domenica, aprile 27, 2025

Esortazioni al fratello

 SETE

Se sei veramente assetato di gloria, non appagarti di quella terrena, cioè transeunte, ma dissetati alle fonti eterne: fatti santo. Tutti possiamo diventarlo con l’aiuto della Grazia: basta volere.
Una sola gloria potrà saziarti: quella che avvia «ai campi eterni, al premio che i desideri avanza» dove l’altra «è silenzio e tenebre».

I DUE BENI     
Se possiedi beni terreni e neghi il tuo aiuto al povero che sarà di te quando chiederai a Dio? Tu hai negato beni temporali ed Egli ti negherà beni eterni che il povero, invece, potrà conseguire anche col tuo rifiuto.
È vano invocare il Padre se nel povero hai respinto il Figlio.         
«Dài terra per avere Cielo».

 

NOSTRA ALLEGRIA   
Non è l’allegria vacua, esteriore, che si spende in spiccioli, il più delle volte a perdita d’anima e di salute, ma è quella piena, intima, perenne, anche se caschi il mondo o si divertano i suoi fantasmi — gli uomini — a mandarci ogni cosa di traverso.            
I più credono, anche in buona fede, che non può esserci allegria autentica là dove l’idea della morte è sempre presente, ma dimenticano che per chi ha le valigie pronte, morte è la buona sorella che ci conduce fino ad una soglia dove la speranza è divenuta certezza.
E non c’è più luminosa allegria di chi proceda ben attaccato alla terra, ma con le ali pronte a spiccare il volo.    
Ecco perché al famoso «chi vuol esser lieto sia — di doman non v’è certezza» di ispirazione pagana, tu devi sostituire la cristiana affermazione: «Il nostro domani è l’eternità».
Certezza dogmatica.

Benigno

 

7 settembre 1947

 

 

martedì, aprile 22, 2025

I trappisti, monaci taciturni

 Ausculta, o fili. Obedientiam sine mora. Ora et labora.


I tre motti di San Benedetto si incontrano all’inizio del viale che conduce alla celebre clausura. Intorno, uno stormire di alberi giganti, una sinfonia solenne di venti, come un’orchestra al passaggio dell’Apostolo delle genti, che qui subì il martirio.
Salutato il principe degli Apostoli sulla via Ostiense con l’ultimo abbraccio fraterno, Paolo saliva quassù per essere decapitato. Pietro, invece, si avviava al Gianicolo, per affrontarvi la crocifissione.

Se ad Assisi spira un’aria francescana, qui si respira chiaramente aria paolina e petrina, che si effonde per tutta l’Urbe e pare conferire austerità alle sue mura.

Come fossi attratto lungo la via Laurentina, fino alle Acque Salvie, me lo chiesi leggendo i molti benedettini. E mi rispose un passo delle celebri Lettere di Celestino VI, là dove — questo Papa di fuoco — rivolgendosi ai monaci e ai frati, li chiama: «Avanguardie di arietatori e pionieri dell’Armata di Dio; falangi spartane e macedoni della Chiesa; ora lance spezzate, ora opliti, ora cavalieri catafratti, ora fantaccini eroici nella gigantesca battaglia contro l’Avversario».

Ma tutto ciò riguarda il passato.

«Il monachesimo — continua Celestino VI — fu, in origine, fuga dal mondo; oggi appare, per molti aspetti, fuga dalle regole accettate e dalle responsabilità liberamente assunte. Negli Ordini che posero come obbligo il lavoro delle mani, non si lavora quasi più, o appena si rassetta un orticello poco più grande d’una tovaglia d’altare.»

— Vede questo cuoio? — mi dice padre Bernardino, mostrandomi la cinghia che gli cinge i fianchi — Spesso si è bagnato di sudore.

— E come, padre?

— Lavorando nei campi — e me li indica, distesi a perdita d’occhio — zappare, seminare, potare, mietere, vendemmiare.

— Stretta osservanza?

— Sveglia alle due; fino alle cinque in chiesa per l’Ufficio, la Messa, la meditazione. Poi venti minuti di intervallo. Di nuovo in chiesa per l’Ufficio di «prima», poi lettura di un capitolo della Regola o del «capitolo delle colpe».
Mezz’ora di libertà, da dedicare alla lettura. Poi Messa cantata. Non meno di tre ore di lavoro sulla terra. Ancora Ufficio, quindi pranzo.

— In cosa consiste?

— Una minestra e una porzione: abolita la carne, il pesce, le uova.

Hai capito, Celestino? Poco pane e poco vino, come alle origini. E il pane guadagnato sulla dura zolla che i cisterciensi bonificarono anche con il sacrificio della vita. Silenzio ermetico.
La giornata si chiude tra preghiera e lavoro, con un cantuccio di pane e una mela. È la cena dei trappisti.

Comprendo allora perché Pio IX, quando volle restituire splendore alle Tre Fontane — ricordando che i cisterciensi avevano retto con onore l’abbazia per sette secoli e che san Bernardo, con la visione di Scala Coeli, ne aveva assicurato loro il possesso — vi stabilì proprio i trappisti, i monaci taciturni e dissodatori, autentici eredi di quelle avanguardie care anche a Giovanni Papini.

Padre Bernardino si è congedato per correre in chiesa. Non mi resta che incamminarmi, da solo, giù per il viale che porta alla Chiesa delle Tre Fontane, sorta sul luogo dove Paolo fu decollato.

S. Paulus Apostolus – Martyrii locus – Ubi tres fontes - Mirabiliter eruperunt.

La bella testa, spiccata dal busto sulla mozza colonna miliare, sprizzò sangue e latte, in segno di grazia. E ad ogni balzo scaturì dalla terra una fonte d’acqua viva.

Il fariseo crudele, il rastrellatore inesorabile di cristiani, ora mi è dinanzi, crollato dal suo cavallo bianco sulla via di Damasco. Gesù gli grida:

«Saulo, perché mi perseguiti?»

Perseguitava il suo Corpo Mistico e non sapeva di essere già strumento eletto, per portare il Suo nome davanti ai Gentili, ai re e ai figli d’Israele.

— Signore, che vuoi ch’io faccia? — risponde Paolo, tramortito d’amore. — Alzati ed entra in città: ti sarà detto.

I suoi compagni di viaggio rimasero attoniti: udirono la voce, ma non videro nessuno. Un’eco di quella voce è rimasta tra bosco e abbazia, vivificata nei secoli dalla luce del martirio.

Benigno

 

27 aprile 1947

lunedì, aprile 21, 2025

Arsura

Il traffico dei talenti


Ogni volta che m’accade di avvicinare un potente, o comunque chi abbia governo d’uomini, mi studio di sapere come spenda i suoi talenti. E se vengo a conoscere che li sotterra, cioè li spende male, lo considero un reprobo, anche e soprattutto se gode del benessere materiale. So che il Signore non gli perdonerà dinanzi al suo Tribunale, specie se la superbia lo affligga.

 

Preghiera


Signore, come hai cambiato in Cefa (= pietra, roccia) il nome di Simone, degnati di volgere anche sul mio povero nome il tuo sguardo. Sono ormai giunto ad una svolta che, come Pietro, posso dirti con tutta l’anima: «A chi ne andremo? Tu solo hai parole di vita eterna». Tu non m’hai fatto pescatore d’uomini, ma vedi, per quanto sia angusta la barca della mia vita, c’è sempre posto, il primo posto, per Te, se vuoi salirvi.
Ho tanta ansia e desiderio di toccare un lembo della tua veste; così forte è l’anelito di quest’anima che non riposa se non in Te, da suscitare lo stesso grido dal profondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E non te lo dico per solo timore, ma per Amore. Te lo dico perché non trovo pace se non in Te, perché il dolore è nello stesso attimo del peccato, perché dopo averti offeso, sempre, ho il coraggio di venire a trovarti per ritrovarmi in Te.

 

Il governo

«Chi ascolta si salva, chi non ascolta sarà condannato per l’eternità». Ecco fissata l’infallibilità della Chiesa: perché sarebbe non degno — dice il teologo — obbligare a credere chi fosse soggetto ad errore. L’infallibilità è sanzionata da Dio stesso per mezzo del Figlio suo: «In verità vi dico che tutto quello che avrete legato sulla terra sarà legato anche in cielo, e tutto quello che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto anche in cielo».
Egli, il Figlio, trasmette il governo a chi resta in suo nome: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». È chiaro, perciò, che chi non crede alla sua Chiesa, non crede in Lui.

