto — che nell’odiare quel male, io non dimentichi mai il
tuo Discorso: «Beati i mansueti, perché essi erediteranno la terra».
* *
Combatti dunque il male che è in lui, ma amalo il tuo
nemico, perché questo tuo ostile fratello è mezzo, è prova, è avvio di
perfezione: una pietra del faticato lastrico che mena al Padre.
* *
L’eroismo è umano, la santità è sovrumana. Una volta
aspiravo a quello, oggi non ambisco che a questa: e così dovrebbe ogni
cristiano.
Ma noi della Verità e della Vita non siamo che larve.
* *
Mano a mano che procedi nel tempo, senti che la vita ti
esclude. Ed è bene, perché il distacco totale sarà così meno doloroso.
Conforto ineffabile: quanto più ti respinge la terra, tanto più ti richiama il
Cielo.
* *
Chi pecca odia, cioè rinnega l’Amore.
Dio è Amore, e perciò il peccato è contro Cristo.
* *
Lo so, fra i due alberi, quello dell’Eden e quello della
Croce, è penoso scegliere quest’ultimo; ma tu devi considerare, fratello, che
solo il secondo è albero di Vita.
My review ofJean-Louis Chrétien: Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath, originally published inPhenomenological Reviews.
In Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath, Jean-Louis Chrétien (1952–2019) focuses on ten ordinary words which are also “decisive in the spiritual tradition,” as he explains in the Preface. Each word is a path, and in questioning them, Chrétien does not seek to master or define them, but rather to let them speak, to allow their resonance, their biblical, philosophical, and poetic echoes to unfold. The act of meditating on these words becomes a form of attentive listening, where language itself is received as a gift and thinking takes the form of response.
Originally published in 2009 under the title Pour reprendre et perdre haleine: dix brèves méditations, this is the first time the work has been translated into a foreign language.
The ten terms Chrétien explores are: breath (souffle), way (chemin), temptation (tentation), attention (attention), recollection (recueillement), blessing (bénédiction), peace (paix), gentleness (douceur), abandonment (abandon), and wound (blessure).
Each meditation may be read in isolation, but Chrétien suggests considering them as a progression that moves from the most general, breath, which also inspires the book’s title, to the most specific, wound, a theme he has explored in other works such as La joie spacieuse (2007). The trajectory is not linear or developmental in the traditional sense, but contemplative and intensifying: beginning with the elemental experience of breathing, Chrétien gradually draws the reader deeper into the vulnerabilities of human existence, until reaching the wound as the place where all previous themes converge. The wound, in Chrétien’s thought, is never merely a mark of suffering; it is a place of encounter, where fragility becomes the threshold of transcendence. Chrétien approaches these words with reverence and vulnerability, seeking not to explain them from without but to dwell with them from within, allowing the voice of tradition and the fragility of human existence to illuminate their hidden depths.
Chrétien’s style in these ten meditations (“brief meditations” in the original title Pour reprendre et perdre haleine: dix brèves méditations, published in 2009) is deliberately slow, poetic, and resonant. It resists systematic exposition and instead unfolds through a kind of contemplative circling, like a long-breathed conversation, in a low voice. This stylistic choice is not incidental; it mirrors the very rhythm of breath that structures the book: the inhalation of silent attention, and the exhalation of praise, surrender, or poetic invocation. Chrétien writes with what might be called a phenomenological lyricism. His prose blends philosophical reflection with scriptural allusion, patristic echoes, and poetic imagery, weaving a polyphony of voices such as Saint Teresa of Avila, Malebranche, Silesius, Dante, Kierkegaard, and above all Augustine, into a living tapestry of meaning. The result is a form of writing that is as much addressed to the heart as to the intellect. It invites not just interpretation, but inhabitation. One reads slowly, contemplatively, letting the words breathe rather than submitting them to conceptual closure. In this way, the style itself becomes a spiritual exercise: the reader must pause, attend, and receive, echoing the very structure of prayer that the book so gently evokes.
Chrétien’s dialogue with Augustine is particularly vital. Augustine is not merely cited but becomes a kind of subterranean guide. Chrétien draws on Augustine’s notion of the inner word (verbum mentis) and the dilated heart of Psalm 119 to articulate a theology of interiority oriented toward generosity and praise. The voice, for both Augustine and Chrétien, is where the soul becomes manifest, and the dilation of the heart signals the soul’s readiness to respond to God. In this way, Chrétien’s meditations do not simply echo Augustine; they translate Augustinian insight into phenomenological attentiveness.
