Cari Amici,
la legge finanziaria 2005 ha previsto per l'anno 2006, a titolo sperimentale, un esempio di sussidiarietà fiscale.
Ogni contribuente può infatti destinare direttamente una quota pari al 5 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche a sostegno di enti non profit. Una facoltà innovativa, che non comporta alcun aggravio e che resta distinta dall'8 per mille.
La FONDAZIONE FUCI è stata inserita nell'elenco dei beneficiari e chiede il Vostro sostegno.
Nell'àmbito delle attività e dei fini statutari, quanto perverrà sarà utilizzato per il progetto di recupero e valorizzazione dell'Archivio storico che comprende documenti e stampati della F.U.C.I., del Movimento Laureati, oggi M.E.I.C., e alcuni fondi privati. Un Archivio che, anche grazie alle donazioni che lo incrementano, offre una certa ricchezza di fonti per la storia contemporanea.
Per la prima volta un programma organico prevede operazioni diverse - dal restauro, necessario ed urgente, delle carte alla realizzazione di inventari e indici, dalla nuova sistemazione dei materiali alla loro trasposizione in forma virtuale - ma tutte convergenti al fine di rendere fruibile un patrimonio non ancora sufficientemente conosciuto e studiato.
Un progetto oneroso per il quale non disponiamo di risorse commisurate e che vedrà impegnate professionalità specifiche, studiosi e giovani borsisti.
Se vorrete sostenerlo mediante la destinazione del 5 per mille, basterà scrivere il solo Codice Fiscale della FONDAZIONE FUCI - 96295330581 - e firmare nell'apposita sezione.
Considerati infine i mezzi che possiamo destinare a questa comunicazione, chiediamo a tutti di valutare l'opportunità di far conoscere ad altri amici il nostro messaggio.
Un saluto cordiale e un sentito ringraziamento.
Fondazione Fuci
Via della Conciliazione 1 - 00193 Roma
tel 0668307012 - fax 0668214598
Promemoria
Per destinare il 5 per mille alla FONDAZIONE FUCI:
- scrivere esattamente il Codice Fiscale 96295330581 nel riquadro "Sostegno del volontariato, delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, delle associazioni di promozione sociale, delle associazioni e fondazioni" riportato nei vari modelli di dichiarazione (CUD 2006, Mod. 730, Mod. UNICO)
- apporre la propria firma.
sabato, maggio 27, 2006
venerdì, maggio 26, 2006
A little litany
A little litany
When God turned back eternity and was young,
Ancient of Days, grown little for your mirth
(As under the low arch the land is bright)
Peered through you, gate of heaven--and saw the earth.
Or shutting out his shining skies awhile
Built you about him for a house of gold
To see in pictured walls his storied world
Return upon him as a tale is told.
Or found his mirror there; the only glass
That would not break with that unbearable light
Till in a corner of the high dark house
God looked on God, as ghosts meet in the night.
Star of his morning; that unfallen star
In that strange starry overturn of space
When earth and sky changed places for an hour
And heaven looked upwards in a human face.
Or young on your strong knees and lifted up
Wisdom cried out, whose voice is in the street,
And more than twilight of twiformed cherubim
Made of his throne indeed a mercy-seat.
Or risen from play at your pale raiment's hem
God, grown adventurous from all time's repose,
Or your tall body climbed the ivory tower
And kissed upon your mouth the mystic rose.
G. K. Chesterton
When God turned back eternity and was young,
Ancient of Days, grown little for your mirth
(As under the low arch the land is bright)
Peered through you, gate of heaven--and saw the earth.
Or shutting out his shining skies awhile
Built you about him for a house of gold
To see in pictured walls his storied world
Return upon him as a tale is told.
Or found his mirror there; the only glass
That would not break with that unbearable light
Till in a corner of the high dark house
God looked on God, as ghosts meet in the night.
Star of his morning; that unfallen star
In that strange starry overturn of space
When earth and sky changed places for an hour
And heaven looked upwards in a human face.
Or young on your strong knees and lifted up
Wisdom cried out, whose voice is in the street,
And more than twilight of twiformed cherubim
Made of his throne indeed a mercy-seat.
Or risen from play at your pale raiment's hem
God, grown adventurous from all time's repose,
Or your tall body climbed the ivory tower
And kissed upon your mouth the mystic rose.
G. K. Chesterton
giovedì, maggio 25, 2006
Europa effetto Zapatero
Il primo incontro fra Benedetto XVI e il nuovo ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede è stato l'occasione per un ulteriore confronto pubblico sulla politica sociale del governo Zapatero. La posizione della Chiesa - ribadita dal Santo Padre - e quella dell'esecutivo madrileno sono ormai largamente note. Così come è un dato consolidato il tono da ufficio ideologico del Pcus che caratterizza i comunicati del governo Zapatero, sapientemente alternati a false offerte di dialogo. La risposta piccata al discorso del Papa è anche il segno del grado estremo di secolarizzazione cui può giungere l'Europa: in nome di una concezione di modernità che si dà per acquisita ma che rivela un'ideologia ben precisa. Ciò che merita qualche ulteriore tentativo di riflessione è l'apparente ecumenismo di cui i socialisti spagnoli si ritengono portatori, oltre all'immagine del fenomeno religioso - in particolare, ovviamente, di quello cristiano nella storia spagnola - nello spazio pubblico che essi difendono. Secondo tale concezione, lo Stato spagnolo è aconfessionale e pertanto ogni distinzione fra i cittadini che professano la religione cattolica e i cittadini che non la professano è irrilevante nella sfera pubblica. Di conseguenza va superato il sistema di finanziamento della Chiesa basato anche su risorse pubbliche e l'insegnamento della religione cattolica va tenuto ben distinto dal catechismo. Lo Stato spagnolo, in altre parole, non intende imporre nulla ai suoi cittadini, ma si propone unicamente come il guardiano delle loro libertà. Ulteriore conseguenza di questo approccio è che tali libertà devono conoscere nella vita pubblica la più piena espansione possibile, mettendo da parte "vecchie" concezioni relative alla vita, alla famiglia e al matrimonio. La prima deve essere nella piena disponibilità dell'aspirante padre e dell'aspirante madre, liberalizzando al massimo sia le procedure per l'interruzione volontaria della gravidanza, sia quelle per la procreazione assistita (per questi fenomeni è pronta un'apposita espressione, «diritti riproduttivi», appena inserita nello Statuto della Catalogna, approvato poche settimane fa dal Parlamento). La seconda va liberata da concezioni arcaiche e trasformata nella proiezione delle aspirazioni individuali: di tutti con tutti, senza discriminazioni di genere. Essa deve essere un legame il più possibile leggero fra persone: con la conseguenza che, se qualcosa non va, il legame va sciolto con un divorzio express, in tempi più rapidi di quelli richiesti per contrarre matrimonio e senza neanche passare davanti a un giudice. Infine va ridotto all'impotenza e consegnato al suo luogo proprio, quello della sfera privata, il legame per eccellenza nella storia spagnola: la Chiesa cattolica, con la sua forza condizionante sui costumi e con la sua forza sociale oggi, che va ridotta al minimo, colpendola sia direttamente - ad esempio nelle forme di finanziamento - sia indirettamente - ad esempio indebolendo l'istruzione privata. Infine, fra i legami da dissolvere sembrerebbe esservi la stessa idea di Spagna, riletta quasi come una prigione di popoli diversi, con la conseguenza che baschi, catalani, galiziani (e forse altri), devono essere liberi di definire quanto e come vogliono ancora essere spagnoli. Questo tentativo di riassumere lo Zapatero-pensiero serve per esplicitare le concezioni che hanno caratterizzato i suoi primi due anni di mandato e che rappresentano ormai un modello ben preciso per la sinistra europea. Non ci è ancora dato sapere se il leader socialista, divenuto presidente per caso all'indomani degli attentati dell'11 marzo 2004 e della loro pessima gestione da parte del governo Aznar, resterà un buffo episodio della storia spagnola o se la sua via riuscirà ad incidere stabilmente sulla società spagnola. Ma poiché le concezioni ora accennate sono presenti, magari ad uno stato più articolato e problematico, anche in altri settori delle opinioni pubbliche europee, è bene prepararsi a fronteggiare le sfide intellettuali che esse pongono. È infatti lo zapaterismo il nuovo agente di innovazione (comunque lo si giudichi) della politica europea. E quindi ogni ragionamento critico ci sembra debba partire da una premessa di base: la critica ai legami, alla storia, alla tradizione e alle radici che la politica radicale del governo spagnolo presuppone. Il «liberi tutti» cui sembra indirizzarsi con la sua politica presuppone una concezione individualista che prima di essere sbagliata è semplicemente irreale. Proprio perché, al di fuori di una complessa rete di legami e di una storia, l'individuo non esiste. E la pericolosità di questa concezione dipende dal fatto che essa porta alle estreme conseguenze (finendo però per stravolgerla) un'idea che, in una versione moderata, non solo è alla base delle democrazie liberali, ma è anche il frutto del contributo principale del cristianesimo all'edificazione dell'Occidente: la dignità dell'uomo e la sua libertà. Ma la dignità e la libertà vanno "situate", calate in contesti concreti e soprattutto collegate a un'idea di bene comune che non può trovare la base nell'uomo come individuo isolato, ma che deve inevitabilmente valorizzare la sua proiezione sociale. Ecco, se c'è uno slogan per l'antizapaterismo, questo non è altro che la sussidiarietà sociale. Rileggere l'ordine del giorno Dossetti in Assemblea costituente è il migliore antidoto per iniziare a demitizzare il primo ministro spagnolo. Il quale non altro è che la riedizione di inizio millennio del vecchio liberalismo ottocentesco, che pareva ormai poco più che un simpatico residuo storico.
Marco Olivetti
Marco Olivetti
mercoledì, maggio 24, 2006
martedì, maggio 23, 2006
La fine della Monarchia in Italia. Il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946
Si avvicina il 2 giugno e vi segnalo un libro di prossima uscita.
"La fine della Monarchia in Italia. Il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946", Costantino Marco Editore.
L'autore è Francesco Bottone, noto frequentatore di questo blog nonché cugino del sottoscritto. La prefazione è di Gigi Speroni.
Riporto l'indice e due brani estratti dall'introduzione.
Per ulteriore informazioni, contattatemi direttamente o lasciate un messaggio nei commenti.
Introduzione
1. La fine della monarchia in Italia: attualità del tema
2. Ottobre 2002: l’abrogazione della XIII disposizione della Costituzione
3. L’articolo 139 della Costituzione
4. Il referendum istituzionale tra storia e politica
5. I metodi della ricerca e la struttura del lavoro
Capitolo Primo
Dalla crisi del fascismo al referendum istituzionale: un' introduzione storico-politica
1. Gli operatori politici del sistema politico post fascista
2. Le diverse posizioni sulla questione istituzionale
3. Il “suicidio” del regime fascista (25 luglio 1943)
4. La resa “incondizionata” (8 settembre 1943) e il Regno del Sud
5. L’Italia divisa, la guerra civile e la liberazione
6. I primi governi dell’Italia liberata e le amministrative del 1946
7. Gli Alleati e la questione istituzionale in Italia
8. La tradizione repubblicana
9. I partiti, il Quirinale e la Santa Sede verso il referendum
10. L’abdicazione di Vittorio Emanuele III
Capitolo Secondo
Il referendum istituzionale: Monarchia e Repubblica tra storia, diritto e politica
1. La campagna elettorale
2. Le operazioni di voto e le notizie contrastanti sui risultati
3. Il vantaggio monarchico e l’inspiegabile sorpasso repubblicano
4. La vittoria della repubblica, le contestazioni e i ricorsi
5. Le pressioni del Governo sulla Cassazione e l’iniziativa di Togliatti
6. La prima seduta della Cassazione (10 giugno 1946)
7. Il conflitto tra Governo e Quirinale
8. La scelta sofferta di Umberto II: l’esilio (13 giugno 1946)
9. La questione del quorum. La requisitoria del procuratore Pilotti
10. La seconda seduta della Cassazione (18 giugno 1946)
11. Una breve analisi del voto e considerazioni conclusive
Appendice
1. I governi dal 1943 al 1946
2. I dati riassuntivi del referendum istituzionale
Bibliografia
---
Il referendum del 1946 rappresenta il punto iniziale dell’attuale sistema politico italiano, il momento fondante delle istituzioni repubblicane. Quella consultazione referendaria è stata a lungo interpretata come episodio della lotta fra i partiti più che nel suo significato proprio, come momento cioè di una scelta affidata direttamente agli elettori, dopo anni in cui non avevano esercitato il diritto di voto, e per la prima volta nella storia italiana, anche all’elettorato femminile, che da solo rappresentava più della metà degli aventi diritto. Nonostante le passioni politiche, il popolo italiano, di fronte alla questione istituzionale, preferì alla soluzione rivoluzionaria l’espressione della propria volontà, legalmente manifestata in una consultazione elettorale. Ci si riconduceva, in un certo qual modo, al momento storico del Risorgimento, ai plebisciti per l’annessione, che furono la base politica e giuridica del Regno d’Italia.