 

Presunzione santa

Come in ogni vero cristiano, così in te c’è l’anelito alla santità, senza di che non concepisco la vera Fede. Ecco perché t’avviene di pregare per il tuo nemico. Per i defunti, invece, t’accada spesso di dire: «Prendo su di me anche le loro colpe, o Signore, perché siano abbreviate le loro pene!».

BENIGNO

 

27 luglio 1947

domenica, aprile 20, 2025

Nostra cittadinanza

Ricorda sempre la tua duplice cittadinanza: se sei membro della città terrena, dominata cioè dalle tenebre, sei altresì membro della Città di Dio, realizzata nel mondo dalla sua Chiesa. Questa nuova «civitas», organizzata tra gli uomini e per gli uomini, con elementi soprannaturali, ti conduce all’eternità e però è universale, ha superato cioè ogni gretta concezione nel concetto di regno messianico.

Il pascolo

Ci vollero tre domande e tre risposte (certo perché i sordi sentissero e parlassero i muti) prima che Gesù risorto concedesse a Pietro, dinanzi agli altri Apostoli, sulle rive del lago di Tiberiade, la grande investitura. Come sempre generoso e ardente, entusiasta e temerario, per quanto era stato pavido, Pietro che ricordava di aver pianto lacrime di sangue per averlo rinnegato tre volte, risponde trasecolato alla triplice domanda del Maestro: «Tu lo sai, Signore, se ti amo!».
L’aveva rinnegato tre volte; doveva confermare tre volte la sua fede e il suo amore.
Risuona da allora nei secoli e nei millenni la divina consegna: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».
Simone, già pietra d'angolo e clavigero celeste, diventa così Pastore umano e divino.

 

Il corpo mistico


Avevo pensato alla Chiesa come a un grande albero che ha le sue radici irrorate dal sangue della Croce. Papa, vescovi, sacerdoti, semplici fedeli salgono per i rami, si protendono verso il Cielo dove Egli è tornato, dove tutti dobbiamo tornare per i meriti di quel sangue prezioso.
I germogli più alti, i più verdi, i più teneri sono le anime dei puri: i più lontani dalle radici, ma i più gonfi della linfa di Vita che da quelle sale, nutrimento perpetuo. Quanti toni di verde prima di arrivare lassù, quanti gradi nella scala della perfezione!

Nulla di ciò che pensa il cristiano è suo. Ho aperto a caso il Vangelo di Giovanni ed ho letto: «Io sono la vite, voi i tralci».
L’immagine bella dunque era di Gesù, poeta insuperabile, che è in me com’è in te, fratello, se l’occhio, che è la lampada del corpo, resterà puro.

BENIGNO

 

18 luglio 1947

sabato, aprile 19, 2025

Arsura

SUPREMA RICERCA

Sento a volte una grande pietà dei giovani, anche se parlano di Dio, anche se si macerano nella ricerca spasmodica di Dio. «Sapeste quante svolte, quante rampe, quali cadute, quali voragini prima di trovarlo!».

E ad ogni svolta, rampa, abisso, quando sembra di averlo intravisto, eccoti di là del gomito, ai piedi della salita, in fondo al baratro, a ricominciare. Gli è che se non hai stoffa di santo, Iddio lo troverai solo sull’altro versante, quando la vita avrà bruciato molte, se non tutte le scorie, e avrai toccato con mano che tutto è illusione: tutto, fuorché Lui, suprema certezza.

COLPI D’ALA

«La letteratura su Dio è più nei silenzi pieni di idee e di voli che nelle parole», ho letto in una nutrita rivista di lettere. E m’è sembrato suonasse rimprovero a questi colpi d’ala, fatti più di terra che di cielo.

Ma Iddio sa che l’anelito alle grandi falcate c’è: mancano soltanto le ali. E se Lui vuol darmele, mi perdona, certo, l’ardire.

LA GRANDE CALAMITÀ

L’infelicità degli uomini risiede in ciò: si crucciano d’ogni calamità, ma non vogliono convincersi che la calamità più grande è quella di perdere l’anima: e perciò non operano in conseguenza.

SAPORE DELL’ARTE

Nego che si possa apprezzare compiutamente l’arte in genere e la poesia in ispecie nell’età giovanile. L’arte è frutto di esperienza maturata col dolore. Rileggere nella tarda età è gustare, godere, soffrire della gioia e del martirio dell’artista creatore.

L’AFFARE PIÙ IMPORTANTE

Si pensa, se non si dice, che per rivolgersi a Dio, per recitare cioè le preghiere del cristiano, c’è sempre tempo.
I colloqui con Dio vengono sempre dopo i colloqui con gli uomini e, comunque, dopo aver sbrigato gli affari della giornata, se avanza tempo.
Eppure è il solo affare della giornata, davvero importante, il solo colloquio fruttifero.

NOSTRA IGIENE

Bisogna prenderti spesso. Ostia divina. Chi, dopo averti gustato, oserà insozzare le labbra anche con una parola scorretta?
Gesù è la vera, ineguagliabile profilassi dell’anima e del corpo.
Provate.

BENIGNO

 

29 giugno 1947


venerdì, aprile 18, 2025

La vite

 

Un racconto di Benigno


Quando Tonio morì, Paolo lo sognò. Gli disse che s’era scordato di potare una vite e che lo facesse presto se voleva evitare grossi guai. Gli intimò poi di ascoltare la predica. La sera il parroco commentò dal pulpito un brano del Discorso della Montagna:
«Voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, e chi ucciderà merita di essere sottoposto a giudizio. Io invece dico a voi: chiunque si adira contro il suo fratello, merita di essere giudicato. Se dunque nel fare la tua offerta sull’altare, ti sovvieni che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta all’altare e prima riconciliati col tuo fratello, poi ritorna a fare l’offerta».

Cosa c’entrasse tutto questo con la vite da potare, Paolo non capì. Attribuì il sogno a un’altra stranezza del fratello che, anche da morto, voleva prendersi giuoco di lui: tanto più che per cercare la vite non potata, aveva percorso in lungo e in largo tutta la vigna senza trovarla.

Così non ci pensò più. Aveva ben altro da fare lui che dare ascolto a chi se ne stava ormai in posizione orizzontale, cioè in permanente riposo, beato lui! Pensò invece a rimettere in ordine quel po’ di terra che gli era rimasta, ché negli ultimi anni Tonio s’era dato alla bella vita, e quelle sue gite frequenti in città erano costate alla famiglia forti salassi in liquidi e appezzamenti. Se la famiglia ancora numerosa non era caduta in miseria si doveva proprio a lui, Paolo, che fu irremovibile quando si trattò di vendere al confinante il brolo che dava i più bei frutti della contrada.

Ma compare Pietro se l’era legata al dito. Ogni volta che capitava in fattoria non faceva che rimproverargli la vita che Tonio menava e che era diventata scandalosa: se ne parlava per venti leghe intorno, né valeva a compensarla la ferita di guerra, ché «quella» guerra il popolo non l’aveva voluta.

Paolo era caparbio, di quella caparbietà che talvolta si chiama «un carattere forte». Ne nacque una specie di sordo rancore, che, se non era proprio odio, gli somigliava: ma di confessarlo non se ne parlava, tanto è bendato l’uomo quando si tratta di giudicare se stesso, anche al cospetto di Dio. Avrebbe lavorato magari fino all’ultimo respiro, e con lui i figli e i nepoti, ma non gliel’avrebbe data per vinta a quell’usuraio che aveva preso alla gola il povero Tonio ed ora voleva ricattarne la famiglia, che sapeva sull’orlo della rovina.

Pane e cipolla per tre generazioni, se ci fosse stato bisogno, ma il brolo più ricco di contrada Taverna non l’avrebbe avuto quel cane!

Un mattino di marzo Paolo s’era accasciato sul solco, stracco. La primavera scoppiava dappertutto in tenere gemme su per gli alberi e le siepi inverdite. Pensava che se ci fosse stato Tonio, avrebbe dato sotto a rivoltare la terra con quelle sue braccia nerborute che lo facevano rassomigliare a un torello, ed egli non si sarebbe sfiancato così. Allegro e generoso con tutti, Tonio lo era specialmente con la buona terra alla quale dava con letizia sudore come aveva dato sangue alla guerra, da gran signore.

Ad un tratto s’accorse che dai tralci dell’ultima vite, quasi addosso al muretto di cinta, colava un umore vermiglio che s’accendeva al sole. S’accostò, protese una mano e la ritirò insanguinata. Trasalì, si ricordò del sogno e della predica e si vergognò del rancore che sentiva per compare Pietro.