“This book aims to be European,” Chrétien specifies in the Preface. In fact, each term is often explored in its semantic variations across major European languages, primarily French, but also Latin, German, Spanish, English, and Italian. Chrétien is attentive not only to etymology but to the spiritual and poetic nuance each linguistic tradition carries. For example, in the meditation on attention, the resonance of the Latin attendere (to stretch toward) contrasts subtly with the modern English “to attend,” which has lost its meaning of “waiting” while retaining that of vigilance and assistance. This philological sensitivity is never merely scholarly; it serves Chrétien’s larger spiritual and phenomenological aim: to illuminate how words, when listened to with care, become sites of lived experience and theological depth. Through this multilingual, intertextual weaving, Chrétien constructs a space that is unmistakably European in its cultural lineage, yet open to the universal dimensions of spiritual life. The small book thus positions itself not only as a contribution to philosophy or theology, but also as a work of cultural memory, echoing the shared breath of Europe’s literary, mystical, and philosophical traditions.
Although Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is among Chrétien’s more lyrical and accessible works, it remains firmly grounded in the philosophical commitments that shape his wider corpus. At the heart of Chrétien’s thought is the idea that human existence is fundamentally structured as response: we are not self-originating subjects but beings addressed by the world, by others, by God, and constituted in our capacity to answer. This response is not reducible to verbal or intellectual articulation; it is enacted through the body, and especially through the voice, which Chrétien in his La Voix nue (2007) has described as the site where interiority is exposed, offered, and made vulnerable. The voice is not a neutral instrument of expression; it is the manifestation of the self in its vulnerability. Unlike writing, which can be revised or deferred, the voice is immediate, ephemeral, and exposed. It gives the speaker before any content is communicated.
Breath, then, is not only physiological but metaphysical; it is the silent precondition of all voice, all responsibility, all praise. Each meditation in this volume can be seen as a variation on this theme: the human person as appelé à répondre, called to respond. Whether in attention, abandon, or blessing, the author emphasizes that we do not initiate meaning or mastery; we listen, receive, and offer ourselves in return. His phenomenology resists the ideal of sovereign subjectivity in favor of a relational approach in which being human means having been addressed first. This commitment aligns him with other figures associated with the so-called “theological turn” in French phenomenology, but Chrétien distinguishes himself by placing emphasis not on concepts like the invisible or the saturated phenomenon, but on the embodied, voiced, and prayed experience of being touched by transcendence. In this sense, Ten Meditations does not diverge from his more explicitly theoretical works as it enacts them, allowing his philosophy to take on a liturgical and poetic form.
The book does not fit neatly into any single genre or discipline. It is neither a philosophical treatise nor a theological tract; neither a devotional manual nor simply a collection of essays. It is all of these and more. Rooted in phenomenology, it adopts the stylistic cadence of spiritual writing. Its rigor lies in fidelity to lived experience, not conceptual closure. For this reason, it resists easy classification but rewards deep attention. Like the best of the mystical and poetic traditions from which it draws, its authority arises not from argument but from resonance.
A particularly illuminating insight into Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath comes from Andrew Prevot[1], who proposes that Chrétien’s meditations are not merely about prayer but are themselves a form of prayer or, more precisely, a text that invites the reader into a posture of prayer. According to Prevot, Chrétien’s style of writing, with its peculiar rhythm, tone, and theological poetics, functions analogously to lectio divina, the traditional Christian practice of slow, meditative, receptive reading of Scripture. Chrétien’s prose does not proceed by systematic demonstration or argumentative clarity; instead, it unfolds contemplatively, circling around key spiritual words such as souffle (breath), recueillement (recollection), bénédiction (blessing), and blessure (wound). These meditations are phenomenological in method, but liturgical in spirit, drawing the reader into a rhythm of interior attentiveness and affective response.
This rhythm is not incidental. As Chrétien makes clear in the opening meditation, which is also the one that inspires the title, breathing is not only a biological act but a spiritual posture. To breathe is to receive life from beyond oneself, to exist in openness, exposure, and dependency. The movement between catching one’s breath and losing it is not merely physiological, but theological: it names the structure of spiritual existence, in which one receives (grace, word, silence) and responds (in prayer, love, or abandonment). Chrétien’s meditations unfold this structure across ten variations, each tracing a movement from interiority to gift, from attention to response, from wound to song. His words operate in this sense not only as analysis but as invitation: the reader is called not to evaluate them critically from a distance, but to enter into them, to pray them, to let them reorder one’s breath.
Prevot highlights this feature with remarkable clarity: “Chrétien’s works are also spiritually edifying. They invite one not merely to think but to pray with them. Indeed, I believe it would be possible to turn to Chrétien as a spiritual guide, to go on a personal retreat structured by his books (perhaps especially the ten meditations in Pour reprendre et perdre haleine)”.[2] What Chrétien offers, then, is not simply a theory of prayer, but a form of philosophical praying, a writing that breathes with the cadences of invocation, silence, and praise. The language of the book is saturated with Scripture, poetry, and theological resonance, but it is never dogmatic or didactic. Instead, it is polyphonic and contemplative, weaving the reader into a web of listening. For Chrétien, as Prevot stresses, prayer is not a private act but a choral response to divine excess. This choral dimension is crucial: to pray is always to pray with others, even in solitude. Chrétien’s prose, by echoing voices from biblical characters, medieval mystics or modern poets, places the reader inside this community of response, and asks them to breathe in its rhythm.