Le analisi dei politologi e degli storici hanno individuato nella consociazione l’elemento più caratteristico del sistema politico italiano sin dalle sue origini, ma paradossalmente proprio uno strumento fortemente bipolare, come è appunto un referendum, è stato il frutto del compromesso tra l’Italia repubblicana e quella monarchica, ed è servito quindi a non far esplodere il contrasto sulla questione istituzionale tra i partiti centrali dello schieramento politico e in particolare nella Democrazia cristiana che raccoglieva consensi sia da una parte che dall’altra. La scelta repubblicana, che rappresenta una rottura netta nell’ordinamento istituzionale, grazie ad una serie di accordi che approdarono allo strumento referendario, negoziato con la monarchia, viene quindi ad iscriversi in una sostanziale continuità costituzionale.
[...]
Ci si è accostati alle divergenti letture di quegli avvenimenti prodotte dalla memorialistica monarchica e da quella repubblicana, avendo chiara coscienza del fatto che “il passato non esiste” in quanto tale, ma esso è una creazione culturale e politica. Dalle testimonianze dei protagonisti e dai racconti dei testimoni, sinteticamente riconducibili da un lato al libro di memorie dell’allora ministro dell’Interno, il socialista Romita, e dall’altro ai diari del ministro della Real Casa, il marchese Falcone Lucifero, emergono le tesi sostenute dai monarchici, che sarebbero state alla base delle contestazioni e dei ricorsi presentati contro i risultati del referendum e le posizioni dei repubblicani che invocavano la logica del fatto compiuto, cioè che dalle urne era uscita comunque una maggioranza favorevole alla repubblica.
"La fine della Monarchia in Italia. Il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946", Costantino Marco Editore.
L'autore è Francesco Bottone, noto frequentatore di questo blog nonché cugino del sottoscritto. La prefazione è di Gigi Speroni.
Riporto l'indice e due brani estratti dall'introduzione.
Per ulteriore informazioni, contattatemi direttamente o lasciate un messaggio nei commenti.
Introduzione
1. La fine della monarchia in Italia: attualità del tema
2. Ottobre 2002: l’abrogazione della XIII disposizione della Costituzione
3. L’articolo 139 della Costituzione
4. Il referendum istituzionale tra storia e politica
5. I metodi della ricerca e la struttura del lavoro
Capitolo Primo
Dalla crisi del fascismo al referendum istituzionale: un' introduzione storico-politica
1. Gli operatori politici del sistema politico post fascista
2. Le diverse posizioni sulla questione istituzionale
3. Il “suicidio” del regime fascista (25 luglio 1943)
4. La resa “incondizionata” (8 settembre 1943) e il Regno del Sud
5. L’Italia divisa, la guerra civile e la liberazione
6. I primi governi dell’Italia liberata e le amministrative del 1946
7. Gli Alleati e la questione istituzionale in Italia
8. La tradizione repubblicana
9. I partiti, il Quirinale e la Santa Sede verso il referendum
10. L’abdicazione di Vittorio Emanuele III
Capitolo Secondo
Il referendum istituzionale: Monarchia e Repubblica tra storia, diritto e politica
1. La campagna elettorale
2. Le operazioni di voto e le notizie contrastanti sui risultati
3. Il vantaggio monarchico e l’inspiegabile sorpasso repubblicano
4. La vittoria della repubblica, le contestazioni e i ricorsi
5. Le pressioni del Governo sulla Cassazione e l’iniziativa di Togliatti
6. La prima seduta della Cassazione (10 giugno 1946)
7. Il conflitto tra Governo e Quirinale
8. La scelta sofferta di Umberto II: l’esilio (13 giugno 1946)
9. La questione del quorum. La requisitoria del procuratore Pilotti
10. La seconda seduta della Cassazione (18 giugno 1946)
11. Una breve analisi del voto e considerazioni conclusive
Appendice
1. I governi dal 1943 al 1946
2. I dati riassuntivi del referendum istituzionale
Bibliografia
---
Il referendum del 1946 rappresenta il punto iniziale dell’attuale sistema politico italiano, il momento fondante delle istituzioni repubblicane. Quella consultazione referendaria è stata a lungo interpretata come episodio della lotta fra i partiti più che nel suo significato proprio, come momento cioè di una scelta affidata direttamente agli elettori, dopo anni in cui non avevano esercitato il diritto di voto, e per la prima volta nella storia italiana, anche all’elettorato femminile, che da solo rappresentava più della metà degli aventi diritto. Nonostante le passioni politiche, il popolo italiano, di fronte alla questione istituzionale, preferì alla soluzione rivoluzionaria l’espressione della propria volontà, legalmente manifestata in una consultazione elettorale. Ci si riconduceva, in un certo qual modo, al momento storico del Risorgimento, ai plebisciti per l’annessione, che furono la base politica e giuridica del Regno d’Italia.
Le analisi dei politologi e degli storici hanno individuato nella consociazione l’elemento più caratteristico del sistema politico italiano sin dalle sue origini, ma paradossalmente proprio uno strumento fortemente bipolare, come è appunto un referendum, è stato il frutto del compromesso tra l’Italia repubblicana e quella monarchica, ed è servito quindi a non far esplodere il contrasto sulla questione istituzionale tra i partiti centrali dello schieramento politico e in particolare nella Democrazia cristiana che raccoglieva consensi sia da una parte che dall’altra. La scelta repubblicana, che rappresenta una rottura netta nell’ordinamento istituzionale, grazie ad una serie di accordi che approdarono allo strumento referendario, negoziato con la monarchia, viene quindi ad iscriversi in una sostanziale continuità costituzionale.
[...]
Ci si è accostati alle divergenti letture di quegli avvenimenti prodotte dalla memorialistica monarchica e da quella repubblicana, avendo chiara coscienza del fatto che “il passato non esiste” in quanto tale, ma esso è una creazione culturale e politica. Dalle testimonianze dei protagonisti e dai racconti dei testimoni, sinteticamente riconducibili da un lato al libro di memorie dell’allora ministro dell’Interno, il socialista Romita, e dall’altro ai diari del ministro della Real Casa, il marchese Falcone Lucifero, emergono le tesi sostenute dai monarchici, che sarebbero state alla base delle contestazioni e dei ricorsi presentati contro i risultati del referendum e le posizioni dei repubblicani che invocavano la logica del fatto compiuto, cioè che dalle urne era uscita comunque una maggioranza favorevole alla repubblica.
domenica, maggio 21, 2006
Tesi congressuali FUCI Titolo Secondo 3
3. Invecchiamento rapido delle conoscenze e flessibilità professionale
Nei dati sull’occupazione dei laureati, s’è registrato come una condizione frequente sia quella dei contratti atipici, ovvero non stabili.
Nei circuiti su descritti emergono costantemente conoscenze nuove che subito sostituiscono quelle precedenti: ciò che con un’espressione anch’essa forse abusata si dice “obsolescenza rapida dei saperi”. Si tratta di uno dei cambiamenti che hanno spinto un ripensamento dei percorsi formativi, in una rincorsa alla novità tra diversi luoghi del sapere. Inoltre, prevalentemente ad essa si riconduce la scelta della flessibilità professionale, che recentemente s’è tradotta nell’applicazione della cosiddetta riforma Biagi. Ma quanto effettivamente le due tendenze, mobilità lavorativa e invecchiamento veloce delle competenze, possono essere fatte derivare in maniera diretta l’una dall’altra?
Senza entrare nel dettaglio di una legge non ancora a regime e fuori dalla portata delle nostre considerazioni, la scelta della flessibilità tout court sembra avere una sua motivazione nella differenziazione dei consumi, dei servizi pubblici, e nelle specializzazione delle competenze. Sembra parimenti vero che le differenze di sapere possono essere la causa di diversità occupazionali anche tra chi già lavora: ovvero l’aggiornamento, necessario per combattere l’invecchiamento delle proprie competenze, è una condizione di vantaggio per rimanere sul mercato del lavoro quando si sia già inseriti al suo interno. L’aggiornamento peraltro è più alla portata di chi ha già una solida preparazione di base, che va in teoria sempre migliorando. Se la stabilità professionale dipende dalla capacità e possibilità di seguire i cambiamenti delle proprie conoscenze, allora la formazione permanente diviene un’esigenza per tutti.
In questo senso, la flessibilità potrebbe essere un’occasione di arricchire i curricula, crescere sotto il profilo professionale e culturale, valorizzare l’iniziativa del singolo stimolandone la creatività, cambiare percorso e dunque aggiornarsi, a costo però che i passaggi da un lavoro all’altro vengano tutelati, altrimenti chi resta ferma troppo a lungo rischia di “invecchiare” irrimediabilmente. In questo senso, essenziali sono i soggetti promotori di formazione permanente, tra i quali un candidato d’eccezione è proprio l’università. Se non sembra che la flessibilità sia nella maggior parte dei casi un’opportunità, forse ciò è da attribuire a una sua interpretazione al ribasso, tesa semplicemente al cambiamento rapido di esperienza, senza troppa attenzione ai percorsi, alle possibilità di professionalizzazione e alla qualità del lavoro offerto. Questo può dipendere tra l’altro dalla mancanza di una cultura diffusa della formazione permanente; certamente si tratta di scelte non strettamente legate all’obsolescenza rapida dei saperi.
Purtroppo il long learning, la cui importanza a fronte della flessibilità è innegabile, non sembra interessare e impegnare tutti allo stesso modo. E’ vero che le università, forti del loro ruolo, stanno cominciando a prestare molta attenzione all’argomento, ma si muovono ancora su un territorio nuovo e in fase di sperimentazione: come si diceva, l’accademia da sola non basta. Infatti, un’efficace proposta di formazione continua richiede una rete ampia di enti. Perché se essa può essere una possibilità per far ricominciare da capo molti, per riaccendere la speranza in casi sociali non felici, da un’altra parte necessita di un sistema di appoggi e strutture che consentano i momenti di rientro o di aggiornamento tanto per i giovani laureati quanto per i padri di famiglia. Sembra servire un nuovo patto formativo ispirato da un’idea di crescita economica e sociale condivisa tra università e altre agenzie formative da un lato, istituzioni dall’altro. Una partita che, come quella dell’occupabilità dei laureati alla quale s’intreccia, si gioca tutta sul territorio.
4. Università e territorio
La riforma della didattica universitaria ha contribuito a determinare radicali cambiamenti degli Atenei soprattutto per quel che riguarda la loro organizzazione, riducendone l’autoreferenzialità e generando decentramento. Ciò ha favorito un potenziamento del rapporto con il territorio e di conseguenza con il mondo del lavoro.
Un passo fondamentale per l’integrazione tra università e territorio è il riconoscimento degli Atenei come soggetti costitutivi delle realtà produttive. Questo rapporto può essere utile anche per misurare la qualità dei progetti di sviluppo locale e la stessa coesione sociale.