Capì che l’anima è come la vite: bisogna potarne i rami secchi, fra i quali, primo, è l’odio contro il prossimo.

È per quell’odio che la terra non dà più frutti per sfamare gli uomini tutti.

Tonio, sempre generoso, gli aveva fatto in sogno un dono immenso. Capì pure perché il parroco aveva detto che il cristiano si vendica vincendo il male col bene.

Lo stesso giorno strinse la mano a compare Pietro. E la vite potata non sanguinò più.

 

22 giugno 1947

 

giovedì, aprile 17, 2025

Infanzia martoriata

Un poeta, in nome di tutti i poeti — che per umano e divino privilegio sono i più vicini alla fanciullezza, perché non v’è fanciullo che non sia poeta, né poeta che non conservi un’anima dolce e mite da fanciullo — ha detto di recente che la più terribile, l’inespiabile colpa frutto di questa guerra è lo scempio dell’infanzia, il martirio dell’innocenza.

Ed è vero. Noi li abbiamo visti, durante le tremende incursioni, i nostri bambini stringersi terrorizzati al petto dei grandi, con una invocazione suprema negli occhi smarriti: un’invocazione che era già condanna per chi aveva scatenato il flagello. Anche quando la morte non li ghermiva, quei piccoli cuori ne uscivano così sgomenti da restarne intimamente feriti. Ci è toccato, proprio in questi giorni, assistere — in una corsia d’ospedale — all’agonia lenta e disumana di una bimba ridotta a pelle e ossa. Il cuore, malato per i troppi spaventi, le batteva forte in gola; si fermava, riprendeva la corsa fino a sgranarle gli occhi — due fiamme — in un visino terreo, dove già soffiava l’alito della morte.

A quella, a tutte le creaturine vittime dell’odio degli uomini, abbiamo pensato giorni fa, quando la piccola Luciana Sisti è caduta sotto il tallone del proprio genitore. Padre? O belva in sembianze umane? Belva? E perché riabilitare così la specie animale, se la belva difende i suoi piccoli fino a immolarsi?

La cronaca è un rigurgito d’innominabili delitti contro l’infanzia. L’uomo, che ha perduto ogni senso di bontà e pudore, sembra volersi vendicare di se stesso, della propria follia, accanendosi contro chi ancora gli parla di bontà e d’innocenza. Contro i teneri virgulti della sua stessa carne, che gli ricordano un tempo beato, quando i cavalieri erano prodi perché conoscevano e facevano rispettare le leggi dell’onore e del focolare domestico, dove accanto al talamo dondolava la culla avita, candida come un altare.

La piccola Luciana Sisti era di carattere dolce e affettuoso. Abbandonata dalla madre, aspettava che suo padre rincasasse per sentire un po’ di tepore, il calore di casa. Tremava, forse, perché temeva l’orco della favola — che nessuno sapeva più raccontarle. Così gli andò incontro fiduciosa, senza immaginare che l’orco si fosse rifugiato proprio in quel petto villoso, in quelle zanne rapaci.

«Senza mandare un piccolo grido, la bambina fu sbattuta a terra e colpita ciecamente a calci e a pugni. Ben presto, dal viso dell’innocente il sangue sgorgò copioso. Il padre, alla vista del sangue, infierì con maggior furore sul corpicino…».

Assisteva al martirio,  forse complice, un’altra donna, e non è difficile intuire chi fosse.

È un brano di cronaca, disadorna cronaca, di un atto abominevole che — Dio non voglia! — si ripeterà, finché l’umanità non torni sui propri passi, non risalga l’abisso in cui è caduta, non ricostituisca atomo per atomo la cellula della famiglia, disintegrata da questa ventata di follia che minaccia di abbattere gli ultimi pilastri del ponte.

Dall’alto della Croce, con gli estremi aneliti del suo passaggio terreno, una voce eterna risuona, a esaltazione degli innocenti e condanna degli orbi: «In verità vi dico: se non vi farete umili come questi fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli!»

 

Benigno

8 giugno 1947


mercoledì, aprile 16, 2025

Il monito

Un relitto di tabacco caduto tra i relitti di pellicole ha provocato una strage: ventinove creature umane trasformate in torce viventi. Per pochi, terribili minuti hanno continuato a consumarsi, a bruciare tutto di sé: venti, trenta, quarant'anni di vita cancellati in un attimo, con le loro speranze e le loro delusioni, le gioie, gli affetti, i dolori, le aspirazioni, i sogni — tutti bruciati vivi.

Quando la casa era ormai un rogo, e orribili ustioni straziavano le povere carni, qualcuno ha tentato di salvarsi aggrappandosi disperatamente alle grondaie, ai cornicioni, ai davanzali. Ma è precipitato sulla strada, in fiamme.

Scene terrificanti — che la mente umana non riesce a contenere, tanto la realtà supera la fantasia — si sono svolte attorno alla casa maledetta, nell’obitorio dove, sul freddo marmo, erano allineate le salme carbonizzate, e negli ospedali dove venivano accolti i superstiti.

Alle grida di terrore, al panico, agli atti di eroismo, alla disperazione, è subentrato il silenzio. Ma un silenzio pesante come un incubo. Qualcuno ha parlato di supremo avvertimento.

Il giorno luminoso dell’Ascensione è trascorso quanto mai triste. Solo una pausa di respiro: quando le campane, da San Pietro a San Giovanni, hanno suonato a distesa per annunciare al mondo che la Chiesa di Cristo ha un nuovo Santo.

Poi, alla sera, il popolo è salito sui colli, sulle terrazze, alle finestre alte, per cogliere il riflesso di una certezza eterna: nella visione incomparabile della cupola michelangiolesca illuminata a giorno.

Avvertimento? Ma perché pochi hanno pagato per tutti, se tutti siamo colpevoli d’aver ridotto la terra a un immenso mattatoio, dove perfino gli agnelli aspirano a diventar lupi come i lupi?

Domande cominciano a trovare, qua e là, una risposta precisa, inesorabile. Eppure, consolatrice.

Intanto, dalle salme straziate si è levato un monito che i superstiti hanno raccolto, affratellati — come non accadeva da tempo immemorabile — da un dolore comune, acerbo. Dal Sommo Pontefice al più umile cittadino, enti, istituti, associazioni e privati si stringono in nobile gara intorno alle famiglie delle vittime. Vittime benedette, che hanno saputo ridestare sentimenti che parevano inariditi nei cuori devastati dall’odio. È come una schiarita di cielo sulle coltri funebri, un respiro ampio di solidarietà umana che avvolge chi soffre.

È la pietas romana che rifiorisce, raccogliendo frutti d’amore per infiorare le tombe precoci di chi ci ha soltanto preceduto. Perché noi non crediamo alla morte. Noi crediamo alla Vita.

 

Benigno

25 maggio 1947

martedì, aprile 15, 2025

Auro d’Alba: il poeta nascosto dietro la carità

 


Dal 1948, per oltre vent’anni, L’Osservatore della Domenica ospitò la rubrica “L’Appuntamento della Carità”, dedicata alla raccolta di aiuti per persone in difficoltà.

Nel dare notizia dell’improvvisa scomparsa del curatore della rubrica, avvenuta sessant’anni fa, il 15 aprile 1965, il direttore Enrico Zuppi rivelò ai lettori che dietro lo pseudonimo “Benigno” si celava il poeta Auro d’Alba. Un nome che, nella discrezione dell’anonimato, aveva fatto della carità una missione silenziosa ma concreta.

La rubrica era nata quasi per caso quando a Benigno, che già scriveva meditazioni religiose per il giornale, fu chiesto di presentare un caso particolarmente grave. In pochi giorni arrivarono, inaspettate, numerose offerte da parte di lettori colpiti dalla delicatezza delle sue parole. Da quel momento, l’appuntamento divenne fisso.

Erano gli anni difficili, quelli del dopoguerra. Benigno si occupava quotidianamente di selezionare fasci di lettere, verificarne l’autenticità, valutare il reale bisogno, e infine proporre ai lettori i casi più urgenti. L’assistenza non era soltanto economica: tramite la mediazione del giornale venivano distribuiti viveri, medicinali, indumenti, apparecchi ortopedici, protesi, persino mezzi di locomozione, sia ad individui che ad istituzioni.

Ma chi era Auro d’Alba? Nato a Roma nel 1888 da una famiglia di origini abruzzesi, pubblicò a soli 17 anni la sua prima raccolta di versi, Lumi d’argento, firmata con il suo vero nome, Umberto Bottone. Erano componimenti di ispirazione crepuscolare, recensiti con interesse dall’amico Sergio Corazzini.