This makes Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath a unique and remarkable work in the phenomenological tradition. It is a book that not only interprets spiritual experience, but that becomes spiritual experience, a kind of literary liturgy, a textual prayer. It does not aim at conceptual mastery but at spiritual transformation, leading the reader gently but insistently toward a more attentive, wounded, recollected, and surrendered existence. To read it, as Prevot notes, is to discover that “Chrétien has given us the gift of thinking prayer and praying thought.” The text breathes, and invites the reader to breathe with it — to catch one’s breath in wonder, and to lose it in love.
The rhythm named in the title — to catch and to lose one’s breath — is more than a poetic flourish; it is the structural and spiritual heart of the book. Chrétien uses this double movement to articulate a phenomenology of contemplation and self-gift. Reprendre haleine, to catch one’s breath, names the moment of interior gathering, a pause of attention and recollection in which one prepares to speak, to listen, or to act. This inhalation is not idle; it is a way of opening the self to receive what is given: from language, from others, from God. It is the very posture of prayer, of philosophical meditation, of poetic readiness. But Chrétien does not allow this moment to close in on itself. Each meditation ultimately gestures toward perdre haleine, losing one’s breath, which signifies not exhaustion but generous expenditure, surrender, and praise. The breath that is recollected in silence is given back in song, in blessing, in abandonment. The highest breath, Chrétien suggests, is not the one we keep, but the one we offer. This rhythm animates the entire progression of the meditations, from the elemental fragility of breath to the sharp exposure of the wound. Contemplation is not the opposite of action; it is its condition and its source. In this light, the book’s structure mirrors the logic of the gift: what is most interior becomes most truly itself when given away. In this, Chrétien articulates not only a phenomenology of prayer, but a vision of human existence grounded in receptivity and generosity: a life lived between the breath we receive and the breath we return.
It is fitting that the final meditation in the series is dedicated to blessure (wound). If souffle (breath) introduces us to our dependence, our need to receive life and meaning from beyond ourselves, blessure brings that vulnerability to its highest intensity. The wound is where the breath falters, where speech breaks, and where the self is opened, often involuntarily, to what exceeds it. Chrétien does not romanticize suffering, but neither does he treat the wound as merely a deficit to be healed. Rather, he sees in it a site of revelation and transformation. The wound is the mark of having been touched by love, by grief, by God, and it is often in the wound that the deepest form of prayer emerges: the silent cry, the sigh, the breath that can no longer be held. This final meditation gathers all the others by showing that every moment of attention, recollection, and blessing ultimately leads to a place where we are undone, not annihilated, but rendered porous to grace. The breath we have received and given finds its limit here, but also its completion. In the wound, Chrétien suggests, we are most exposed and most available to the divine. This is not the culmination of a dialectic, but the intensification of a rhythm: breath given, breath lost, self offered. The meditation on blessure thus brings the reader to the edge of voice, where silence is no longer absence but a form of communion — a shared fragility that opens onto transcendence.
Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is not only a work by Jean-Louis Chrétien. It is also a translation of his work by Steven DeLay, a novelist and philosopher himself. Translating Chrétien is no small task: his prose is dense with theological, philosophical, and poetic resonances; his style favors nuance, rhythm, and allusion over clarity and conciseness. Yet DeLay manages to preserve the contemplative cadence of the original French while rendering the text in an English that is both faithful and fluid. His translation succeeds not only in accuracy but in tone, and it breathes with the same reflective pace and reverent attention that mark Chrétien’s voice. Moreover, DeLay’s editorial presence enhances the volume in subtle but significant ways. His editorial footnotes, which were absent from the original French edition, serve to clarify linguistic choices, point the reader to relevant works by Chrétien, and provide essential theological or philosophical context where needed. These notes are never intrusive; rather, they assist the reader in navigating Chrétien’s references and concepts without disrupting the meditative flow. Importantly, in the Translator’s Introduction, DeLay recounts how this project began with Chrétien himself, who, the first time they met in 2017, among almost thirty published works, selected Pour reprendre et perdre haleine as the book he most wished to see translated by DeLay. This personal invitation adds a layer of fidelity and responsibility. DeLay is not only the translator, but the one entrusted by Chrétien to carry this particular voice across into English. In this sense, DeLay’s work goes beyond translation: it is a form of interpretive accompaniment, making the text more accessible to Anglophone readers while preserving its depth and integrity. In doing so, DeLay not only brings this important work into the hands of English-speaking readers, but also contributes meaningfully to the growing reception of Chrétien as a central figure in contemporary phenomenological theology, one whose voice, now more audible across linguistic boundaries, continues to challenge, console, and inspire.