In questa direzione, molti sono ancora i problemi che devono essere risolti. Infatti, può accadere spesso che gli Atenei non riescano a progettare attività simili anche a causa delle scarse risorse pubbliche loro rivolte e dello scarso intervento dei privati per rimpinguare i fondi. Eppure, già in altri Paesi europei è stata avviata una sperimentazione per rinforzare il rapporto tra il mondo della produzione e quello dei saperi. Purtroppo in Italia, e soprattutto nel Sud, una possibile sinergia tra queste due differenti realtà sembra ancora poco percorsa. Ciononostante, lentamente, si sta affermando l’idea che il valore di un territorio derivi direttamente dalla capacità di collegarsi con gli ambienti accademici e aziendali, dando origine ad una vera e propria struttura a rete. Questo sembra infatti una delle vie principali per sostenere i confronti con i contesti internazionali.
Un altro problema a creare la rete di cui si parla, oltre a quello già accennato dei fondi, è la difficoltà spesso incontrata a impiegare la conoscenza prodotta all’interno degli Atenei per fini extrascientifici. All’eccellenza della produzione dei saperi si può contrapporre una scarsa relazione interna ed esterna del mondo accademico. Così, le strutture universitarie corrono il rischio di diventare monadi, non in dialogo tra di loro. Questa tendenza non sembra però determinare l’alta specializzazione di un territorio, bensì sembra incoraggiare la frammentazione del sistema e della conoscenza. Infatti, la sintonia dell’università con il territorio può essere un incentivo a superare dei rigidi confini disciplinari della didattica universitaria.
Pensando al rapporto tra università e sviluppo, si può forse procedere a un’integrazione della famosa regola delle tre “T”, coniata da Richard Florid, per descrivere il successo della ricetta americana, ovvero Tecnologia, Talenti e Tolleranza: ad essi si può aggiungere appunto un’altra “T”, quella di Territorio. Ciò non significa incoraggiare quello che è stato definito una “disastrosa clonazione” degli Atenei su scala ridotta, i cosiddetti “Atenei bonsai”, perché probabilmente si tratta di una tendenza che deriva da altre esigenze. Ma il decentramento, l’autonomia e anche la creazione di nuovi poli universitari ha rafforzato i legami con il territorio, al fine di fronteggiare le domande locali e di interagire con i programmi di ricerca europei.
Un esempio di cooperazione tra sistema di formazione e sistema economico su base territoriale è stato il già citato progetto CampusOne, promosso dalla CRUI : esso ha consentito, tramite un percorso condiviso dai diversi attori portatori di interesse su un territorio, di giungere alla definizione comune degli obiettivi di determinati corsi di laurea, calibrati anche sulla richiesta del mercato di lavoro locale.
La preparazione di percorsi formativi simili richiede ovviamente cautela: se infatti da una parte essi permettono di rispondere a precise esigenze del mercato, dall’altro si corre il grave rischio di offrire una formazione settoriale o a rapida obsolescenza. Inoltre, simili preziose sperimentazioni incontrano ancora ostacoli nella loro realizzazione: essi possono essere di tipo tecnico (a.e. ricerca fondi), di tipo organizzativo, di comunicazione, come s’è verificato nel rapporto tra atenei, pubbliche amministrazioni e le imprese che non parlano un linguaggio comune. A questo si aggiunga la disinformazione e impreparazione del mondo produttivo sulla riforma universitaria e la fatica a dialogare con alcuni ordini professionali. Insomma, molti passi avanti sono stati fatti in questa direzione, ma sembra che altrettanti ne rimangano ancora da fare.
Nei dati sull’occupazione dei laureati, s’è registrato come una condizione frequente sia quella dei contratti atipici, ovvero non stabili.
Nei circuiti su descritti emergono costantemente conoscenze nuove che subito sostituiscono quelle precedenti: ciò che con un’espressione anch’essa forse abusata si dice “obsolescenza rapida dei saperi”. Si tratta di uno dei cambiamenti che hanno spinto un ripensamento dei percorsi formativi, in una rincorsa alla novità tra diversi luoghi del sapere. Inoltre, prevalentemente ad essa si riconduce la scelta della flessibilità professionale, che recentemente s’è tradotta nell’applicazione della cosiddetta riforma Biagi. Ma quanto effettivamente le due tendenze, mobilità lavorativa e invecchiamento veloce delle competenze, possono essere fatte derivare in maniera diretta l’una dall’altra?
Senza entrare nel dettaglio di una legge non ancora a regime e fuori dalla portata delle nostre considerazioni, la scelta della flessibilità tout court sembra avere una sua motivazione nella differenziazione dei consumi, dei servizi pubblici, e nelle specializzazione delle competenze. Sembra parimenti vero che le differenze di sapere possono essere la causa di diversità occupazionali anche tra chi già lavora: ovvero l’aggiornamento, necessario per combattere l’invecchiamento delle proprie competenze, è una condizione di vantaggio per rimanere sul mercato del lavoro quando si sia già inseriti al suo interno. L’aggiornamento peraltro è più alla portata di chi ha già una solida preparazione di base, che va in teoria sempre migliorando. Se la stabilità professionale dipende dalla capacità e possibilità di seguire i cambiamenti delle proprie conoscenze, allora la formazione permanente diviene un’esigenza per tutti.
In questo senso, la flessibilità potrebbe essere un’occasione di arricchire i curricula, crescere sotto il profilo professionale e culturale, valorizzare l’iniziativa del singolo stimolandone la creatività, cambiare percorso e dunque aggiornarsi, a costo però che i passaggi da un lavoro all’altro vengano tutelati, altrimenti chi resta ferma troppo a lungo rischia di “invecchiare” irrimediabilmente. In questo senso, essenziali sono i soggetti promotori di formazione permanente, tra i quali un candidato d’eccezione è proprio l’università. Se non sembra che la flessibilità sia nella maggior parte dei casi un’opportunità, forse ciò è da attribuire a una sua interpretazione al ribasso, tesa semplicemente al cambiamento rapido di esperienza, senza troppa attenzione ai percorsi, alle possibilità di professionalizzazione e alla qualità del lavoro offerto. Questo può dipendere tra l’altro dalla mancanza di una cultura diffusa della formazione permanente; certamente si tratta di scelte non strettamente legate all’obsolescenza rapida dei saperi.
Purtroppo il long learning, la cui importanza a fronte della flessibilità è innegabile, non sembra interessare e impegnare tutti allo stesso modo. E’ vero che le università, forti del loro ruolo, stanno cominciando a prestare molta attenzione all’argomento, ma si muovono ancora su un territorio nuovo e in fase di sperimentazione: come si diceva, l’accademia da sola non basta. Infatti, un’efficace proposta di formazione continua richiede una rete ampia di enti. Perché se essa può essere una possibilità per far ricominciare da capo molti, per riaccendere la speranza in casi sociali non felici, da un’altra parte necessita di un sistema di appoggi e strutture che consentano i momenti di rientro o di aggiornamento tanto per i giovani laureati quanto per i padri di famiglia. Sembra servire un nuovo patto formativo ispirato da un’idea di crescita economica e sociale condivisa tra università e altre agenzie formative da un lato, istituzioni dall’altro. Una partita che, come quella dell’occupabilità dei laureati alla quale s’intreccia, si gioca tutta sul territorio.
4. Università e territorio
La riforma della didattica universitaria ha contribuito a determinare radicali cambiamenti degli Atenei soprattutto per quel che riguarda la loro organizzazione, riducendone l’autoreferenzialità e generando decentramento. Ciò ha favorito un potenziamento del rapporto con il territorio e di conseguenza con il mondo del lavoro.
Un passo fondamentale per l’integrazione tra università e territorio è il riconoscimento degli Atenei come soggetti costitutivi delle realtà produttive. Questo rapporto può essere utile anche per misurare la qualità dei progetti di sviluppo locale e la stessa coesione sociale.
In questa direzione, molti sono ancora i problemi che devono essere risolti. Infatti, può accadere spesso che gli Atenei non riescano a progettare attività simili anche a causa delle scarse risorse pubbliche loro rivolte e dello scarso intervento dei privati per rimpinguare i fondi. Eppure, già in altri Paesi europei è stata avviata una sperimentazione per rinforzare il rapporto tra il mondo della produzione e quello dei saperi. Purtroppo in Italia, e soprattutto nel Sud, una possibile sinergia tra queste due differenti realtà sembra ancora poco percorsa. Ciononostante, lentamente, si sta affermando l’idea che il valore di un territorio derivi direttamente dalla capacità di collegarsi con gli ambienti accademici e aziendali, dando origine ad una vera e propria struttura a rete. Questo sembra infatti una delle vie principali per sostenere i confronti con i contesti internazionali.
Un altro problema a creare la rete di cui si parla, oltre a quello già accennato dei fondi, è la difficoltà spesso incontrata a impiegare la conoscenza prodotta all’interno degli Atenei per fini extrascientifici. All’eccellenza della produzione dei saperi si può contrapporre una scarsa relazione interna ed esterna del mondo accademico. Così, le strutture universitarie corrono il rischio di diventare monadi, non in dialogo tra di loro. Questa tendenza non sembra però determinare l’alta specializzazione di un territorio, bensì sembra incoraggiare la frammentazione del sistema e della conoscenza. Infatti, la sintonia dell’università con il territorio può essere un incentivo a superare dei rigidi confini disciplinari della didattica universitaria.
Pensando al rapporto tra università e sviluppo, si può forse procedere a un’integrazione della famosa regola delle tre “T”, coniata da Richard Florid, per descrivere il successo della ricetta americana, ovvero Tecnologia, Talenti e Tolleranza: ad essi si può aggiungere appunto un’altra “T”, quella di Territorio. Ciò non significa incoraggiare quello che è stato definito una “disastrosa clonazione” degli Atenei su scala ridotta, i cosiddetti “Atenei bonsai”, perché probabilmente si tratta di una tendenza che deriva da altre esigenze. Ma il decentramento, l’autonomia e anche la creazione di nuovi poli universitari ha rafforzato i legami con il territorio, al fine di fronteggiare le domande locali e di interagire con i programmi di ricerca europei.
Un esempio di cooperazione tra sistema di formazione e sistema economico su base territoriale è stato il già citato progetto CampusOne, promosso dalla CRUI : esso ha consentito, tramite un percorso condiviso dai diversi attori portatori di interesse su un territorio, di giungere alla definizione comune degli obiettivi di determinati corsi di laurea, calibrati anche sulla richiesta del mercato di lavoro locale.
La preparazione di percorsi formativi simili richiede ovviamente cautela: se infatti da una parte essi permettono di rispondere a precise esigenze del mercato, dall’altro si corre il grave rischio di offrire una formazione settoriale o a rapida obsolescenza. Inoltre, simili preziose sperimentazioni incontrano ancora ostacoli nella loro realizzazione: essi possono essere di tipo tecnico (a.e. ricerca fondi), di tipo organizzativo, di comunicazione, come s’è verificato nel rapporto tra atenei, pubbliche amministrazioni e le imprese che non parlano un linguaggio comune. A questo si aggiunga la disinformazione e impreparazione del mondo produttivo sulla riforma universitaria e la fatica a dialogare con alcuni ordini professionali. Insomma, molti passi avanti sono stati fatti in questa direzione, ma sembra che altrettanti ne rimangano ancora da fare.
sabato, maggio 20, 2006
Italiano all'estero
Ci sono momenti in cui un italiano all'estero si vergogna del proprio Paese. Quando, ad esempio, gli ex Presidenti della Repubblica vengono fischiati ed insultati da onorevoli (?) membri del Parlamento perché esprimono liberamente il proprio voto.
Disgraceful, simply disgraceful.
Disgraceful, simply disgraceful.
Ivy on Stone
I throw off my sheets
My ears and alarm clock ring to me
I'm sore as a sunburn
Staying up all night making paper doves I could leave with you
Every line I drew
It was all I ever knew of love
Oh that's not so, please listen close, he's not the center of your world.