Negli anni Dieci fu coinvolto da Filippo Tommaso Marinetti nell’esperienza futurista, pubblicando anche su Lacerba di Papini e Soffici, per poi avvicinarsi all’avanguardismo della rivista napoletana La Diana.

Militante politico, nel 1916 fu arrestato insieme ai futuristi Marinetti, Balla, Depero, Cangiullo e Jannelli  in occasione di una manifestazione interventista. Coerente con le sue convinzioni, partecipò alla Prima guerra mondiale, combattendo tra i bersaglieri. L’esperienza al fronte gli valse una medaglia d’argento e una croce di guerra, ma anche materiale per i racconti e le poesie degli anni immediatamente successivi.

In quello stesso periodo scrisse versi per l’infanzia destinati al Giornalino della Domenica di Vamba, l’autore di Gian Burrasca.

Fascista della prima ora, fu responsabile dell’ufficio stampa e storico della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il culmine della sua notorietà letteraria coincise con una tragedia che lo riportò a una profonda fede cattolica.

Nel 1930 pubblicò Nostra famiglia, romanzo parzialmente autobiografico, in cui immaginava la famiglia ideale del nuovo regime. Ma pochi mesi dopo la pubblicazione, la figlia diciottenne Ofelia, si tolse la vita nella casa di famiglia. La tragedia cambiò radicalmente la sua esistenza e commosse il mondo letterario italiano.

In un volume commemorativo uscito un anno dopo, troviamo gli omaggi ad Ofelia d’Alba di Salvatore Quasimodo, Grazia Deledda, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi e molte altre firme illustri dell’epoca.

La produzione poetica di Auro d’Alba immediatamente successiva alla tragedia è tutta dedicata alla figlia perduta.

Negli anni seguenti, Auro d’Alba collaborò con Il Frontespizio, prestigiosa rivista fiorentina di ispirazione cattolica e punto di riferimento della cultura letteraria del tempo.

Affiancò nuovamente Marinetti durante la guerra d’Etiopia, distinguendosi in operazioni militari che gli valsero una medaglia d’argento al valor militare e due croci al merito di guerra. In quegli anni fu anche autore di testi di canzoni militari, tra cui Battaglioni M e Cantate di legionari.

Dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale partecipò in ruoli legati alla propaganda, e segnato dalla perdita della moglie, Auro d’Alba tornò alla scrittura. Scelse spesso però di firmare i suoi contributi su riviste con vari pseudonimi, forse nel tentativo di prendere le distanze da un passato politico ormai compromesso.

Collaborò alla terza pagina de Il Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana, firmando con lo pseudonimo Benigno Assunti ritratti e profili letterari tratti dai suoi ricordi. Questi testi confluiranno più tardi nel volume di memorie Formato tessera (1956).

Oltre alla critica letteraria, continuò a pubblicare poesie e meditazioni, specialmente sulla rivista fiorentina Città di Vita e su L’Osservatore della Domenica. In quest’ultimo, curò come Benigno la rubrica “Voli”. Inizialmente solo letteraria, divenne in breve “L’Appuntamento della Carità”, dove i casi bisognosi venivano spesso introdotti da brevi, intense riflessioni spirituali.

Benigno dava voce agli indigenti con profonda delicatezza, lasciando molte volte che fossero le loro stesse parole a raccontare il bisogno. Presentava i casi attraverso le lettere ricevute, preservandone l’autenticità e il tono umano. Era come se chi scriveva trovasse finalmente uno spazio d’ascolto, una mano tesa attraverso la pagina.

Settimanalmente, Benigno offriva ai lettori dell’Osservatore della Domenica l’occasione concreta di compiere un gesto di carità. Quando la generosità non bastava a soddisfare il bisogno, interveniva personalmente, colmando le mancanze con discrezione. La sua penna dava voce al dolore, ma anche risposta silenziosa, spesso tangibile, alla sofferenza altrui.

Una delle prime lettere presentate da Benigno non proviene da un richiedente aiuto ma da un benefattore. È il gennaio del 1948 e a scrivere è un reduce dal campo di concentramento di Mauthausen. L’uomo chiede che la sua offerta, inviata in forma anonima, sia destinata attraverso il giornale a un tedesco in difficoltà, come segno di riconciliazione.

“In più del perdono voglio, in questo Natale, aiutare una persona  forse che mi ha fatto del male, ma purtroppo è stata vittima di inganno. Le parole del Papa sono sempre accorate; possano ascoltarlo di più, e guadagnare così, coll’amore e non coll’odio questa pace alla quale il mondo aspira”, scrive il lettore.

Benigno riconosce in questo gesto non solo un atto di generosità ma l’espressione di una santità autentica.

In un commosso articolo di commiato, sessant’anni fa, il direttore Enrico Zuppi ricordava che Auro d’Alba, avendo dovuto affrontare tempeste dolorose, “trovava un particolare conforto nel fare del bene agli altri, con inesausta carità”.

Il poeta, in una delle sue meditazioni introduttive a L’Appuntamento della carità, scriveva: “Il dolore ci rende comprensivi, caritatevoli, ci è più facile tendere la mano al fratello, aprirgli le braccia, ascoltargli il cuore che batte col nostro; infine spartire il pane e la pena con lui. Quante volte invece mi sono accorto che la gioia è egoista, è crudele, come spesso è la giovinezza, che ha tutta la vita dinanzi e non vuol saperne di soffrire. E sapete perché è egoista? Perché vorrebbe non finir mai; è crudele perché l’altrui tristezza fa ombra, le dà noia, la disturba, la richiama a un dovere che preferisce trascurare, ignorare, disdegnare forse … E dimentichiamo la più alta verità della nostra Fede: «Un bicchiere d’acqua dato con amore è meritevole di vita eterna».”

Enrico Zuppi, nel suo articolo celebrativo, aggiungeva: “Non lo vedremo più tra noi, con quel suo sorriso apparentemente scettico, di uomo di mondo, col quale credeva di poter difendere la sua immensa bontà, il suo altruismo, la sua squisita sensibilità.”

L’Appuntamento della Carità proseguì anche dopo la morte di Auro d’Alba, grazie all’impegno della seconda moglie, Maria Antonietta Pozzi, sua collaboratrice nella vita e nell’opera.

Auro d’Alba è oggi un autore dimenticato. I suoi libri sopravvivono tra le pagine ingiallite di vecchie edizioni, reperibili solo nei negozi di antiquariato o nelle biblioteche. Il suo nome, un tempo noto, è stato oscurato anche da un legame troppo evidente con il Ventennio fascista, che ne ha segnato il destino culturale più di quanto abbia segnato la sua voce interiore. Eppure, l’invisibilità che scelse negli ultimi venti anni della sua vita fu tutt’altro che un rifugio imposto dalla storia. Era, piuttosto, una forma di pudore, di volontaria discrezione. Una rinuncia al riconoscimento personale per lasciare spazio all’urgenza dell’altro, al dolore che chiedeva ascolto. Non si nascose per paura ma per promuovere la carità silenziosa. Dietro Benigno, più che un autore in ritirata, c’era un uomo che aveva imparato a scrivere non più di sé, ma per gli altri.

lunedì, aprile 14, 2025

La Basilica

«Padre, ricordaci che siamo polvere, e polvere ritorneremo. Perché, vedi, nonostante l’età, i guasti, le cadute, le ricadute, e il cammino duro, siamo ancora tanto deboli, e da un momento all’altro, a una svolta, può accadere che il Maligno ci tenti.»

La basilica sembrava emersa da un lago (o che fosse stata raggiunta dallo straripante fiume che, per tre volte quell’anno, aveva invaso i quartieri bassi?) Una luce d’acque diffuse saliva fino ai matronei, fino al soffitto, per ricadere estrosa sul limitare delle cappelle, dove i fedeli prostrati ricordano che tutto è vanità, che la vita è dura con la Croce, ma senza la Croce è insopportabile: e vengono ad abbracciarla.