The volume also includes a brief but illuminating foreword by Emmanuel Housset, one of Chrétien’s closest students and collaborators. Housset situates the book within the broader arc of Chrétien’s life and thought, and reads it as a “reminder of philosophy’s indebtedness to words. For it is in words that we think, it is also words that make us think”. (p. ix)
Taken as a whole, Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is not a loosely connected sequence of spiritual essays, but a tightly woven theological and phenomenological meditation on what it means to live a life of attention, receptivity, and self-offering. It exemplifies Chrétien’s distinctive voice within the landscape of French phenomenology, a voice that insists on the primacy of response over initiative, of listening over mastery, of vulnerability over control. More quietly than his overtly theoretical works, this book nonetheless enacts many of the central motifs of Chrétien’s philosophical project: the structure of call and response, the exposure of the self through the voice, the liturgical nature of human embodiment, and the ethical demand that arises from being addressed. The meditations are phenomenological not because they analyze phenomena as such, but because they dwell in the phenomena of prayer, praise, recollection, and fragility without reducing them to abstract categories. In doing so, Chrétien gives us a rare kind of writing, at once philosophical and poetic, theological and personal, rigorous and prayerful. It is a book that does not merely speak about the breath; it breathes. And in doing so, it invites us to breathe with it, to catch our breath in silence and contemplation, and to lose it in love and praise.
Dr Angelo Bottone
Bibliography
Chrétien, Jean-Louis. La Voix nue: phénoménologie de la promesse. Paris: Minuit, 1990.
Chrétien, Jean-Louis. La Joie spacieuse: essai sur la dilatation. Paris: Minuit, 2007.
Chrétien, Jean-Louis. Saint Augustin et les actes de parole. Paris: Presses Universitaires de France, 2002.
Bloechl, Jeffrey. Fragility and Transcendence : Essays on the Thought of Jean-Louis Chrétien. Lanham: Rowman & Littlefield, 2023.
Gonzales, Philip John Paul, and McMeans, Joseph Micah (eds). Finitude’s Wounded Praise: Responses to Jean-Louis Chrétien. Eugene, Oregon: Cascade Books, 2023.
Peruzzotti, Francesca. “Human Spirituality: Jean-Louis Chrétien and the Vital Side of Speech” in Religions n. 7, vol .12 (2021), p. 511.
[1] Andrew Prevot, “Praying with Jean-Louis Chrétien,” in Geffrey Bloechl (Ed.) Fragility and Transcendence, Rowman and Littlefield, pp. 117–129.
1.L’odio
del malvagio contro il virtuoso è irriducibile. Confusamente egli sente
che dall’altra parte è la verità, e s’accanisce, perché la sola presenza
del buono denuncia il male che è in sé.
Io
ho paura dell’uomo che nega. Lo considero un essere senza freno e senza
controllo, fuori dell’orbita dell’umano consorzio, capace di ogni mala
azione. Certo, è al di sotto della bestia che segue semplicemente il
proprio istinto, mentre egli mette a servizio dell’istinto l’intelligenza.
La
differenza fra l’uomo, piccolo re dell’universo, e il mondo creato sta in
ciò: che l’uomo ha coscienza di essere, mentre l’universo non l’ha. L’uomo
sa di vivere e di morire, l’universo non lo sa. È questa la prova
dell’umano privilegio.
Fuggire
il dolore è spesso atto di superbia dell’essere finito, del limite cui il
dolore è strettamente legato, perché solo l’Infinito è pienezza di
felicità. Affronta perciò il dolore e amalo come mezzo di espiazione che
ti condurrà oltre il limite segnato, ossia: dalla terra al cielo.
Combatti.
Uccidi giorno per giorno la bestia che è in noi: non sarai da meno delle
figure più celebri dell’umanità. Perché se l’eroismo è arduo, la virtù è
sovrumana: quello, infatti, può essere espressione di un attimo; questa, è
il risultato di un eroismo continuo.
Lo
so: quando ti sembra di aver toccato un vertice, ecco che ti ritrovi
respinto alle falde del monte. La vita dell’uomo è un alternarsi di voli e
di cadute. Quel che importa è rialzarsi e tornare a battere le ali.
Solo l’uomo perduto più non le avverte, perché è invischiato nel fango.
23 febbraio 1947
domenica, aprile 06, 2025
Una foresta armoniosa: Tu non vedi gli alberi, ma
ascolti il vento che passa e desta i richiami dei secoli e dei millenni.
Quanti nidi nascosti, quante misteriose risse sedate, quanti gorgheggi unanimi
saliti dal tempo all’infinito, diventati gridi d’angoscia o inni di gloria,
colpi d’ali sonore o ruggiti profondi!
Un oceano squassato: Arrivano a lunghe pause le
grandi ondate e rapiscono navi — le anime assetate — come gusci di noce. Se non
le frantumano, è perché la mano di Colui che ordinò alla tempesta di fermarsi
intorno alla barca di Pietro tiene prigioni le acque e, con un gesto, le placa.