It's like you're 12 years old, and what if I am? You forget the things you're told
Why ivy clings to stone, and what if it does? You leave for air and lose your home
And I start to wonder
Why the lights all fade away
Hey, stay awake, and don't steal my sun
Or the doves I made will leave you for the daylight
I've rolled up my sleeves
I'm plotting a course through deep green sea
The waves crash and I shake my knees
They won't hold me back, they're not anything
But they're the price I pay, they are all I ever knew of hate
Oh that's not so, please listen close, she's not the center of your world
Why ivy clings to stone, I still don't know why. your course leaves you alone.
sunflowers turn to stare, it's never enough. You look away and lose your home
i will climb this house, and lay in the sun
beneath the clouds, the sooner that I
can climb this house, and lay in the sun
beneath the clouds, the sooner i'll be home
And I start to wonder
Why the lights all fade away
Hey, stay awake, and don't steal my sun
Or the doves I made will leave you for the daylight
the more i know the more i wish i knew you
so i drew you little birds
to sing the words i won't say to you
but they do
Don't steal my sun,
or the doves i made will leave you for the daylight
My ears and alarm clock ring to me
I'm sore as a sunburn
Staying up all night making paper doves I could leave with you
Every line I drew
It was all I ever knew of love
Oh that's not so, please listen close, he's not the center of your world.
It's like you're 12 years old, and what if I am? You forget the things you're told
Why ivy clings to stone, and what if it does? You leave for air and lose your home
And I start to wonder
Why the lights all fade away
Hey, stay awake, and don't steal my sun
Or the doves I made will leave you for the daylight
I've rolled up my sleeves
I'm plotting a course through deep green sea
The waves crash and I shake my knees
They won't hold me back, they're not anything
But they're the price I pay, they are all I ever knew of hate
Oh that's not so, please listen close, she's not the center of your world
Why ivy clings to stone, I still don't know why. your course leaves you alone.
sunflowers turn to stare, it's never enough. You look away and lose your home
i will climb this house, and lay in the sun
beneath the clouds, the sooner that I
can climb this house, and lay in the sun
beneath the clouds, the sooner i'll be home
And I start to wonder
Why the lights all fade away
Hey, stay awake, and don't steal my sun
Or the doves I made will leave you for the daylight
the more i know the more i wish i knew you
so i drew you little birds
to sing the words i won't say to you
but they do
Don't steal my sun,
or the doves i made will leave you for the daylight
giovedì, maggio 18, 2006
martedì, maggio 16, 2006
Gli exit poll sul cancro
La bimba coi geni selezionati per essere "sana". Un esempio di pseudoscienza
(C) IL FOGLIO - 16 maggio 2006 - Editoriale di Giuliano Ferrara - pagina 3
Adesso i corifei del sogno laico del miglioramento dell'umanità potranno intonare i loro peana. L'eugenetica "buona" miete un grande successo: è stato selezionato un embrione senza il gene che poteva causargli il tumore della retina per eredità dalla madre. E' istruttivo leggere come è stata data la notizia. "Così non avrà il cancro", "la bimba che nascerà è completamente sana" - leggiamo sui giornali. E' bene sottolineare quel verbo al futuro – "non avrà" – quel verbo al presente – "è sana" – e l'avverbio "completamente". Nell'articolo di commento pubblicato sul Corriere della Sera, Giuseppe Remuzzi scrive che se i genitori non avessero fatto quella scelta "il bambino avrebbe avuto il 50 per cento di probabilità di avere il tumore". Se ne deduce in primo luogo – com'era peraltro ovvio – che quei verbi al futuro e al presente e quell'avverbio sono un'esimia cialtronata, un preclaro esempio di diffusione di informazioni scientifiche scorrette. Remuzzi ha quindi il merito di aver detto le cose come stanno, e quell'onesto 50 per cento induce a qualche ulteriore commento.
Da dove deriva questa stima, da quali dati empirici, da quali statistiche, con quali metodi è stata ricavata? Purtroppo, nel campo biomedico siamo abituati a un uso disinvolto del concetto di probabilità e a stime ricavate con una leggerezza maggiore di quella di cui si dà prova negli exit poll. Ci si imbatte sistematicamente in un uso del concetto di probabilità del tutto "soggettivo", ma non nel senso della teoria soggettivista delle probabilità dell'illustre matematico Bruno de Finetti, bensì nel senso più terra terra del termine. Viene da pensare che la stima del 50 per cento derivi dalla media tra la probabilità desiderata che l'evento si verifichi (100 per cento) e la stima di probabilità dettata dal timore di fare una figuraccia (0 per cento). Comunque, prendendo anche per buona questa stima, se ne desumono le qualità morali e scientifiche degli scienziati che hanno suggerito questo exploit "scientifico". In primo luogo, non si capisce chi possa garantire che, avendo migliorato le probabilità che il bambino non sia colpito da quella specifica malattia – un miglioramento comunque modesto, dato che nessun fattore ereditario implica la certezza di contrarre la malattia – non siano peggiorate le probabilità che se ne prenda un'altra anche peggiore, a causa di un altro gene malefico che il bambino scelto possiede (e che magari gli altri embrioni non possedevano). In secondo luogo – e non ci si accusi di fare discorsi da menagramo: non siamo tutti razionalisti? – è evidente che al bambino potrebbe toccare di cadere nel 50 per cento sfavorevole. Si sarà ottenuto un triste risultato al prezzo di scartare in laboratorio altre vite che forse avrebbero potuto vivere anche meglio.
Da qualsiasi punto di vista si esamini la questione, il punto cruciale è che la vita non è un processo deterministico. Quantomeno noi non abbiamo la minima ragione scientifica per ritenere che essa sia tale. Ancor meno abbiamo i mezzi scientifici per trattarla come se fosse un processo deterministico. La modesta alterazione della probabilità di prendere una specifica malattia ereditaria rappresenta una perturbazione minima nel corso della vita di una persona. Eppure questa modesta alterazione – di cui ci sono sconosciute gran parte delle conseguenze e delle implicazioni – ci viene venduta come una certezza di salute. Questo modo di agire è doppiamente colpevole: in quanto propone scelte prive di qualsiasi base scientifica seria e dense di implicazioni etiche inaccettabili. Consola sentire un crocchio di gente per strada che commenta che non avrebbe mai fatto una scelta come quella in nome di una stima di probabilità: c'è più cultura scientifica e senso etico in quel crocchio di gente comune che nel coro greco di certi intellettuali paladini della scienza che non sanno fare neppure un'addizione.
(C) IL FOGLIO - 16 maggio 2006 - Editoriale di Giuliano Ferrara - pagina 3
Adesso i corifei del sogno laico del miglioramento dell'umanità potranno intonare i loro peana. L'eugenetica "buona" miete un grande successo: è stato selezionato un embrione senza il gene che poteva causargli il tumore della retina per eredità dalla madre. E' istruttivo leggere come è stata data la notizia. "Così non avrà il cancro", "la bimba che nascerà è completamente sana" - leggiamo sui giornali. E' bene sottolineare quel verbo al futuro – "non avrà" – quel verbo al presente – "è sana" – e l'avverbio "completamente". Nell'articolo di commento pubblicato sul Corriere della Sera, Giuseppe Remuzzi scrive che se i genitori non avessero fatto quella scelta "il bambino avrebbe avuto il 50 per cento di probabilità di avere il tumore". Se ne deduce in primo luogo – com'era peraltro ovvio – che quei verbi al futuro e al presente e quell'avverbio sono un'esimia cialtronata, un preclaro esempio di diffusione di informazioni scientifiche scorrette. Remuzzi ha quindi il merito di aver detto le cose come stanno, e quell'onesto 50 per cento induce a qualche ulteriore commento.
Da dove deriva questa stima, da quali dati empirici, da quali statistiche, con quali metodi è stata ricavata? Purtroppo, nel campo biomedico siamo abituati a un uso disinvolto del concetto di probabilità e a stime ricavate con una leggerezza maggiore di quella di cui si dà prova negli exit poll. Ci si imbatte sistematicamente in un uso del concetto di probabilità del tutto "soggettivo", ma non nel senso della teoria soggettivista delle probabilità dell'illustre matematico Bruno de Finetti, bensì nel senso più terra terra del termine. Viene da pensare che la stima del 50 per cento derivi dalla media tra la probabilità desiderata che l'evento si verifichi (100 per cento) e la stima di probabilità dettata dal timore di fare una figuraccia (0 per cento). Comunque, prendendo anche per buona questa stima, se ne desumono le qualità morali e scientifiche degli scienziati che hanno suggerito questo exploit "scientifico". In primo luogo, non si capisce chi possa garantire che, avendo migliorato le probabilità che il bambino non sia colpito da quella specifica malattia – un miglioramento comunque modesto, dato che nessun fattore ereditario implica la certezza di contrarre la malattia – non siano peggiorate le probabilità che se ne prenda un'altra anche peggiore, a causa di un altro gene malefico che il bambino scelto possiede (e che magari gli altri embrioni non possedevano). In secondo luogo – e non ci si accusi di fare discorsi da menagramo: non siamo tutti razionalisti? – è evidente che al bambino potrebbe toccare di cadere nel 50 per cento sfavorevole. Si sarà ottenuto un triste risultato al prezzo di scartare in laboratorio altre vite che forse avrebbero potuto vivere anche meglio.
Da qualsiasi punto di vista si esamini la questione, il punto cruciale è che la vita non è un processo deterministico. Quantomeno noi non abbiamo la minima ragione scientifica per ritenere che essa sia tale. Ancor meno abbiamo i mezzi scientifici per trattarla come se fosse un processo deterministico. La modesta alterazione della probabilità di prendere una specifica malattia ereditaria rappresenta una perturbazione minima nel corso della vita di una persona. Eppure questa modesta alterazione – di cui ci sono sconosciute gran parte delle conseguenze e delle implicazioni – ci viene venduta come una certezza di salute. Questo modo di agire è doppiamente colpevole: in quanto propone scelte prive di qualsiasi base scientifica seria e dense di implicazioni etiche inaccettabili. Consola sentire un crocchio di gente per strada che commenta che non avrebbe mai fatto una scelta come quella in nome di una stima di probabilità: c'è più cultura scientifica e senso etico in quel crocchio di gente comune che nel coro greco di certi intellettuali paladini della scienza che non sanno fare neppure un'addizione.
sabato, maggio 13, 2006
Nuovo governo
Salvo ripensamenti dell'ultimo momento, questa dovrebbe essere la nuova squadra di governo.
Presidente del Consiglio: azioneparallela.
Ministero della Giustizia: mochetta.
Ministero della Difesa: wxre.
Ministero degli Esteri: etty.
Ministero degli Interni: marioadinolfi.
Ministero delle Riforme: windrosehotel.
Ministero delle Finanze: harry.
Ministero dei Beni Culturali: piccolozaccheo.
Ministero della Sanità: aftermidnight.
Ministero della Pubblica Istruzione: lostranierodielea.
Ministero dell'Ambiente: Fantastici quattro.
Ministero della Famiglia: annina e vincze.
Ministero delle Comunicazioni: simona.
Ministero delle Pari Opportunità: bernardo.
Ministero dell'Agricoltura: malvino.
Presidente del Consiglio: azioneparallela.
Ministero della Giustizia: mochetta.
Ministero della Difesa: wxre.
Ministero degli Esteri: etty.
Ministero degli Interni: marioadinolfi.
Ministero delle Riforme: windrosehotel.
Ministero delle Finanze: harry.
Ministero dei Beni Culturali: piccolozaccheo.
Ministero della Sanità: aftermidnight.
Ministero della Pubblica Istruzione: lostranierodielea.
Ministero dell'Ambiente: Fantastici quattro.
Ministero della Famiglia: annina e vincze.
Ministero delle Comunicazioni: simona.
Ministero delle Pari Opportunità: bernardo.
Ministero dell'Agricoltura: malvino.
venerdì, maggio 12, 2006
Excuse moi, noio, noio volevam savuar l'indiriss, ya...
Riporto integralmente un messaggio di posta elettronica dal titolo 'Lavori del combine', ricevuto ieri.
James Mossman Inc La condotta effettiva e i rapporti mercantili effettivi
La nostra compagnia ha ricevuto i Suoi dati dal ufficio solido per assunzione della potenza lavorativa. Pensiamo, che Lei può trovare un po? di tempo e non iscendo dalla casa Sua diventare un collèga della nostra organizzata benissimo compagnia.
SCOPO: ABBIAMO BISOGNO DI UN DEI PROGETTI.
Attualmente ci allarghiamo ed abbiamo quantita limitata dei posti, per lavorare con noi non c'e bisogno di avere la spesa da parte di Lei.