Da poco riaperta al culto quotidiano, la chiesa era piena di meraviglia: e di questa meraviglia  dei marmi, degli archi, dei chiostri, delle colonne, degli altari, dei tabernacoli partecipavano gli occhi dei fedeli, che tornavano a lei dopo anni di lontananza, fuorviati dal turbine. In verità, se ci guardavamo negli occhi, ci riconoscevamo appena. Ci pareva, sì, di esserci incontrati in un mondo scomparso, ma certe incancellabili orme le avevamo pur lasciate sulle strade percorse. E i volti stanchi, le anime stordite, s’illuminavano ancora di quel sole. Perché si può ben dire che sia sempre lo stesso sole. Ma non è vero: è la nostra giornata, sono le nostre opere, i nostri anni, le diverse svolte della vita che ne rifrangono i raggi. E il sole dell’infanzia non è più quello della giovinezza, e questo non somiglia al sole della maturità se non attraverso i rimpianti, i lutti, le nostalgie: tutto il bagaglio che non vorremmo, ma siamo obbligati a portare. Il bagaglio che altera i segni del viso, la linea delle membra, il passo, lo sguardo, la voce.

Anche la basilica — la nostra basilica — aveva cambiato volto. Ricordavamo un volto rugoso, ed ora ci restituiva un luminoso profilo. Accogliente, l’ambone ci apriva le braccia come per contenerci tutti e portarci ai piedi di Colui che ha sì grandi braccia da condensare nel petto piagato tutto il dolore del mondo.

E sentirsi con Lui volontari della Croce, candidati al perpetuo eroismo. È proprio questa l’epoca più adatta, il clima propizio: quando l’aria stessa è corrotta, fioriscono, prodigiosi nel silenzio e nell’ombra, i gigli della santità.

Benigno Assunti

13 aprile 1947

domenica, aprile 13, 2025

Signore, si fa sera!

«La cattolicità è una nota essenziale della vera Chiesa, e nessuno può dirsi partecipe o devoto alla Chiesa se non partecipa e non è devoto alla sua universalità, cioè al tuo radicarsi e fiorire dappertutto sulla terra. Quei due laici, come il sacerdote loro guida, non trovavano riposo, al solo pensiero che milioni di uomini non conoscevano ancora Cristo. Beati quei tre! Le loro ossa riposano ora insieme, custodite nel reliquiario naturale della collina verdeggiante che s’innalza dolcemente dal fiume dei Mohawks, fluente placido e dolce.»

Il brano è tratto dal radiomessaggio pontificio per i protomartiri del Nord America, e lo riportiamo qui per tre motivi di alta spiritualità: 1.) L’universalità della Chiesa ha un respiro così vasto che tutte le umane ideologie appaiono meschine al suo confronto. 2.) Il richiamo alla vera essenza della cristianità, che è quella di non avere pace, se davvero fedeli alla Croce, finché sulla terra vi sia un’anima che non conosce Cristo. 3.) Il profumo di poesia che emana da queste parole apostoliche, espresse con il tono delle più alate Scritture del Libro eterno.

Giorno certamente verrà in cui le pagine più belle e ispirate dei successori di Pietro saranno raccolte e andranno ad arricchire la serie che compone quel libro senza tempo.

* *

Durante la nostra giornata affannosa, ci capita spesso di ricordare i discepoli di Emmaus e il cammino percorso insieme, mentre Gesù — viandante sconosciuto — spiegava loro le Scritture: «E come furono vicini al villaggio dove si recavano, Egli fece finta di andare oltre.
Ma essi lo trattennero dicendo: “Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto.” Ed entrò con loro. E avvenne che, messosi a tavola, prese il pane, lo benedisse e lo spezzò. Allora si aprirono loro gli occhi, e lo riconobbero.»

Lo riconobbero da quel gesto: era il Maestro. Colui che, nell’ultima Cena, prima del Sacrificio, spezzò il pane e alzò il calice, istituendo il sacramento ineffabile dell’Eucaristia. Affinché, tornando Egli al Padre, l’uomo che tanto amò, per cui diede la vita non si sentisse più solo nelle tentazioni e nelle sofferenze.

Anche a noi accade, ingannati dalle apparenze, di sentirci soli. Anche a noi capita di gridare nel buio: «Signore, rimani con noi, si fa sera!»

E non pensiamo che i discepoli di Emmaus ne avessero meno diritto di noi, loro che avevano conosciuto personalmente Gesù e ascoltato le sue parole.

Noi non abbiamo soltanto la sua Parola, eredità che non passa, ma il suo stesso Vicario, che dalla Cattedra di Pietro parla a tutti coloro che hanno orecchie per udire e pupille per vedere.

Beati coloro che, al di sopra della rissa e del fango che sale, sanno ascoltarlo.

Parlaci, parlaci ancora e sempre, o Padre nostro! Il giorno è già declinato, e non sappiamo se il sole sorgerà ancora sul mondo.

* *

Questo mondo è superbo. Il mondo si inorgoglisce sempre più, ma di che cosa, se non della propria miseria e iniquità?

Il mondo sente che, fuori dalla rete di Pietro, vi è solo buio e perdizione, ma non vuole arrendersi. Resiste, come se doversi umiliare alla presenza di un suo pari fosse un'offesa. Come se Dio fosse un altro uomo già perduto, già condannato. Il mondo si sottomette al giogo duro dell’amor proprio, che già conosce, e respinge quello “soave” dell’umiltà, che gli è ignoto.

Ebbene, dobbiamo essere noi, gli addomesticati dal giogo soave, a ripetere al tuo erede, o Signore, le parole di Simone, quando i discepoli stavano per abbandonare Gesù, tentati di scuotere il giogo. Ci voleva Pietro, soltanto Pietro, a pronunciarle con la sua rude schiettezza marinara. E noi le ripeteremo a te, Padre nostro, che sei in terra per il pascolo benedetto: «Da chi andremo, se lasciassimo te, che possiedi parole di vita eterna?»

Ogni giorno che passa è come se facesse notte prima della sera. Le notti sono in verità troppo lunghe, e talvolta ci opprime il cuore il terrore di respirare nelle tenebre per tutta la vita. Non potrebbe forse il Signore vendicarsi così del male che gli uomini fanno? Non più diluvio , promise a Noè, ma non parlò della tenebra. Egli potrebbe sempre negarci la luce del sole. Non è tenebra, forse, questa che acceca l’uomo e lo spinge ad uccidere il fratello? Non è tenebra quella che ci fa dimenticare le parole terribili: «Vendicherò la vita dell’uomo sopra l’uomo e sopra suo fratello»?

Diluvio no, perché la parola di Dio è una e non mente. Ma tenebra sì. E perciò tu ci parli, Padre nostro che sei in terra, tu, Vicario di Cristo, tu, successore di Pietro. La discendenza ti ispira le stesse parole di Vita, ti suggerisce gli stessi ammonimenti del Cristo, come se fosse ancora tra noi. Ma a molti dei suoi discendenti, fedeli, che pronunciarono soltanto parole di Vita, gli uomini hanno preparato il patibolo. E contro la Chiesa fondata dal Gran Re — il Primogenito di Dio — si accumulano tutte le nefandezze, occulte e palesi, perché il mondo, che ha odiato il Cristo e odia noi, sa che la tenebra della menzogna non prevarrà sulla luce, che è Verità.

Padre, rimani con noi, parlaci sempre, parlaci ancora! Si fa sera, e il giorno è già declinato.

A. D. A.

13 aprile 1947 

sabato, aprile 12, 2025

Acqua viva

Bisogna amare il corpo, ma solo come tempio dell’anima; detestarlo come nido di concupiscenza. L’egoismo dell’uomo è frutto della sua tirannia, dei suoi istinti bestiali.

Il grido dell’Apostolo risuona alto e angoscioso: «Chi mi libererà da questo corpo di morte?»

* *

«Io sono la Via, la Verità, la Vita» — disse il divino Maestro a Tommaso nell’Ultima Cena, che fu pure la prima Messa, celebrata dal Primo Sacerdote con il proprio imminente Sacrificio. E perciò è inutile cercarne altre: non c’è che una Via, una Verità, una Vita. Le altre — quale più, quale meno — sono tutte apparenze, ombre, illusioni, sentieri che non conducono a Lui, dottrine che non si rifanno alla maggiore, tralci della vite che non si ricongiungono al tronco.

Ecco perché cercare altrove è vano, quando non è pericoloso.

Benigno Assunti

6 Aprile 1947

venerdì, aprile 11, 2025

Amore e fede

Un mezzo sicuro per non essere travolti dal fango delle strade, che è, purtroppo, nella natura umana, è guardare insistentemente l’azzurro e le stelle.

* *

C’è un canto, il primo canto del primo uomo, che suona come suprema lode alla prima donna, per tutte le donne, ed è d’una altezza lirica sublime, perché getta le basi dell’umana convivenza.