Somiglia quel gesto a quello dei ministri della Sua Chiesa, che da due millenni
Lo evocano sugli altari, segnando in aria una Croce.
L’anima dell’organo singhiozza, esulta, s’accascia,
prorompe, si smorza, risale. E il gesto di Gesù si rinnova sulle creature
avvinte o ribelli, sulla perfidia e sulla bontà, sui carnefici e sulle vittime,
sui farisei e sui fedeli, sui tristi e sui puri.
Purché veniamo a trovarlo, anche solo per un attimo, Gesù — che se ne sta
giorno e notte nel suo tabernacolo, in attesa, Egli, l’Atteso, rinnova quel
gesto, purché facciamo elemosina a Lui — Elemosiniere divino — di uno sguardo,
di un saluto, di una preghiera.
Un cielo percosso dalla bufera: Cupo e denso di
tuoni, di gole stretto dallo spasimo, che si spalanchi all’improvviso e mostri
il suo vero volto, che fa presentire il Paradiso.
Un coro d’angeli osannanti: Chi intona il Dies
irae, chi suona lunghissime trombe per annunciare il Giudizio.D’un tratto
il clangore si placa, e voci bianchissime ti trasportano lassù, lassù dove
tutto è volo, perdono, estasi, innocenza.
Le lodi sono tante quante le canne degli organi nelle
cantorie del mondo; e ogni canna ha la sua gola inconfondibile: dolce,
profonda, soave, paurosa, triste, gioiosa, umana e sovrumana, chiusa o distesa,
di rampogna o di misericordia.
«Andrò all’altare di Dio. Al Dio che allieta la mia
giovinezza.»
Tutto è garrulo e quasi festoso fino alla fine, mentre il
Cristo rinnova il sacrificio incruento.
M’è avvenuto spesso, e non sembri irriverenza, di ascoltare durante la Messa un
passo lontano, cadenzato sul ritmo d’una fanfara celeste; tutta di lunghe
trombe d’oro e d’argento, sottilissima, sfavillante al sole.
«Giudicami, o Dio, e decidi la mia contesa; salvami dalla
gente non pia, dall’uomo perverso e maligno.»
La contesa è in noi fin dalla nascita: l’Angelo e la bestia
li portiamo dentro dai primi passi. La candida infanzia è dominata dall’Angelo,
protetta dalle sue ali; ma la bestia prende possesso di noi man mano che
perdiamo l’innocenza. La contesa è fra i due. L’Angelo si batte lealmente, a
viso aperto, spada al sole. La bestia colpisce con armi subdole, sempre alle
spalle.
«Perché tu sei, o Dio, la mia fortezza... Perché mi avanzo
triste mentre il nemico mi affligge?»
Non bisogna curarsi della bestia. A furia di non avvertirne
la presenza, finirà per stancarsi e abbandonare la preda. Via la tristezza dal
cuore, se è mondo. Se Dio è con noi, chi potrà esserci contro e portarci afflizione?
«Donami la tua luce e la tua verità; esse mi dirigano e mi
conducano al tuo monte santo, e nei tuoi tabernacoli.»
Il Golgota è qui, sulla tovaglia bianca, sulla tavola per
tutti, che ci sfamerà, che ci disseterà. Cristo sta per uscire dal tabernacolo,
evocato dal Suo ministro, anche se indegno, cui Egli deve obbedienza per la
nostra salvezza. Nessuno è respinto da questa Mensa. Noi fatichiamo ad
accogliere un convitato, spesso ci pesa porgere un piatto all’affamato. Egli ci
nutre col Suo Corpo, ci disseta col Suo Sangue, da gran Signore.
«Mi accosterò all’altare di Dio, al Dio che allieta la mia
giovinezza.»
Il passo si fa più frequente, serrato. Le fanfare squillano.
La gioia è nell’aria. La pienezza della gioia è la felicità che viene solo da
Lui. Nutriti da quel Cibo, dissetati da quella Bevanda, la nostra giovinezza
sarà eterna e vinceremo la Morte; perché una sola è la morte da temere: scadere
dalla Sua amicizia, perdere l’anima.La morte della carne è solo apparente, se
saremo nella Sua Grazia.
«Ti canterò sulla cetra, o Dio, Dio mio; perché sei triste,
anima mia, e perché mi turbi?»
Era, ed è, lo strumento degli Angeli, la cetra: al solo
tocco, l’anima rabbrividisce d’estasi. Nessuna tristezza resiste a quel suono.
Gli stessi cipressi diventano pioppi. Risorgono i morti, gremiscono le vie del
Cielo. Turbarsi ancora significa resistere a Dio.
«Spera in Dio, poiché ancora io lo esalterò, mia salvezza e
Dio mio.»