COSA LEI DEVE FARE:
1 Creare a posto un ufficcio ativo in vigore :
Quest’ufficio può essere il Suo luogo di abitare. L’unica necessità è : Lei deve avere la possibilità di ricevere la comunicazione per la posta elettronica e per telefono.
2 Fare l’assistenza ai menager superiori nella realizzazione della spedizione finanziaria dai clienti:
Ricevere la correspondenza dalla parte di compagnia al Suo indirizzo , rispondere la lettera per posta elettronica, realizzare risposta alle telefonate / aiuto ai clienti.
IL VANTAGGIO:
Non c’e bisogno di andare al lavoro , siccome Lei è independente e lavora diritto dalla casa Sua
Il Suo lavoro è assolutamente legale .
Lei può guadagnare da 3000 fino di 4000 euro dipende dal tempo, quale Lei dedica a questo lavoro .
Non c’e bisogno di spendere il Suo denaro.
DICHIARAZIONE (DEL ASSUNZIONE):
Diamo la garanzia del segreto dei Suoi dati. Nel caso che Suoi dati soddisfanno le nostre chieste , ci colleghiamo con Lei ( il nostro amministatore) per prendere una intervista per telefono oppure e- mail.
Per guardare attentamente la Sua dichiarazione , riempi, prego il quesionazio quale si trova giu è spediscalo indietro per nostro indirizzo elettronico : JamesMossman20@aol.com
Semplicemente coppia questo questionario nella lettera a noi
( per rispondere a noi )
Nome :
Cognome :
Paese :
Città:
Tel.cell.:
Tel.casalingo:
E-mail:
L'informazione supplementere per se:
Semplicemente coppia questo questionario nella lettera a noi
( per rispondere a noi )
Aspettiamo la Sua risposta nei tempi piu corti !
James Mossman Inc La condotta effettiva e i rapporti mercantili effettivi
La nostra compagnia ha ricevuto i Suoi dati dal ufficio solido per assunzione della potenza lavorativa. Pensiamo, che Lei può trovare un po? di tempo e non iscendo dalla casa Sua diventare un collèga della nostra organizzata benissimo compagnia.
SCOPO: ABBIAMO BISOGNO DI UN DEI PROGETTI.
Attualmente ci allarghiamo ed abbiamo quantita limitata dei posti, per lavorare con noi non c'e bisogno di avere la spesa da parte di Lei.
COSA LEI DEVE FARE:
1 Creare a posto un ufficcio ativo in vigore :
Quest’ufficio può essere il Suo luogo di abitare. L’unica necessità è : Lei deve avere la possibilità di ricevere la comunicazione per la posta elettronica e per telefono.
2 Fare l’assistenza ai menager superiori nella realizzazione della spedizione finanziaria dai clienti:
Ricevere la correspondenza dalla parte di compagnia al Suo indirizzo , rispondere la lettera per posta elettronica, realizzare risposta alle telefonate / aiuto ai clienti.
IL VANTAGGIO:
Non c’e bisogno di andare al lavoro , siccome Lei è independente e lavora diritto dalla casa Sua
Il Suo lavoro è assolutamente legale .
Lei può guadagnare da 3000 fino di 4000 euro dipende dal tempo, quale Lei dedica a questo lavoro .
Non c’e bisogno di spendere il Suo denaro.
DICHIARAZIONE (DEL ASSUNZIONE):
Diamo la garanzia del segreto dei Suoi dati. Nel caso che Suoi dati soddisfanno le nostre chieste , ci colleghiamo con Lei ( il nostro amministatore) per prendere una intervista per telefono oppure e- mail.
Per guardare attentamente la Sua dichiarazione , riempi, prego il quesionazio quale si trova giu è spediscalo indietro per nostro indirizzo elettronico : JamesMossman20@aol.com
Semplicemente coppia questo questionario nella lettera a noi
( per rispondere a noi )
Nome :
Cognome :
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Città:
Tel.cell.:
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E-mail:
L'informazione supplementere per se:
Semplicemente coppia questo questionario nella lettera a noi
( per rispondere a noi )
Aspettiamo la Sua risposta nei tempi piu corti !
giovedì, maggio 11, 2006
Gianni Lattanzio
Non credo di avere molti lettori romani comunque, miei cari affezionati, se il 28 e 29 maggio siete chiamati a rinnovare il Consiglio Comunale della città di Roma, non posso che consigliarvi il carissimo amico Gianni Lattanzio.
(Patrizia, almeno tu, facci 'sto piacere)
(Patrizia, almeno tu, facci 'sto piacere)
mercoledì, maggio 10, 2006
E chi sono io, Babbo Natale?
I lettori di questo blog non finiscono di sorprendermi.
Oggi ho ricevuto un messaggio da uno studente, italiano, che deve consegnare la propria tesi di laurea fra quindici giorni e si è accorto che io ho letto alcuni libri particolarmente importanti per la sua ricerca. Lo studente in questione, non avendo molto tempo a disposizione, mi ha chiesto cortesemente di riassumergli le opere in poche righe. ?!?!
Sentite che finezza: " ... non avendo il tempo per trovare i testi e cercando su internet, ho visto che lei citava nel suo blog il testo di xxxx, volevo chiederle se cortesemente in poche rige poteva scrivere qualcosa sulla critica positiva o negativa di xxxx o (se li ha letti) di altri autori circa il pensiero MORALE di zzzz".
E chi sono io? Babbo Natale?
L'altro giorno mi chiama un signore, irlandese, chiedendo lezioni private per il figlio: 'Ha gli esami fra 10 giorni e non ha studiato, non ha nemmeno presentato l'elaborato. Non è che può aiutarlo lei?'. (Traduzione: non è che può scriverlo lei l'elaborato?)
'Bene', gli dico io, 'in che anno si trova suo figlio?'
'Primo anno'
'Che materia?'
'Antropologia filosofica ed etica'
'Benissimo. Guardi, suo figlio potrebbe essere uno dei miei alunni quindi mai e poi mai posso farmi pagare per una lezione. Mi caccerebbero subito dal dipartimento. Anzi, visto che ci siamo, com'è che si chiama suo figlio?'
'Ah no, ... no, ... grazie, arrivederci'.
Cari studenti svogliati ed in ritardo, lo studio è fatica e la laurea bisogna meritarsela.
Comunque non sono così cattivo. Allo studente italiano un piccolo favore, ma proprio piccolo, gliel'ho fatto. Gratis, per questa volta.
martedì, maggio 09, 2006
Tesi congressuali FUCI Titolo Secondo 2
1.3 La ricerca italiana
Un dato su tutti certo preoccupa: solo lo 0.9 % del PIL italiano viene investito in ricerca. Anche per i non addetti ai lavori, la cifra sembra bassa, ma un confronto con gli altri Paesi dell’UE conferma come essa sia addirittura irrisoria: arriva a 4.5 % in Svezia, si attesta al 2.5 % per Danimarca e Germania, 2 % per Belgio e Francia. L’Italia è dietro tutti questi Paesi, sotto la media europea, tra gli ultimi posti (Dati CRUI ).
Passando dai soldi alle persone, il numero dei ricercatori italiani è la metà di quello medio a livello continentale. Per giunta, i nostri studiosi sono tra i più vecchi e i meno retribuiti. Eppure, lavorano molto e bene: nel confronto europeo, non sfiguriamo per numeri di brevetti e pubblicazioni . Anzi, secondo un recente rapporto approntato dal CIVR (Comitato Italiano Valutazione della Ricerca), nuovo organismo di valutazione, la ricerca italiana è di buona qualità (eccellente addirittura nel 30% dei casi), produce un buon tasso di brevetti e presenta una discreta performance scientifica .
Ma andando oltre i confini nazionali, la situazione si arricchisce di luci e ombre. Infatti, se si considera l’impatto della ricerca italiana all’estero, secondo un complesso criterio di valutazione che fa interagire titoli e citazioni, si rileva che l’Italia produce molte pubblicazioni che però sono poco riprese dagli studiosi di altre nazioni. Il nostro Paese presenta molti ambiti di studio che raggiungono l’eccellenza, altri in evoluzione, tuttavia la crescita complessiva della ricerca italiana secondo alcuni non è in linea con la media europea .
Trascurata, adulata, mal nutrita, ma volenterosa e brava a scuola: la ricerca italiana sembra oggi una studentessa con ottime potenzialità cui però si deve dare più sostegno e fiducia, per potersi esprimere al meglio. Anche per evitare che fugga di casa. Non è solo la cosiddetta fuoriuscita dei cervelli a preoccupare: si tratta di un fenomeno rilevante, per ovviare alla ristrettezze italiane, ma anche effetto dell’internazionalizzazione della ricerca e di una mobilità globale sempre più naturale. Il problema sembra piuttosto che l’Italia non riesca a organizzare il rientro e soprattutto che non sia un centro d’attrazione per i cervelli stranieri, al fine di rimpiazzare le perdite e inserirsi in un virtuoso circuito di scambio internazionale. Così facendo, si perde una scommessa con la crescita della società della conoscenza italiana. Inoltre, l’università ha bisogno dei cervelli anche per la trasmissione dei saperi. Non si dimentichi infatti che didattica e ricerca sono due inseparabili polmoni dell’università italiana, come da lunga tradizione e come ribadito dal processo di Bologna.
Ad ogni modo, sempre auspicando finanziamenti più sostanziosi e un intervento statale più deciso il rilancio della ricerca italiana, come affermato da più parti, sembra possibile grazie alla creazione di una rete tra università, enti di ricerca, mondo produttivo. Ma a fronte di questa possibilità, che pure in alcuni territori comincia a trovare concrete realizzazioni, per un giovane che guardi al mondo della ricerca, nell’ambito accademico, il problema sembra ancora l’accesso, ad oggi lungo, confuso e poco incoraggiante: il recente riordino della docenza universitaria non sembra aver semplificato né reso più sicuri i percorsi per divenire ricercatori. Non è un caso se poi in molti si dedicano alla ricerca in un contesto extra accademico.
2. “Dov’è la conoscenza?” Università e altri luoghi del sapere
Un dato tra quelli ricordati spinge a chiedersi: se molti laureati decidono di perfezionare la loro preparazione con percorsi extra accademici, allora l’università non fornisce tutte le conoscenze per affrontare il mondo del lavoro? Deve farlo? Dove farlo?
Nelle nostre società, l’innovazione, soprattutto quella tecnologica, accelera il cambiamento nella produzione di merci e servizi: tutto cambia in fretta e così anche il mondo produttivo deve adeguarsi. Si aggiunga poi un tasso diffuso di cultura media, caratteristica di quello che da alcuni è stato definito il “consumatore esigente”. Il lavoro dunque si specializza per seguire un mercato in continuo mutamento e le strutture cercano di divenire learning, ovvero capaci di apprendere dall’esterno e frequentemente. In questa situazione in cui “saper fare” un determinato prodotto o fornire un particolare servizio si impara quasi sul campo, è facile chiedersi dove sia quella conoscenza come su descritta che produce benessere sociale e valore aggiunto in campo economico. Non si tratta di una domanda mirata solo a capire come funzionino i canali dell’occupabilità, bensì un modo per interrogarsi sulla nuova mission del sistema universitario.
Infatti, è abbastanza chiaro che il tipo di sapere descritto si acquisisce in tempi e modi diversi tra i differenti ambiti: è necessaria l’esperienza professionale, nei territori e nelle reti internazionali, come lo è una buona formazione di base che solo agenzie formative di qualità possono fornire. Ma non si può più delegare la preparazione completa alla professione esclusivamente all’università, come a nessun altra singola istituzione. Si tratta di un concetto ormai assimilato sia da parte del mondo produttivo, che dimostra sempre più interesse per la formazione, sia da parte del mondo accademico.