Quando il supremo Fattore trasse dal profondo sopore di Adamo il bellissimo corpo della sua compagna, l’uomo, stupefatto, esclamò: «Questa è la virago, osso delle mie ossa e carne della mia carne. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre, e aderirà alla sua moglie, e saranno due in una sola carne.»

Per quanto anche dell’unione l’uomo abbia fatto mezzo di concupiscenza e oggetto di sterile piacere, non c’è poema che possa eguagliare l’incontro e la mescolanza di due anime e di due corpi.

È sempre poesia altissima — e lo sarà finché l’odio non distrugga l’umanità a colpi di bomba atomica — incontrarsi sotto la bianca luna, in due esseri che si cercano perché si amano.

È l’esaltazione dell’atto che chiama la creatura a partecipare della creazione; è il complemento necessario alla divina sinfonia che sale dalle cose create; è il suggello alla fatica dell’Operaio, tanto innamorato del proprio capolavoro da alitargli sul volto il suo stesso respiro.

* *

Diffida della filosofia tributaria in genere, cioè di quella che tende a sganciarsi dalla filosofia madre. Studia, specula quanto vuoi, ma a un dato momento nulla potrai risolvere e placare in te senza un atto di fede.

* *

A chi osserva che parlare del Creatore, in fondo, è trattare sempre uno stesso tema, rispondiamo che è vero, ma che si tratta di un tema inesauribile. Parlarne dunque,  e ascoltare per amore, significa “acquistare” sempre, perché l’uomo, creatura imperfetta, prende dalla creatura amata.

Solo Iddio, che è perfezione, arricchisce l’oggetto del suo amore.

 

Benigno Assunti

 

30 marzo 1947

giovedì, aprile 10, 2025

Pilato e Don Abbondio

I due personaggi stanno bene insieme perché, in fondo, «se ne lavano le mani». Ma Don Abbondio, qualche rischio lo affronta: l’ira di Renzo, che doveva attendersi scoppiasse un brutto giorno, quando il giovanotto si fosse accorto d’essere stato gabbato. L’altro invece — Pilato — ha qualcosa di ripugnante, che ben giustifica il perpetuarsi del suo gesto nel tempo, volgarizzato a eterna sua dannazione.

Il cattivo prete, dinanzi a Federico che lo tempesta di colpi — come soltanto i santi sanno fare — si scorda di essere al cospetto di un principe della Chiesa ed esplode in quelle parole che rivelano tutta la sua pavida natura: «Gli è perché le ho viste io quelle facce!»

Il dramma di quell’anima è tutto qui. Don Abbondio, badate, è un povero curato campagnolo che ama, magari, il buon bicchiere, il letto caldo e il caminetto rovente: faccia piena, passo cauto, animo mite. Lontano, lontanissimo dalla santità — d’accordo, tanto che non riesce a comprendere Federico — ma, alla fin fine, senza quella disavventura, sarebbe riuscito un prete mediocre (accidenti ai signori e ai loro capricci!). Tanto è umano lo sfogo di Don Abbondio, che Federico è quasi costretto a far macchina indietro e a domandarsi: «Già, cosa avrei fatto io al suo posto?»

Porsi, all’incirca, questo interrogativo è — se non giustificare — compatire l’altro. Pilato sa di aver a che fare col Figlio di Dio, e lo baratta con Barabba. Scade di fronte a sé stesso e al popolo, nell’investitura ricevuta da Cesare e da Dio. Per paura di Cesare, condanna a morte il suo Dio. Tanto è sicuro della divinità del Cristo, che sul patibolo scrive: «Gesù di Nazaret, Re dei Giudei», e resiste ai gran sacerdoti che protestano: «Devi scrivere: Costui ha detto: “sono re dei Giudei”»

Solo allora Pilato ritorna autoritario e risponde: «Quanto ho scritto, ho scritto», quasi a farsi perdonare il sangue versato, il consentito delitto, l’abominevole assassinio che l’inchioderà per sempre alla gogna, insieme ai tanti — ai troppi — seguaci, con un martello ben più pesante di quello della Croce.

Auro d’Alba

16 marzo 1947

mercoledì, aprile 09, 2025

Colonne

Una mano ha fermato a mezzo volo la Vittoria, che registra sullo scudo le gesta compiute contro i Daci; l’altra è mozza: presente il crollo definitivo. Pensi al gesto disperato di Sansone, giudice d’Israele, che volle seppellirsi coi nemici, tradito dalla sua concubina filistea.

Sorta la prima in un’epoca di fede e di martirio, già splende nel sole eterno della Croce;
l’altra è spezzata dalla cieca furia del tempo, che tutto macera, abbatte, distrugge.

L’una già respira nella Vita; l’altra è sconquassata dalla mano fredda della Morte.

Due civiltà? Forse due modi di vita: con Dio o contro Dio.

«Tutto si fece per mezzo di Lui e senza di Lui nulla fu fatto. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non la ricevettero.»

Cominciò da allora il lavorìo lento e inesorabile del tempo: da quando, cioè, Iddio disse ad Adamo: «La terra è maledetta per causa tua. Col sudore della tua fronte mangerai il pane
finché non ritornerai polvere.»

Gli uomini eressero templi agli dèi falsi e bugiardi, e il tempo li azzannò, e l’odio li corrose dalle fondamenta.

Le colonne si ammucchiarono fino alle più alte vette, poi sprofondarono nell’abisso.

«Ma stava per venire nel mondo la luce vera, ad illuminare tutti gli uomini. Egli era nel mondo, e il mondo per Lui fu fatto, e il mondo non Lo riconobbe. Venne nella sua casa, e i suoi non Lo accolsero. Ma a quanti Lo ricevettero diede il potere di diventare figliuoli di Dio.»

Dal Limbo al Paradiso.

Cristiano, questa è la tua Genesi. Il tuo Avo è Gesù. Tu non sei nato da sangue, né da volere di carne, né da volere d’uomo, ma solo da Dio. Da quando il Verbo si fece carne ed abitò fra noi, tu sei colonna della Sua Chiesa.

 

Auro d’Alba

9 marzo 1947

martedì, aprile 08, 2025

Il regno

«Nessuno, che dopo aver messo mano all’aratro volga indietro lo sguardo, è buono per il Regno di Dio.»

Talvolta noi crediamo crudeli, o, almeno, egoisti, quei chiamati da Dio che non si volgono a salutare neppure chi guarda dalla porta di casa. Ma sono, invece, anime già distanti, definitivamente perdute alla terra, perché guadagnate al Cielo.

* *

Preghiera:
Fa, o Signore, che nelle infime ribellioni, negli insoffocabili impulsi, nei momenti irrefrenabili, io non giunga mai a maledire il fratello, ma il male ch’è in lui. Fa — soprattutto — che nell’odiare quel male, io non dimentichi mai il tuo Discorso: «Beati i mansueti, perché essi erediteranno la terra».

* *

Combatti dunque il male che è in lui, ma amalo il tuo nemico, perché questo tuo ostile fratello è mezzo, è prova, è avvio di perfezione: una pietra del faticato lastrico che mena al Padre.

* *

L’eroismo è umano, la santità è sovrumana. Una volta aspiravo a quello, oggi non ambisco che a questa: e così dovrebbe ogni cristiano.
Ma noi della Verità e della Vita non siamo che larve.

* *

Mano a mano che procedi nel tempo, senti che la vita ti esclude. Ed è bene, perché il distacco totale sarà così meno doloroso.
Conforto ineffabile: quanto più ti respinge la terra, tanto più ti richiama il Cielo.
* *

Chi pecca odia, cioè rinnega l’Amore.
Dio è Amore, e perciò il peccato è contro Cristo.

* *

Lo so, fra i due alberi, quello dell’Eden e quello della Croce, è penoso scegliere quest’ultimo; ma tu devi considerare, fratello, che solo il secondo è albero di Vita.


2 marzo 1947

 

lunedì, aprile 07, 2025

Jean-Louis Chrétien: Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath

My review of Jean-Louis Chrétien: Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath, originally published in Phenomenological Reviews.

In Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath, Jean-Louis Chrétien (1952–2019) focuses on ten ordinary words which are also “decisive in the spiritual tradition,” as he explains in the Preface. Each word is a path, and in questioning them, Chrétien does not seek to master or define them, but rather to let them speak, to allow their resonance, their biblical, philosophical, and poetic echoes to unfold. The act of meditating on these words becomes a form of attentive listening, where language itself is received as a gift and thinking takes the form of response.