In un crescendo di toni, in una sinfonia di canti, il
preludio al Sacrificio sta per concludersi.
Prorompe l’Osanna:
«Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.»
S’inizia la grande ascesa che condurrà Cristo sul Golgota
per la salvezza dell’umanità.
L’Agnello di Dio sta per essere tratto dinanzi al tribunale di Caifa. Un colpo
d’ala più alto:
«Andrò all’altare di Dio. Al Dio che allieta la mia
giovinezza. La nostra forza è nel nome del Signore, che ha creato il cielo e la
terra.»
Ma prima di scalarlo, il Cielo, confessiamo a Dio di aver
meritato la fossa.
Il sacerdote ascende l’altare.
Squillano a gloria le trombe d’oro e d’argento. Tutte le fanfare celesti
intonano l’inno d’Amore.
2 febbraio 1947
venerdì, aprile 04, 2025
«Andate, instruite tutte le genti insegnando loro ad
osservare tutto quello che io ho comandato a voi». Da queste parole del Divin
Maestro, la Chiesa ha tratto e trarrà sempre l’indirizzo infallibile. Né si può
giudicarne il magistero e la prassi che ne consegue, se non si considera che il
Figliuolo di Dio si fece Uomo e Vittima volontaria per riscattare tutto il
genere umano, e i peccatori innanzi tutti.
* *
Troppi letterati si illudono di "risciacquare la
lingua", cioè di divenire originali, tenendo in non cale le fonti della
bellezza, ovverosia i classici. Ma non c’è che fare: fra il domenicano Dominici
e l’agostiniano Morsili, bisogna rifarsi a Coluccio Salutati, cancelliere
colendissimo della Signoria, campione dell’Umanesimo.
* *
Finiamola con la «tetra necropoli del Medioevo» e col
disdegno all’età dell’oscurantismo! Ci dicano i moderni esaltatori della
democrazia progressista in quale secolo trovi riscontro la ferocia degli uomini
d’oggi, età delle fosse a foibe e dei processi spettacolari del vincitore al
vinto.
* *
«Caddero le stelle dal cielo, ed io, polvere, che mi
presumo». Oh, nulla e tutto: di tornar polvere o diventare stella. E l’uno e
l’altro dipende esclusivamente da me, da noi.
* *
Per quanto sia abisso di luce e di bellezza, al Vecchio
Testamento noi preferiamo il Nuovo, perché già porta il segno e il
presentimento del martirio, perché è intriso di bontà sovrumana, la bontà, il
respiro di Gesù Redentore che così parla ai fratelli: «È stato detto agli
antichi: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico:
Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per
coloro che vi perseguitano e calunniano, affinché siate figli del Padre vostro
che è nei cieli, il quale fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i
cattivi, e manda la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti».
Come risplende, nell’apparente contrasto, l’opera della
Provvidenza nella graduale riabilitazione del genere umano!
* *
«Un figlio di donna schiaccerà il capo al serpente
infernale», annunciò Iddio ai progenitori decaduti. Alla sua promessa rispose
un avvenimento d’eccezione: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il
Figlio suo, fatto da Donna, per redimerci e farci suoi figli adottivi». Liberatore,
restauratore, riparatore, redentore, salvatore: Cristo.
26 gennaio 1947
giovedì, aprile 03, 2025
È sempre l’amore per la donna, lo so, che può dare il
presentimento della felicità immediata. Ma occorre considerare che, non appena
raggiunto, la sete non si spagne, se non sai mantenerlo puro e angelicato come
quello dei trovatori, i quali in fondo lo cercavano sempre altrove. Subentrerà
all’estasi la tristezza dello spirito e della carne: e sentirai dappertutto un
odore amaro che già somiglia a quello dei crisantemi.
* *
«La Chiesa è l’Avvocata, la Patrona, la Madre del popolo
lavoratore. Chi volesse affermare il contrario ed elevare artificiosamente un
muro divisorio fra la Chiesa e il mondo del lavoro, verrebbe a negare fatti di
evidenza luminosa» — disse il Pontefice. Ma c’è di più: quel tale muro
divisorio, ad arte elevato fra Chiesa e lavoro, dividerebbe nientemeno che
Cristo, il grande e umile Operaio di Nazaret, dalla sua Pietra.
* *
La differenza è tutta qui: nella lotta sociale, mentre i
sovvertitori t’illudono di raggiungere la giustizia con l’odio, noi crediamo
fermamente di conquistarla con l’Amore. Potrà forse la violenza, dall’odio
scaturita, pervenire ad una apparente conquista; ma alla prima occasione — e
non senza spargimento di sangue — tutto ritorna come prima, o peggio di prima,
con l’aggravante della inevitabile dittatura: di un uomo o di una classe. Lo
insegnano secoli di storia.
* *
Non si può, a nostro avviso, considerare la difesa dei
diritti del lavoro disgiunta dalla difesa dei diritti dello Spirito, nel quale
la personalità umana appare in tutta la sua bellezza.