La nostra università, accusata spesso in passato, e non sempre a torto, di autoreferenzialità, si dimostra oggi più estroversa, spesso in dialogo con il mondo dell’occupazione, anche per orientare la propria offerta formativa e accreditarla presso la sfera extraccademica. Non si tratta solo di superare i punti di mismatch (non incontro) tra domanda e offerta di lavoro, pure una preoccupazione etica importante, ma di proporre l’accademia come un attore dinamico nell’interpretare le esigenze della società, tentando una sua risposta dopo anni di disattenzione. Così, le università (si parla al plurale perché è un discorso legato ai territori) non inseguono il mercato o non eseguono le committenze dei soggetti portatori d’interesse nei loro riguardi, bensì siedono a tavolo con loro, collaborando in piena autonomia, individuando campi in cui orientare i programmi dei propri percorsi, costruendo un’offerta intelligibile al mondo del lavoro. Gli atenei iniziano a pensare in un’ottica di sistema. Le parole d’ordine, da entrambi i versanti, sono integrazione e interazione tra i diversi soggetti: anche per intercettare un saper fare fluido, che trova comunque il suo centro ineliminabile nell’elaborazione del singolo.
Molti possono essere i prodotti dell’integrazione: spin off, accordi su stage ed esperienze lavorative, occasioni di occupabilità, protocolli d’intesa , investimenti di privati su ricerca e innovazione. Molta strada sembra ancora da fare, anche perché bisogna superare le differenze di linguaggi tra mondo accademico e produttivo, ma al di là dei risultati concreti, l’importante è stato porsi per la prima volta il problema del ruolo dell’università nella società della conoscenza e quello della sottoutilizzazione di giovani con percorsi formativi alti. Ma l’ansia di recuperare il tempo perduto su questo campo non deve portare proposte superficiali o tempi frettolosi, né un’asimmetria nei rapporti tra gli attori in causa, rischio che richiede trasparenza reciproca e regole condivise.
L’integrazione può avvalersi di un ampio spettro di strumenti: tirocini, stage, docenze esterne. Essa passa per uno strumento previsto dalla 509, la consultazione, ovvero una condivisione, tra tutti i soggetti esterni all’accademia ma portatori d’interesse in un territorio, delle scelte in merito ai processi formativi, passati in seguito al vaglio di nuclei di valutazione ad hoc. Le esperienze già avviate in questo senso avvertono che, durante la progettazione di un percorso formativo, che ha una lunga attuazione, non si può prevedere quali saranno le esigenze del mercato del lavoro dopo cinque o dieci anni, né si può programmare il corso di studio sulle esigenze del momento, altrimenti i primi laureati di quel corso arriveranno sul mercato di lavoro con competenze già superate. Allora, di sicuro non si può appiattire l’offerta didattica sulle esigenze di mercato ma bisogna continuare a insegnare ad imparare. Niente di nuovo sotto il sole, si potrà pensare, ma non si tratta esattamente dello stesso insegnamento del passato, perché i saperi da acquisire sono diversi e fanno la differenza: esso si concretizzerà in discipline di base, altre caratterizzanti delle aeree specialistiche e occasioni per metter in campo quanto appreso (in questa linea sembra andare lo stage sempre più adottato anche nelle triennali). Oltre che luogo di rientro costante per l’aggiornamento, importante riferimento in un life long learning system, l’università dovrebbe fornire l’impostazione di studio per poter poi tornare nelle aule, ovvero il metodo per continuare ad apprendere, quando apprendere in continuazione non è più solo un atteggiamento intellettuale ma un’esigenza per non rimanere indietro sui continui cambiamenti e rischiare di rimanere esclusi dai sistemi produttivi.
E’ questo un problema che non riguarda solo il singolo ma anche le istituzioni, perché la crescita del Paese sembra legata tanto alla qualità del capitale umano prodotto quanto alla quantità che ne viene preservata. In questa direzione, sembrano ancora da risolvere importante nodi, forse resistenze a una circolazione e condivisione del sapere come su descritto: da una parte la questione degli ordini professionali, il loro atteggiamento verso le nuove lauree, che forse può portare a interrogarsi su una riforma del mondo delle professioni; dall’altra quella delle pubbliche amministrazioni, il cui accesso è regolato da concorsi sempre più rari, e che difficilmente riescono a entrare nella rete su prospettata . Ma si tratta di un discorso fuori dal sistema accademico e che non copre i segnali positivi di un’università sempre più rivolta al networking. Che è poi un modo per ammettere con umiltà e onestà intellettuale che non tutto il sapere può concentrarsi in una sola esperienza: questa sì una lezione di vita alla vecchia maniera.
Un dato su tutti certo preoccupa: solo lo 0.9 % del PIL italiano viene investito in ricerca. Anche per i non addetti ai lavori, la cifra sembra bassa, ma un confronto con gli altri Paesi dell’UE conferma come essa sia addirittura irrisoria: arriva a 4.5 % in Svezia, si attesta al 2.5 % per Danimarca e Germania, 2 % per Belgio e Francia. L’Italia è dietro tutti questi Paesi, sotto la media europea, tra gli ultimi posti (Dati CRUI ).
Passando dai soldi alle persone, il numero dei ricercatori italiani è la metà di quello medio a livello continentale. Per giunta, i nostri studiosi sono tra i più vecchi e i meno retribuiti. Eppure, lavorano molto e bene: nel confronto europeo, non sfiguriamo per numeri di brevetti e pubblicazioni . Anzi, secondo un recente rapporto approntato dal CIVR (Comitato Italiano Valutazione della Ricerca), nuovo organismo di valutazione, la ricerca italiana è di buona qualità (eccellente addirittura nel 30% dei casi), produce un buon tasso di brevetti e presenta una discreta performance scientifica .
Ma andando oltre i confini nazionali, la situazione si arricchisce di luci e ombre. Infatti, se si considera l’impatto della ricerca italiana all’estero, secondo un complesso criterio di valutazione che fa interagire titoli e citazioni, si rileva che l’Italia produce molte pubblicazioni che però sono poco riprese dagli studiosi di altre nazioni. Il nostro Paese presenta molti ambiti di studio che raggiungono l’eccellenza, altri in evoluzione, tuttavia la crescita complessiva della ricerca italiana secondo alcuni non è in linea con la media europea .
Trascurata, adulata, mal nutrita, ma volenterosa e brava a scuola: la ricerca italiana sembra oggi una studentessa con ottime potenzialità cui però si deve dare più sostegno e fiducia, per potersi esprimere al meglio. Anche per evitare che fugga di casa. Non è solo la cosiddetta fuoriuscita dei cervelli a preoccupare: si tratta di un fenomeno rilevante, per ovviare alla ristrettezze italiane, ma anche effetto dell’internazionalizzazione della ricerca e di una mobilità globale sempre più naturale. Il problema sembra piuttosto che l’Italia non riesca a organizzare il rientro e soprattutto che non sia un centro d’attrazione per i cervelli stranieri, al fine di rimpiazzare le perdite e inserirsi in un virtuoso circuito di scambio internazionale. Così facendo, si perde una scommessa con la crescita della società della conoscenza italiana. Inoltre, l’università ha bisogno dei cervelli anche per la trasmissione dei saperi. Non si dimentichi infatti che didattica e ricerca sono due inseparabili polmoni dell’università italiana, come da lunga tradizione e come ribadito dal processo di Bologna.
Ad ogni modo, sempre auspicando finanziamenti più sostanziosi e un intervento statale più deciso il rilancio della ricerca italiana, come affermato da più parti, sembra possibile grazie alla creazione di una rete tra università, enti di ricerca, mondo produttivo. Ma a fronte di questa possibilità, che pure in alcuni territori comincia a trovare concrete realizzazioni, per un giovane che guardi al mondo della ricerca, nell’ambito accademico, il problema sembra ancora l’accesso, ad oggi lungo, confuso e poco incoraggiante: il recente riordino della docenza universitaria non sembra aver semplificato né reso più sicuri i percorsi per divenire ricercatori. Non è un caso se poi in molti si dedicano alla ricerca in un contesto extra accademico.
2. “Dov’è la conoscenza?” Università e altri luoghi del sapere
Un dato tra quelli ricordati spinge a chiedersi: se molti laureati decidono di perfezionare la loro preparazione con percorsi extra accademici, allora l’università non fornisce tutte le conoscenze per affrontare il mondo del lavoro? Deve farlo? Dove farlo?
Nelle nostre società, l’innovazione, soprattutto quella tecnologica, accelera il cambiamento nella produzione di merci e servizi: tutto cambia in fretta e così anche il mondo produttivo deve adeguarsi. Si aggiunga poi un tasso diffuso di cultura media, caratteristica di quello che da alcuni è stato definito il “consumatore esigente”. Il lavoro dunque si specializza per seguire un mercato in continuo mutamento e le strutture cercano di divenire learning, ovvero capaci di apprendere dall’esterno e frequentemente. In questa situazione in cui “saper fare” un determinato prodotto o fornire un particolare servizio si impara quasi sul campo, è facile chiedersi dove sia quella conoscenza come su descritta che produce benessere sociale e valore aggiunto in campo economico. Non si tratta di una domanda mirata solo a capire come funzionino i canali dell’occupabilità, bensì un modo per interrogarsi sulla nuova mission del sistema universitario.
Infatti, è abbastanza chiaro che il tipo di sapere descritto si acquisisce in tempi e modi diversi tra i differenti ambiti: è necessaria l’esperienza professionale, nei territori e nelle reti internazionali, come lo è una buona formazione di base che solo agenzie formative di qualità possono fornire. Ma non si può più delegare la preparazione completa alla professione esclusivamente all’università, come a nessun altra singola istituzione. Si tratta di un concetto ormai assimilato sia da parte del mondo produttivo, che dimostra sempre più interesse per la formazione, sia da parte del mondo accademico.
La nostra università, accusata spesso in passato, e non sempre a torto, di autoreferenzialità, si dimostra oggi più estroversa, spesso in dialogo con il mondo dell’occupazione, anche per orientare la propria offerta formativa e accreditarla presso la sfera extraccademica. Non si tratta solo di superare i punti di mismatch (non incontro) tra domanda e offerta di lavoro, pure una preoccupazione etica importante, ma di proporre l’accademia come un attore dinamico nell’interpretare le esigenze della società, tentando una sua risposta dopo anni di disattenzione. Così, le università (si parla al plurale perché è un discorso legato ai territori) non inseguono il mercato o non eseguono le committenze dei soggetti portatori d’interesse nei loro riguardi, bensì siedono a tavolo con loro, collaborando in piena autonomia, individuando campi in cui orientare i programmi dei propri percorsi, costruendo un’offerta intelligibile al mondo del lavoro. Gli atenei iniziano a pensare in un’ottica di sistema. Le parole d’ordine, da entrambi i versanti, sono integrazione e interazione tra i diversi soggetti: anche per intercettare un saper fare fluido, che trova comunque il suo centro ineliminabile nell’elaborazione del singolo.
Molti possono essere i prodotti dell’integrazione: spin off, accordi su stage ed esperienze lavorative, occasioni di occupabilità, protocolli d’intesa , investimenti di privati su ricerca e innovazione. Molta strada sembra ancora da fare, anche perché bisogna superare le differenze di linguaggi tra mondo accademico e produttivo, ma al di là dei risultati concreti, l’importante è stato porsi per la prima volta il problema del ruolo dell’università nella società della conoscenza e quello della sottoutilizzazione di giovani con percorsi formativi alti. Ma l’ansia di recuperare il tempo perduto su questo campo non deve portare proposte superficiali o tempi frettolosi, né un’asimmetria nei rapporti tra gli attori in causa, rischio che richiede trasparenza reciproca e regole condivise.