Originally published in 2009 under the title Pour reprendre et perdre haleine: dix brèves méditations, this is the first time the work has been translated into a foreign language.

The ten terms Chrétien explores are: breath (souffle), way (chemin), temptation (tentation), attention (attention), recollection (recueillement), blessing (bénédiction), peace (paix), gentleness (douceur), abandonment (abandon), and wound (blessure).

Each meditation may be read in isolation, but Chrétien suggests considering them as a progression that moves from the most general, breath, which also inspires the book’s title, to the most specific, wound, a theme he has explored in other works such as La joie spacieuse (2007). The trajectory is not linear or developmental in the traditional sense, but contemplative and intensifying: beginning with the elemental experience of breathing, Chrétien gradually draws the reader deeper into the vulnerabilities of human existence, until reaching the wound as the place where all previous themes converge. The wound, in Chrétien’s thought, is never merely a mark of suffering; it is a place of encounter, where fragility becomes the threshold of transcendence. Chrétien approaches these words with reverence and vulnerability, seeking not to explain them from without but to dwell with them from within, allowing the voice of tradition and the fragility of human existence to illuminate their hidden depths.

Chrétien’s style in these ten meditations (“brief meditations” in the original title Pour reprendre et perdre haleine: dix brèves méditations, published in 2009) is deliberately slow, poetic, and resonant. It resists systematic exposition and instead unfolds through a kind of contemplative circling, like a long-breathed conversation, in a low voice. This stylistic choice is not incidental; it mirrors the very rhythm of breath that structures the book: the inhalation of silent attention, and the exhalation of praise, surrender, or poetic invocation. Chrétien writes with what might be called a phenomenological lyricism. His prose blends philosophical reflection with scriptural allusion, patristic echoes, and poetic imagery, weaving a polyphony of voices such as Saint Teresa of Avila, Malebranche, Silesius, Dante, Kierkegaard, and above all Augustine, into a living tapestry of meaning. The result is a form of writing that is as much addressed to the heart as to the intellect. It invites not just interpretation, but inhabitation. One reads slowly, contemplatively, letting the words breathe rather than submitting them to conceptual closure. In this way, the style itself becomes a spiritual exercise: the reader must pause, attend, and receive, echoing the very structure of prayer that the book so gently evokes.

Chrétien’s dialogue with Augustine is particularly vital. Augustine is not merely cited but becomes a kind of subterranean guide. Chrétien draws on Augustine’s notion of the inner word (verbum mentis) and the dilated heart of Psalm 119 to articulate a theology of interiority oriented toward generosity and praise. The voice, for both Augustine and Chrétien, is where the soul becomes manifest, and the dilation of the heart signals the soul’s readiness to respond to God. In this way, Chrétien’s meditations do not simply echo Augustine; they translate Augustinian insight into phenomenological attentiveness.

“This book aims to be European,” Chrétien specifies in the Preface. In fact, each term is often explored in its semantic variations across major European languages, primarily French, but also Latin, German, Spanish, English, and Italian. Chrétien is attentive not only to etymology but to the spiritual and poetic nuance each linguistic tradition carries. For example, in the meditation on attention, the resonance of the Latin attendere (to stretch toward) contrasts subtly with the modern English “to attend,” which has lost its meaning of “waiting” while retaining that of vigilance and assistance. This philological sensitivity is never merely scholarly; it serves Chrétien’s larger spiritual and phenomenological aim: to illuminate how words, when listened to with care, become sites of lived experience and theological depth. Through this multilingual, intertextual weaving, Chrétien constructs a space that is unmistakably European in its cultural lineage, yet open to the universal dimensions of spiritual life. The small book thus positions itself not only as a contribution to philosophy or theology, but also as a work of cultural memory, echoing the shared breath of Europe’s literary, mystical, and philosophical traditions.

Although Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is among Chrétien’s more lyrical and accessible works, it remains firmly grounded in the philosophical commitments that shape his wider corpus. At the heart of Chrétien’s thought is the idea that human existence is fundamentally structured as response: we are not self-originating subjects but beings addressed by the world, by others, by God, and constituted in our capacity to answer. This response is not reducible to verbal or intellectual articulation; it is enacted through the body, and especially through the voice, which Chrétien in his La Voix nue (2007) has described as the site where interiority is exposed, offered, and made vulnerable. The voice is not a neutral instrument of expression; it is the manifestation of the self in its vulnerability. Unlike writing, which can be revised or deferred, the voice is immediate, ephemeral, and exposed. It gives the speaker before any content is communicated.

Breath, then, is not only physiological but metaphysical; it is the silent precondition of all voice, all responsibility, all praise. Each meditation in this volume can be seen as a variation on this theme: the human person as appelé à répondre, called to respond. Whether in attention, abandon, or blessing, the author emphasizes that we do not initiate meaning or mastery; we listen, receive, and offer ourselves in return. His phenomenology resists the ideal of sovereign subjectivity in favor of a relational approach in which being human means having been addressed first. This commitment aligns him with other figures associated with the so-called “theological turn” in French phenomenology, but Chrétien distinguishes himself by placing emphasis not on concepts like the invisible or the saturated phenomenon, but on the embodied, voiced, and prayed experience of being touched by transcendence. In this sense, Ten Meditations does not diverge from his more explicitly theoretical works as it enacts them, allowing his philosophy to take on a liturgical and poetic form.

The book does not fit neatly into any single genre or discipline. It is neither a philosophical treatise nor a theological tract; neither a devotional manual nor simply a collection of essays. It is all of these and more. Rooted in phenomenology, it adopts the stylistic cadence of spiritual writing. Its rigor lies in fidelity to lived experience, not conceptual closure. For this reason, it resists easy classification but rewards deep attention. Like the best of the mystical and poetic traditions from which it draws, its authority arises not from argument but from resonance.

A particularly illuminating insight into Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath comes from Andrew Prevot[1], who proposes that Chrétien’s meditations are not merely about prayer but are themselves a form of prayer or, more precisely, a text that invites the reader into a posture of prayer. According to Prevot, Chrétien’s style of writing, with its peculiar rhythm, tone, and theological poetics, functions analogously to lectio divina, the traditional Christian practice of slow, meditative, receptive reading of Scripture. Chrétien’s prose does not proceed by systematic demonstration or argumentative clarity; instead, it unfolds contemplatively, circling around key spiritual words such as souffle (breath), recueillement (recollection), bénédiction (blessing), and blessure (wound). These meditations are phenomenological in method, but liturgical in spirit, drawing the reader into a rhythm of interior attentiveness and affective response.

This rhythm is not incidental. As Chrétien makes clear in the opening meditation, which is also the one that inspires the title, breathing is not only a biological act but a spiritual posture. To breathe is to receive life from beyond oneself, to exist in openness, exposure, and dependency. The movement between catching one’s breath and losing it is not merely physiological, but theological: it names the structure of spiritual existence, in which one receives (grace, word, silence) and responds (in prayer, love, or abandonment). Chrétien’s meditations unfold this structure across ten variations, each tracing a movement from interiority to gift, from attention to response, from wound to song. His words operate in this sense not only as analysis but as invitation: the reader is called not to evaluate them critically from a distance, but to enter into them, to pray them, to let them reorder one’s breath.

Prevot highlights this feature with remarkable clarity: “Chrétien’s works are also spiritually edifying. They invite one not merely to think but to pray with them. Indeed, I believe it would be possible to turn to Chrétien as a spiritual guide, to go on a personal retreat structured by his books (perhaps especially the ten meditations in Pour reprendre et perdre haleine)”.[2] What Chrétien offers, then, is not simply a theory of prayer, but a form of philosophical praying, a writing that breathes with the cadences of invocation, silence, and praise. The language of the book is saturated with Scripture, poetry, and theological resonance, but it is never dogmatic or didactic. Instead, it is polyphonic and contemplative, weaving the reader into a web of listening. For Chrétien, as Prevot stresses, prayer is not a private act but a choral response to divine excess. This choral dimension is crucial: to pray is always to pray with others, even in solitude. Chrétien’s prose, by echoing voices from biblical characters, medieval mystics or modern poets, places the reader inside this community of response, and asks them to breathe in its rhythm.

This makes Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath a unique and remarkable work in the phenomenological tradition. It is a book that not only interprets spiritual experience, but that becomes spiritual experience, a kind of literary liturgy, a textual prayer. It does not aim at conceptual mastery but at spiritual transformation, leading the reader gently but insistently toward a more attentive, wounded, recollected, and surrendered existence. To read it, as Prevot notes, is to discover that “Chrétien has given us the gift of thinking prayer and praying thought.” The text breathes, and invites the reader to breathe with it — to catch one’s breath in wonder, and to lose it in love.