* *
Si torna a parlare con insistenza, con imperversante
eloquio, della libertà di stampa che, come è noto, deve far comodo o meno al
regime, al potere. Ma ogni discussione è oziosa, perché la libertà di stampa è,
sopra tutto e anzitutto, questione di onestà: ragion per cui degenererà sempre
in licenza — e sotto qualsivoglia regime — se chi la esercita è disonesto.
17 gennaio 1947
mercoledì, aprile 02, 2025
Ho ascoltato, a basilica vuota, l’organo oceanico in Santa
Croce. Sbattevano i marosi contro le navate del tempio; poi, d’improvviso, si
placavano, per tornare subito a invadere le volte attonite. Anche le colonne
trasecolavano. Volavano gli occhi tendendo le orecchie, come in attesa della
catastrofe o del miracolo. Cateratte si spalancavano tra gli intercolunni.
Trombe prolisse annunciavano il Giudizio. Angioli cantavano il «Dies irae».
Nelle pause restava nell’aria il respiro dei golfi dopo la tempesta. Un respiro
affannoso, un alito forte di furia contenuta.
E l’estasi dei cieli antelucani, dei gigli appena sbocciati, delle stelle al
declino. Bufere e splendori d’anime, sospese fra volo e strapiombo.
* *
Un amico che ama porsi problemi ardui, senza risolverne uno,
ritiene assurdo che Cristo abbia redento solo gli uomini della terra, uno dei
tanti pianeti dell’universo. Gli ho ricordato che il Figlio di Dio è venuto
proprio quaggiù, e che nel «Pater» invochiamo: «Sia fatta la tua volontà come
in Cielo così in terra».
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Ma l’argomento principe è uno: gli eventuali abitanti degli
altri mondi, per quanto perfidi, non è possibile lo siano al punto da aver
bisogno che un Dio muoia in Croce per loro. Questo tristo privilegio è
riservato agli uomini.
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Per tutto il male che i poeti fanno alle creature nella
ricerca insoddisfatta di cercare Te in loro, perdona, o Signore!
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Preghiera
«Signore, dammi sempre una mèta, ma fa’ ch’io non la raggiunga mai, fuorché
l’ultima!»
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Si grida al miracolo se un male, ritenuto inguaribile, è
sanato, ma si tace indifferenti allo sbocciare d’un fiore, alla nascita di un
frutto. E il sole è come se ci spettasse, la primavera è un diritto, le stelle
vorremmo coglierle tutte. Nera ingratitudine delle creature per il Creatore.
12 gennaio 1947
martedì, aprile 01, 2025
Come tutti portiamo nel sangue il seme del peccato
originale, così abbiamo il presentimento dei giorni felici «quando gli uomini
vivevano senza agitazioni nell’animo, senza miserie nel corpo, con la sicurezza
perenne di non poter peccare e di non poter morire, senza la prova della
fatica, del dolore e della morte, quale sarà, dopo questa triste esperienza,
nella riacquistata immortalità della carne».
Possiamo avvicinarci a quei giorni, offrendo a Cristo
agitazioni e miserie, a Lui che il Padre mandò sulla terra per riallacciare il
patto, a prezzo di Sangue.
I santi pregustano la felicità che fu, la felicità che
tornerà ad essere come una nostalgia guaribile di giustizia, d’integrità,
d’immortalità.
Cristo è venuto al mondo come essenza di dolore, e tutta la
sua vita, sostanziata di lavoro e di pena, si è conclusa sul Calvario, monte di
Passione e di Sangue. Ecco perché il dolore dev’essere considerato sacro: un
dono inestimabile che ci affrancherà dal male.
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«Per un uomo il peccato è entrato nel mondo e per il peccato
la morte, e così la morte si trasmette in tutti gli uomini perché tutti hanno
peccato».
La triste eredità che San Paolo acutamente spiega ai Romani, da lui stesso
riceve il crisma della rigenerazione consolatrice: «Giacché, come per la
disobbedienza di un solo uomo — Adamo — molti sono stati costituiti peccatori,
così per l’obbedienza di un solo — Cristo — molti sono costituiti giusti».
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Non è presunzione, a patto che serviamo le leggi eterne,
sentirsi partecipi della natura umana e divina di Cristo. Noi parliamo,
infatti, secondo la natura fisica quando diciamo con Lui: «Ho sete... l’anima
mia è triste» mentre partecipiamo della natura metafisica quando sentiamo in
noi l’anelito alla Resurrezione e all’eternità: presentimento che non è negato
a creatura umana cui il Creatore infuse l’alito dell’immortalità.