L’integrazione può avvalersi di un ampio spettro di strumenti: tirocini, stage, docenze esterne. Essa passa per uno strumento previsto dalla 509, la consultazione, ovvero una condivisione, tra tutti i soggetti esterni all’accademia ma portatori d’interesse in un territorio, delle scelte in merito ai processi formativi, passati in seguito al vaglio di nuclei di valutazione ad hoc. Le esperienze già avviate in questo senso avvertono che, durante la progettazione di un percorso formativo, che ha una lunga attuazione, non si può prevedere quali saranno le esigenze del mercato del lavoro dopo cinque o dieci anni, né si può programmare il corso di studio sulle esigenze del momento, altrimenti i primi laureati di quel corso arriveranno sul mercato di lavoro con competenze già superate. Allora, di sicuro non si può appiattire l’offerta didattica sulle esigenze di mercato ma bisogna continuare a insegnare ad imparare. Niente di nuovo sotto il sole, si potrà pensare, ma non si tratta esattamente dello stesso insegnamento del passato, perché i saperi da acquisire sono diversi e fanno la differenza: esso si concretizzerà in discipline di base, altre caratterizzanti delle aeree specialistiche e occasioni per metter in campo quanto appreso (in questa linea sembra andare lo stage sempre più adottato anche nelle triennali). Oltre che luogo di rientro costante per l’aggiornamento, importante riferimento in un life long learning system, l’università dovrebbe fornire l’impostazione di studio per poter poi tornare nelle aule, ovvero il metodo per continuare ad apprendere, quando apprendere in continuazione non è più solo un atteggiamento intellettuale ma un’esigenza per non rimanere indietro sui continui cambiamenti e rischiare di rimanere esclusi dai sistemi produttivi.
E’ questo un problema che non riguarda solo il singolo ma anche le istituzioni, perché la crescita del Paese sembra legata tanto alla qualità del capitale umano prodotto quanto alla quantità che ne viene preservata. In questa direzione, sembrano ancora da risolvere importante nodi, forse resistenze a una circolazione e condivisione del sapere come su descritto: da una parte la questione degli ordini professionali, il loro atteggiamento verso le nuove lauree, che forse può portare a interrogarsi su una riforma del mondo delle professioni; dall’altra quella delle pubbliche amministrazioni, il cui accesso è regolato da concorsi sempre più rari, e che difficilmente riescono a entrare nella rete su prospettata . Ma si tratta di un discorso fuori dal sistema accademico e che non copre i segnali positivi di un’università sempre più rivolta al networking. Che è poi un modo per ammettere con umiltà e onestà intellettuale che non tutto il sapere può concentrarsi in una sola esperienza: questa sì una lezione di vita alla vecchia maniera.
venerdì, maggio 05, 2006
Tesi congressuali FUCI Titolo Secondo 1
Interazione università, mondo del lavoro e ricerca
1. Una fotografia a bassa risoluzione
1.1 La società della conoscenza e l’università
“L’Europa della Conoscenza è ormai diffusamente riconosciuta come insostituibile fattore di crescita sociale ed umana e come elemento indispensabile per consolidare ed arricchire la cittadinanza europea, conferendo ai cittadini le competenze necessarie per affrontare le sfide del nuovo millennio insieme alla consapevolezza dei valori condivisi e dell’appartenenza ad uno spazio sociale e culturale comune.” (Dichiarazione di Bologna, 19 Giugno 1999)”.
Così il testo della Dichiarazione di Bologna, il documento che ha definito più dettagliatamente l’impegno assunto dai Ministri dell’Istruzione dei Paesi dell’Unione, nel ‘98 a Parigi, con la carta di Sorbona, di armonizzare i diversi sistemi nazionali di formazione per creare uno spazio comune europeo del sapere (spinta alla stagione delle riforme che ha interessato l’università italiana). L’Europa della conoscenza: un passaggio importante per l’affermazione dell’identità europea, che non poteva basarsi esclusivamente sull’euro e sugli accordi economici. Ma anche segno di un’attenta lettura dei tempi, perché l’affermazione di un’Europa della conoscenza riflette la consapevolezza di vivere all’interno di una società della conoscenza.
Al pari di “rivoluzione dei saperi”, anche “società della conoscenza” sembra esser diventata un’espressione consumata dall’uso, dal significato non facilmente afferrabile, pur avendo ispirato scelte importanti in diversi ambienti, e avendo messo d’accordo tutti, persino parti sociali spesso in contrasto. Ma di quale conoscenza si parla? Non è solo quella dei libri, dei banchi di scuola, delle istituzioni tradizionali della formazione, sembra più nomade: semplificando, essa ha a che fare con la materia prima della produzione, è anche il capitale umano fondamentale nei circuiti economici e nella coesione sociale, è fattore di sviluppo dei territori e un dato indicativo della qualità di una democrazia. Si tratta di concetto ancora fluido: possiamo legarlo alla nuova e diffusa cultura del saper fare cui si accennava? Allo stesso tempo è un dato di fatto: i percorsi produttivi crescono più velocemente se riescono ad assorbire strutturalmente al loro interno questo sapere.
Una società di questo tipo interroga l’università, europea: e come sta reagendo il sistema accademico italiano a questo cambiamento? Ad esempio con un’attenzione accresciuta all’occupabilità dei laureati e al ruolo della ricerca come motore di sviluppo, secondo quanto prescritto anche dal processo di Bologna. Cambia quindi anche in parte la mission dell’accademia? Di sicuro, si fa largo un’esigenza, cui una vecchia concezione della cultura, alta ma da aggiornare, legata alla società delle professioni, non avvertiva: quella di abbassare il rischio di dispersione del capitale umano che una formazione superiore costituisce. Oggi, un disoccupato laureato significa sempre mancanza di rispetto per la persona, ma, meno idealisticamente, non è forse anche un’occasione perduta di crescita economica e sociale della propria comunità?
In quest’ottica, proviamo a leggere alcuni dati incrociati (MIUR, CRUI, Almalaurea) per cercare di capire a che punto sono le risposte dell’università. Si tratta di una fotografia in stile amatoriale, a bassa risoluzione per diversi motivi. Alcuni strutturali: infatti, stiamo vivendo una fase di transizione dovuta alle riforme del sistema accademico. Allora, un’indagine sull’occupabilità sarà complicata dall’esistenza di profili di laureati sostanzialmente diversi e non confrontabili tra loro: quelli pre-riforma e quelli post-riforma (all’interno dei quali peraltro sono ancora poco indicativi coloro i quali hanno conseguito una laurea specialistica). L’istantanea, dunque, verrà mossa. Inoltre, consapevoli di non avere le stesse competenze di chi ha raccolto questi dati, ci limiteremo a tentare una lettura che potrà risultare parziale. Essa sarà forse viziata dalla nostra prospettiva di studenti e non addetti al lavoro, e dalla percezione di quello per noi è un problema. Ma anche la percezione può divenire dato.
1.2 L’occupazione dei laureati
Sembrano di non agevole comprensione le tendenze sull’occupazione dei laureati. Per quanto già detto a proposito della transizione tra ordinamenti, infatti, i dati relativi devono tener conto di un target variegato e di conseguenza sono complicati da numerose ma necessarie cautele statistiche, che aumentano la sensazione di trovarsi in una fase di sperimentazione e di fatto difficile da vivere prima ancora che da interpretare.
Di sicuro, per effetto della riforma, risultato in linea con il processo di Bologna, il numero dei laureati è in continua crescita (L’università in cifre, www.miur.it). Sembra in accordo a quanto richiesto dalla società della conoscenza anche il dato che “all’aumentare del titolo di studio diminuisce il tasso di disoccupazione” (Ib.). Ma a fronte di questa verità lapalissiana, è più difficile stabilire comprensivamente a quanto ammonti la dispersione del capitale umano nel passaggio dall’università al mondo del lavoro. Comprensivamente, perché bisognerà sempre distinguere i laureati tra pre e post riforma per qualsiasi tipo di considerazione. Due dati accomunano queste categorie: migliora la regolarità dei percorsi di studio (diminuiscono cioè i fuoricorso) e l’età media, 27-28 anni per entrambi (dati Almalaurea ).
Se prendiamo il profilo destinato a crescere di più, oggi un laureato di primo livello ha tre strade davanti: dedicarsi esclusivamente alla prosecuzione degli studi, iniziare subito a lavorare, studiare e lavorare contemporaneamente. Le percentuali di quelli che si iscrivono alla Laurea specialistica e di quelli che trovano occupazione è quasi identica (54,4%). Ma non si può giudicare il tasso dei laureati di primo livello occupati, quasi uguale a quello dei laureati pre riforma dello stesso anno, senza tener conto che molti continuano gli studi. Tra i laureati di primo livello, 41 su cento non s’iscrivono alla specialistica e tra questi l’80% trova lavoro già a un anno di distanza dalla fine degli studi.
Ma valutare l’ingresso nel mercato del lavoro delle due categorie ed eventualmente confrontarle non è ancora operazione facile perché tra gli operatori del mercato non è sufficientemente nota la riforma universitaria. Sempre distinguendo, l’occupazione dei laureati pre riforma ad un anno dal conseguimento del titolo è 53,7% (in diminuzione rispetto agli anni passati), ma cresce col passare del tempo. Che cosa fa la rimanente parte? Alcuni non hanno un lavoro e non lo cercano, ma sono pochissimi, molti altri ovviamente sono disoccupati. L’Italia è ancora lontana dagli obiettivi di occupazione di Lisbona , mentre già mancato è quello di Stoccolma, che prevedeva un’occupazione dei laureati pari al 67%: l’Italia sta sotto di quasi 14 punti ed è tra i cinque paesi in Europa più deboli su questo fronte . Se il laureato è meridionale la situazione peggiora: gli Atenei del Sud fanno registrare modesti tassi di occupazione.
Ma molti, non solo i laureati con nuovo ordinamento, preferiscono completare la loro preparazione con un tirocinio, corso di lingua e/o informatica, stage in azienda, collaborazione volontaria. Ed è un altro dato significativo: la formazione post laurea continua a riguardare due terzi dei laureati, sebbene non tutti i percorsi premino alla stessa maniera (cfr infra). Lo stesso MIUR dichiara questo settore in forte espansione . E’ un dato da correlare alle difficoltà a trovare lavoro o è indicativo di un deficit di competenze apprese all’università?
Certo, col trascorrere del tempo e con la fine delle esperienze post laurea, la situazione degli occupati, pure più vecchi, migliora: dopo tre anni 84 su 100 lavorano stabilmente. Ma permangono le differenze territoriali fra quanti cercano lavoro, con un Sud meno generoso di occasioni professionali e che spinge alle migrazioni intranazionali.
Il passaggio al mondo del lavoro, oltre che da tempi lunghi, come s’è visto, è per la maggior parte dei casi segnato anche da difficoltà di diverso genere: l’area di residenza, le esperienze di lavoro compiute durante gli studi, la scelta del settore pubblico, che diviene più accessibile del privato solo dopo diversi anni. Inoltre, esiste un problema di canali d’ingresso: quello più percorso risulta ancora la rete parentale e personale. A evidenziare quanto è lasciato alla fortuna e all’abilità di autopromozione del singolo.
Sono invece fattori di vantaggio nella ricerca del lavoro la disponibilità al trasferimento di sede e l’ambito disciplinare tecnico-scientifico (in forte calo di iscrizioni tanto da richiedere un intervento ministeriale). Inoltre, anche le esperienze di studio all’estero aiutano nell’occupazione, in una migliore retribuzione e, intuibile, nella mobilità internazionale. Eppure, questa carta vincente non viene giocata dagli studenti italiani: solo 11 su 100 tra i laureati del 2004 è partito per l’Erasmus o progetti simili. Ed la percentuale tra i ragazzi del nuovo ordinamento, con ritmi più frenetici, è in ulteriore ribasso. Una chimera sembra rivelarsi il master, sul quale scommettono sempre più giovani (23.000 secondo il MIUR, il 13% dei laureati): ma il mercato del lavoro riserva la stessa accoglienza ai laureati che non lo abbiano frequentato. Al contrario, fortemente apprezzato sembra lo stage, ancora poco diffuso, ma che produce un valore aggiunto in termini occupazionali, svolto sia prima che dopo la laurea. Squadra vincente non dovrebbe esser riconfermata?
Che abbiano proseguito la loro formazione o che non l’abbiano fatto, nella maggior parte dei casi i neo dottori effettuano la prima esperienza lavorativa dopo la laurea: questo periodo allora non può che caratterizzarsi per cambiamenti frequenti e per una posizione professionale non alta. Solo dopo cinque anni, si ha un aumento di possibilità per una corrispondenza tra titolo conseguito e sbocco professionale (a tre anni dal conseguimento del titolo quasi un terzo dei laureati fa un lavoro per il quale non era richiesta una laurea, fonte MIUR). Si tratta quindi di un periodo di sperimentazione ma anche di ricerca di stabilità: ma per analizzare questo aspetto bisogna tener conto di attraversare una congiuntura di transizione per l’entrata in vigore della cosiddetta legge Biagi. Ad ogni modo, a un anno dalla laurea, hanno un contratto che assicuri un’occupazione stabile solo 39 laureati su 100 (tendenza in diminuzione). Per gli altri esistono diverse possibilità, tra cui anche il contratto atipico, in crescita (a un anno dalla laurea interessa il 48,5% dei giovani).