The rhythm named in the title — to catch and to lose one’s breath — is more than a poetic flourish; it is the structural and spiritual heart of the book. Chrétien uses this double movement to articulate a phenomenology of contemplation and self-gift. Reprendre haleine, to catch one’s breath, names the moment of interior gathering, a pause of attention and recollection in which one prepares to speak, to listen, or to act. This inhalation is not idle; it is a way of opening the self to receive what is given: from language, from others, from God. It is the very posture of prayer, of philosophical meditation, of poetic readiness. But Chrétien does not allow this moment to close in on itself. Each meditation ultimately gestures toward perdre haleine, losing one’s breath, which signifies not exhaustion but generous expenditure, surrender, and praise. The breath that is recollected in silence is given back in song, in blessing, in abandonment. The highest breath, Chrétien suggests, is not the one we keep, but the one we offer. This rhythm animates the entire progression of the meditations, from the elemental fragility of breath to the sharp exposure of the wound. Contemplation is not the opposite of action; it is its condition and its source. In this light, the book’s structure mirrors the logic of the gift: what is most interior becomes most truly itself when given away. In this, Chrétien articulates not only a phenomenology of prayer, but a vision of human existence grounded in receptivity and generosity: a life lived between the breath we receive and the breath we return.

It is fitting that the final meditation in the series is dedicated to blessure (wound). If souffle (breath) introduces us to our dependence, our need to receive life and meaning from beyond ourselves, blessure brings that vulnerability to its highest intensity. The wound is where the breath falters, where speech breaks, and where the self is opened, often involuntarily, to what exceeds it. Chrétien does not romanticize suffering, but neither does he treat the wound as merely a deficit to be healed. Rather, he sees in it a site of revelation and transformation. The wound is the mark of having been touched by love, by grief, by God, and it is often in the wound that the deepest form of prayer emerges: the silent cry, the sigh, the breath that can no longer be held. This final meditation gathers all the others by showing that every moment of attention, recollection, and blessing ultimately leads to a place where we are undone, not annihilated, but rendered porous to grace. The breath we have received and given finds its limit here, but also its completion. In the wound, Chrétien suggests, we are most exposed and most available to the divine. This is not the culmination of a dialectic, but the intensification of a rhythm: breath given, breath lost, self offered. The meditation on blessure thus brings the reader to the edge of voice, where silence is no longer absence but a form of communion — a shared fragility that opens onto transcendence.

Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is not only a work by Jean-Louis Chrétien. It is also a translation of his work by Steven DeLay, a novelist and philosopher himself. Translating Chrétien is no small task: his prose is dense with theological, philosophical, and poetic resonances; his style favors nuance, rhythm, and allusion over clarity and conciseness. Yet DeLay manages to preserve the contemplative cadence of the original French while rendering the text in an English that is both faithful and fluid. His translation succeeds not only in accuracy but in tone, and it breathes with the same reflective pace and reverent attention that mark Chrétien’s voice. Moreover, DeLay’s editorial presence enhances the volume in subtle but significant ways. His editorial footnotes, which were absent from the original French edition, serve to clarify linguistic choices, point the reader to relevant works by Chrétien, and provide essential theological or philosophical context where needed. These notes are never intrusive; rather, they assist the reader in navigating Chrétien’s references and concepts without disrupting the meditative flow. Importantly, in the Translator’s Introduction, DeLay recounts how this project began with Chrétien himself, who, the first time they met in 2017, among almost thirty published works, selected Pour reprendre et perdre haleine as the book he most wished to see translated by DeLay. This personal invitation adds a layer of fidelity and responsibility. DeLay is not only the translator, but the one entrusted by Chrétien to carry this particular voice across into English. In this sense, DeLay’s work goes beyond translation: it is a form of interpretive accompaniment, making the text more accessible to Anglophone readers while preserving its depth and integrity. In doing so, DeLay not only brings this important work into the hands of English-speaking readers, but also contributes meaningfully to the growing reception of Chrétien as a central figure in contemporary phenomenological theology, one whose voice, now more audible across linguistic boundaries, continues to challenge, console, and inspire.

The volume also includes a brief but illuminating foreword by Emmanuel Housset, one of Chrétien’s closest students and collaborators. Housset situates the book within the broader arc of Chrétien’s life and thought, and reads it as a “reminder of philosophy’s indebtedness to words. For it is in words that we think, it is also words that make us think”. (p. ix)

Taken as a whole, Ten Meditations for Catching and Losing One’s Breath is not a loosely connected sequence of spiritual essays, but a tightly woven theological and phenomenological meditation on what it means to live a life of attention, receptivity, and self-offering. It exemplifies Chrétien’s distinctive voice within the landscape of French phenomenology, a voice that insists on the primacy of response over initiative, of listening over mastery, of vulnerability over control. More quietly than his overtly theoretical works, this book nonetheless enacts many of the central motifs of Chrétien’s philosophical project: the structure of call and response, the exposure of the self through the voice, the liturgical nature of human embodiment, and the ethical demand that arises from being addressed. The meditations are phenomenological not because they analyze phenomena as such, but because they dwell in the phenomena of prayer, praise, recollection, and fragility without reducing them to abstract categories. In doing so, Chrétien gives us a rare kind of writing, at once philosophical and poetic, theological and personal, rigorous and prayerful. It is a book that does not merely speak about the breath; it breathes. And in doing so, it invites us to breathe with it, to catch our breath in silence and contemplation, and to lose it in love and praise.

Dr Angelo Bottone

Bibliography

Chrétien, Jean-Louis. La Voix nue: phénoménologie de la promesse. Paris: Minuit, 1990.

Chrétien, Jean-Louis. La Joie spacieuse: essai sur la dilatation. Paris: Minuit, 2007.

Chrétien, Jean-Louis. Saint Augustin et les actes de parole. Paris: Presses Universitaires de France, 2002.

Bloechl, Jeffrey. Fragility and Transcendence : Essays on the Thought of Jean-Louis Chrétien. Lanham: Rowman & Littlefield, 2023.

Gonzales, Philip John Paul, and McMeans, Joseph Micah (eds). Finitude’s Wounded Praise: Responses to Jean-Louis Chrétien. Eugene, Oregon: Cascade Books, 2023.

Peruzzotti, Francesca. “Human Spirituality: Jean-Louis Chrétien and the Vital Side of Speech” in Religions n. 7, vol .12 (2021), p. 511.

[1] Andrew Prevot, “Praying with Jean-Louis Chrétien,” in Geffrey Bloechl (Ed.) Fragility and Transcendence, Rowman and Littlefield, pp. 117–129.

[2] Ibid, p. 118.

Approdi

    1.  L’odio del malvagio contro il virtuoso è irriducibile. Confusamente egli sente che dall’altra parte è la           verità, e s’accanisce, perché la sola presenza del buono denuncia il male che è in sé.

  1. Io ho paura dell’uomo che nega. Lo considero un essere senza freno e senza controllo, fuori dell’orbita dell’umano consorzio, capace di ogni mala azione. Certo, è al di sotto della bestia che segue semplicemente il proprio istinto, mentre egli mette a servizio dell’istinto l’intelligenza.
  1. La differenza fra l’uomo, piccolo re dell’universo, e il mondo creato sta in ciò: che l’uomo ha coscienza di essere, mentre l’universo non l’ha. L’uomo sa di vivere e di morire, l’universo non lo sa. È questa la prova dell’umano privilegio.
  1. Fuggire il dolore è spesso atto di superbia dell’essere finito, del limite cui il dolore è strettamente legato, perché solo l’Infinito è pienezza di felicità. Affronta perciò il dolore e amalo come mezzo di espiazione che ti condurrà oltre il limite segnato, ossia: dalla terra al cielo.
  1. Combatti. Uccidi giorno per giorno la bestia che è in noi: non sarai da meno delle figure più celebri dell’umanità. Perché se l’eroismo è arduo, la virtù è sovrumana: quello, infatti, può essere espressione di un attimo; questa, è il risultato di un eroismo continuo.
  1. Lo so: quando ti sembra di aver toccato un vertice, ecco che ti ritrovi respinto alle falde del monte. La vita dell’uomo è un alternarsi di voli e di cadute. Quel che importa è rialzarsi e tornare a battere le ali.
    Solo l’uomo perduto più non le avverte, perché è invischiato nel fango.


23 febbraio 1947