5 gennaio 1947
lunedì, marzo 31, 2025
Fatevi il segno della Croce all’aria aperta, in una immensa
pianura o in alto, su una torre, una finestra ultima, un albero trascolato alle
prime luci del giorno. Vi sentirete partecipi del risveglio religioso della
natura, gusterete il lento risorgere del fiore, del frutto, del filo d’erba, di
tutti gli esseri creati — dall’insetto invisibile all’uomo — che cercano
avidamente il sole.
Sentirete Iddio come non mai, protesi verso il Cielo dove Egli abita: e la sete
divoratrice di vederLo, e lo sgomento che vi sia vietato di contemplarLo vi
metterà le ali.
Fatevi il segno di Cristo all’alba, sotto un cielo aperto, azzurra cattedrale
d’aria. Sentirete l’anelito a Dio più che nei templi dov’Egli attende il
peccatore, prigioniero degli uomini, costretto nella Particola santa, cibo insostituibile
della flagellata umanità.
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Il pino solitario. S’affaccia timido e triste fra due
palazzi che lo celano alla vista, finché non t’appare davanti all’improvviso,
nella via senza più sole. Sembra cresciuto in quella crepa, ma dev’essere
invece stato libero un tempo, libero e pieno di nidi. Le case gli si sono fatte
addosso a mano a mano che cresceva il quartiere. La strada è sempre in ombra,
ma anche se ci passasse il sole, adesso non potrebbe sfiorarlo neppure. I suoi
stenti rami si sono stancati a aspettarlo. Non verrà più il sole, nemmeno a
primavera, nemmeno nella grande estate.
Qualche mattino chiaro la terra è così felice da far credere
persino che gli uomini torneranno a volersi bene. E allora un passero sperduto,
solitario come lui, si mette a cinguettare fra ramo e ramo. Appare al davanzale
della finestra più alta, una figura di donna, angelicata.
Sembra che il pino s’inchini, scosso da un brivido lungo, dalle radici
all’ultimo ramo.
According to the latest 2022-based population projections published by the Northern Ireland Statistics and Research Agency (NISRA), the population of Northern Ireland is expected to reach a peak of approximately 1.95 million in 2033, followed by a gradual decline to 1.93 million by mid-2047. However, the most significant aspect of these projections is not the overall population trajectory but rather the profound demographic restructuring that is expected to unfold over the coming decades, particularly the ageing of the population.
By 2030, the number of individuals of pensionable age is projected to surpass the number of children aged 0–15. A more immediate demographic milestone will occur by mid-2027, when the population aged 65 and over will outnumber children for the first time in Northern Ireland’s recorded history. Moreover, the number of people aged 85 and over is expected to more than double by 2047. These trends highlight the growing demographic weight of older adults, with significant implications for policy planning and public service provision.
Unlike projections for younger age groups, estimates of the older population are relatively more robust, as they are less influenced by assumptions regarding future fertility or net migration. In contrast, projections concerning children and overall fertility are inherently more uncertain. NISRA's principal projection assumes a constant total fertility rate (TFR) of 1.65 throughout the projection period. However, evidence suggests a continuing downward trend: the Republic of Ireland, for example, has already recorded a TFR of 1.50. If such trends persist in Northern Ireland, the demographic ageing process may accelerate further.
Under NISRA’s low fertility variant, considered by many demographers to be a plausible scenario, the old-age dependency ratio could increase significantly. In 2022, there were approximately 261 individuals of pensionable age per 1,000 working-age individuals, equivalent to roughly one pensioner for every four people of working age. By 2072, this ratio could rise to 489 per 1,000, or nearly one pensioner for every two workers. This represents a dramatic increase in the dependency burden and poses substantial challenges for fiscal sustainability, labour market dynamics, and the structure of public services.
Scotland’s demographic outlook presents both parallels and contrasts. Over the same 25-year period (2022–2047), Scotland’s population is projected to grow by 6.2%, largely due to inward migration mitigating natural decline. The proportion of pensionable-age individuals in Scotland is projected to rise from 18.9% to 21.5% during this period, while the old-age dependency ratio is expected to increase from 318 to 396 per 1,000 working-age individuals. These figures suggest that, although Scotland also faces ageing pressures, the projected burden on its working-age population will be less severe than in Northern Ireland.
In contrast, Northern Ireland is projected to experience population growth of just 1.1% between 2022 and 2047. When coupled with the projected increase in the elderly population, this limited growth underscores the region’s heightened vulnerability to the socioeconomic impacts of demographic ageing.
The implications of these projections are wide-ranging. An ageing population will likely increase demand for healthcare services, age-related social care, and pension provision, while simultaneously constraining the size of the working-age labour force. Policymakers must therefore consider a range of strategic interventions, including initiatives to support higher fertility rates, immigration policy adjustments to augment the labour supply, and reforms to pension and care systems to ensure long-term sustainability.
In conclusion, the projected demographic changes in Northern Ireland represent a critical policy challenge. A comprehensive, forward-looking response is required to ensure that the region can maintain economic vitality and social cohesion in the context of an increasingly aged population.