I laureati occupati a un anno dalla laurea non hanno uno stipendio particolarmente elevato: in media quasi 1000 euro (e infatti “la remunerazione è il fattore di minor soddisfazione per i laureati, dati MIUR). La cifra lievita di poco dopo tre e cinque anni; guadagnano di più i laureati giovani e del Nord, possibilmente impiegati nel privato, più generoso.
Questa una scelta dei dati relativi all’occupabilità dei laureati. L’impressione potrebbe essere quella di una presa molto difettosa tra il mondo del lavoro e della formazione, aggancio che se non fa cadere l’acrobata certo procura un brivido al pubblico: tra i due mondi sembra esistere una regione frastagliata, lunga da percorrere e non rassicurante. Ma si può pensare che il problema sia tutto da localizzare in un’accademia incapace di rispondere alla società? Si tratta di problema complesso e come tale, ricordava Bloch a proposito di ogni avvenimento storico, molteplici sono i fattori in causa (conoscenza tra i due mondi, periodi di transizione, distanza di idee tra i diversi attori dell’istruzione, rapporto pubblico privato, carente cultura della progettazione…). Forse non si tratta di individuare responsabilità ma di disegnare l’incrocio dei diversi fattori.
1. Una fotografia a bassa risoluzione
1.1 La società della conoscenza e l’università
“L’Europa della Conoscenza è ormai diffusamente riconosciuta come insostituibile fattore di crescita sociale ed umana e come elemento indispensabile per consolidare ed arricchire la cittadinanza europea, conferendo ai cittadini le competenze necessarie per affrontare le sfide del nuovo millennio insieme alla consapevolezza dei valori condivisi e dell’appartenenza ad uno spazio sociale e culturale comune.” (Dichiarazione di Bologna, 19 Giugno 1999)”.
Così il testo della Dichiarazione di Bologna, il documento che ha definito più dettagliatamente l’impegno assunto dai Ministri dell’Istruzione dei Paesi dell’Unione, nel ‘98 a Parigi, con la carta di Sorbona, di armonizzare i diversi sistemi nazionali di formazione per creare uno spazio comune europeo del sapere (spinta alla stagione delle riforme che ha interessato l’università italiana). L’Europa della conoscenza: un passaggio importante per l’affermazione dell’identità europea, che non poteva basarsi esclusivamente sull’euro e sugli accordi economici. Ma anche segno di un’attenta lettura dei tempi, perché l’affermazione di un’Europa della conoscenza riflette la consapevolezza di vivere all’interno di una società della conoscenza.
Al pari di “rivoluzione dei saperi”, anche “società della conoscenza” sembra esser diventata un’espressione consumata dall’uso, dal significato non facilmente afferrabile, pur avendo ispirato scelte importanti in diversi ambienti, e avendo messo d’accordo tutti, persino parti sociali spesso in contrasto. Ma di quale conoscenza si parla? Non è solo quella dei libri, dei banchi di scuola, delle istituzioni tradizionali della formazione, sembra più nomade: semplificando, essa ha a che fare con la materia prima della produzione, è anche il capitale umano fondamentale nei circuiti economici e nella coesione sociale, è fattore di sviluppo dei territori e un dato indicativo della qualità di una democrazia. Si tratta di concetto ancora fluido: possiamo legarlo alla nuova e diffusa cultura del saper fare cui si accennava? Allo stesso tempo è un dato di fatto: i percorsi produttivi crescono più velocemente se riescono ad assorbire strutturalmente al loro interno questo sapere.
Una società di questo tipo interroga l’università, europea: e come sta reagendo il sistema accademico italiano a questo cambiamento? Ad esempio con un’attenzione accresciuta all’occupabilità dei laureati e al ruolo della ricerca come motore di sviluppo, secondo quanto prescritto anche dal processo di Bologna. Cambia quindi anche in parte la mission dell’accademia? Di sicuro, si fa largo un’esigenza, cui una vecchia concezione della cultura, alta ma da aggiornare, legata alla società delle professioni, non avvertiva: quella di abbassare il rischio di dispersione del capitale umano che una formazione superiore costituisce. Oggi, un disoccupato laureato significa sempre mancanza di rispetto per la persona, ma, meno idealisticamente, non è forse anche un’occasione perduta di crescita economica e sociale della propria comunità?
In quest’ottica, proviamo a leggere alcuni dati incrociati (MIUR, CRUI, Almalaurea) per cercare di capire a che punto sono le risposte dell’università. Si tratta di una fotografia in stile amatoriale, a bassa risoluzione per diversi motivi. Alcuni strutturali: infatti, stiamo vivendo una fase di transizione dovuta alle riforme del sistema accademico. Allora, un’indagine sull’occupabilità sarà complicata dall’esistenza di profili di laureati sostanzialmente diversi e non confrontabili tra loro: quelli pre-riforma e quelli post-riforma (all’interno dei quali peraltro sono ancora poco indicativi coloro i quali hanno conseguito una laurea specialistica). L’istantanea, dunque, verrà mossa. Inoltre, consapevoli di non avere le stesse competenze di chi ha raccolto questi dati, ci limiteremo a tentare una lettura che potrà risultare parziale. Essa sarà forse viziata dalla nostra prospettiva di studenti e non addetti al lavoro, e dalla percezione di quello per noi è un problema. Ma anche la percezione può divenire dato.
1.2 L’occupazione dei laureati
Sembrano di non agevole comprensione le tendenze sull’occupazione dei laureati. Per quanto già detto a proposito della transizione tra ordinamenti, infatti, i dati relativi devono tener conto di un target variegato e di conseguenza sono complicati da numerose ma necessarie cautele statistiche, che aumentano la sensazione di trovarsi in una fase di sperimentazione e di fatto difficile da vivere prima ancora che da interpretare.
Di sicuro, per effetto della riforma, risultato in linea con il processo di Bologna, il numero dei laureati è in continua crescita (L’università in cifre, www.miur.it). Sembra in accordo a quanto richiesto dalla società della conoscenza anche il dato che “all’aumentare del titolo di studio diminuisce il tasso di disoccupazione” (Ib.). Ma a fronte di questa verità lapalissiana, è più difficile stabilire comprensivamente a quanto ammonti la dispersione del capitale umano nel passaggio dall’università al mondo del lavoro. Comprensivamente, perché bisognerà sempre distinguere i laureati tra pre e post riforma per qualsiasi tipo di considerazione. Due dati accomunano queste categorie: migliora la regolarità dei percorsi di studio (diminuiscono cioè i fuoricorso) e l’età media, 27-28 anni per entrambi (dati Almalaurea ).
Se prendiamo il profilo destinato a crescere di più, oggi un laureato di primo livello ha tre strade davanti: dedicarsi esclusivamente alla prosecuzione degli studi, iniziare subito a lavorare, studiare e lavorare contemporaneamente. Le percentuali di quelli che si iscrivono alla Laurea specialistica e di quelli che trovano occupazione è quasi identica (54,4%). Ma non si può giudicare il tasso dei laureati di primo livello occupati, quasi uguale a quello dei laureati pre riforma dello stesso anno, senza tener conto che molti continuano gli studi. Tra i laureati di primo livello, 41 su cento non s’iscrivono alla specialistica e tra questi l’80% trova lavoro già a un anno di distanza dalla fine degli studi.
Ma valutare l’ingresso nel mercato del lavoro delle due categorie ed eventualmente confrontarle non è ancora operazione facile perché tra gli operatori del mercato non è sufficientemente nota la riforma universitaria. Sempre distinguendo, l’occupazione dei laureati pre riforma ad un anno dal conseguimento del titolo è 53,7% (in diminuzione rispetto agli anni passati), ma cresce col passare del tempo. Che cosa fa la rimanente parte? Alcuni non hanno un lavoro e non lo cercano, ma sono pochissimi, molti altri ovviamente sono disoccupati. L’Italia è ancora lontana dagli obiettivi di occupazione di Lisbona , mentre già mancato è quello di Stoccolma, che prevedeva un’occupazione dei laureati pari al 67%: l’Italia sta sotto di quasi 14 punti ed è tra i cinque paesi in Europa più deboli su questo fronte . Se il laureato è meridionale la situazione peggiora: gli Atenei del Sud fanno registrare modesti tassi di occupazione.
Ma molti, non solo i laureati con nuovo ordinamento, preferiscono completare la loro preparazione con un tirocinio, corso di lingua e/o informatica, stage in azienda, collaborazione volontaria. Ed è un altro dato significativo: la formazione post laurea continua a riguardare due terzi dei laureati, sebbene non tutti i percorsi premino alla stessa maniera (cfr infra). Lo stesso MIUR dichiara questo settore in forte espansione . E’ un dato da correlare alle difficoltà a trovare lavoro o è indicativo di un deficit di competenze apprese all’università?
Certo, col trascorrere del tempo e con la fine delle esperienze post laurea, la situazione degli occupati, pure più vecchi, migliora: dopo tre anni 84 su 100 lavorano stabilmente. Ma permangono le differenze territoriali fra quanti cercano lavoro, con un Sud meno generoso di occasioni professionali e che spinge alle migrazioni intranazionali.
Il passaggio al mondo del lavoro, oltre che da tempi lunghi, come s’è visto, è per la maggior parte dei casi segnato anche da difficoltà di diverso genere: l’area di residenza, le esperienze di lavoro compiute durante gli studi, la scelta del settore pubblico, che diviene più accessibile del privato solo dopo diversi anni. Inoltre, esiste un problema di canali d’ingresso: quello più percorso risulta ancora la rete parentale e personale. A evidenziare quanto è lasciato alla fortuna e all’abilità di autopromozione del singolo.
Sono invece fattori di vantaggio nella ricerca del lavoro la disponibilità al trasferimento di sede e l’ambito disciplinare tecnico-scientifico (in forte calo di iscrizioni tanto da richiedere un intervento ministeriale). Inoltre, anche le esperienze di studio all’estero aiutano nell’occupazione, in una migliore retribuzione e, intuibile, nella mobilità internazionale. Eppure, questa carta vincente non viene giocata dagli studenti italiani: solo 11 su 100 tra i laureati del 2004 è partito per l’Erasmus o progetti simili. Ed la percentuale tra i ragazzi del nuovo ordinamento, con ritmi più frenetici, è in ulteriore ribasso. Una chimera sembra rivelarsi il master, sul quale scommettono sempre più giovani (23.000 secondo il MIUR, il 13% dei laureati): ma il mercato del lavoro riserva la stessa accoglienza ai laureati che non lo abbiano frequentato. Al contrario, fortemente apprezzato sembra lo stage, ancora poco diffuso, ma che produce un valore aggiunto in termini occupazionali, svolto sia prima che dopo la laurea. Squadra vincente non dovrebbe esser riconfermata?
Che abbiano proseguito la loro formazione o che non l’abbiano fatto, nella maggior parte dei casi i neo dottori effettuano la prima esperienza lavorativa dopo la laurea: questo periodo allora non può che caratterizzarsi per cambiamenti frequenti e per una posizione professionale non alta. Solo dopo cinque anni, si ha un aumento di possibilità per una corrispondenza tra titolo conseguito e sbocco professionale (a tre anni dal conseguimento del titolo quasi un terzo dei laureati fa un lavoro per il quale non era richiesta una laurea, fonte MIUR). Si tratta quindi di un periodo di sperimentazione ma anche di ricerca di stabilità: ma per analizzare questo aspetto bisogna tener conto di attraversare una congiuntura di transizione per l’entrata in vigore della cosiddetta legge Biagi. Ad ogni modo, a un anno dalla laurea, hanno un contratto che assicuri un’occupazione stabile solo 39 laureati su 100 (tendenza in diminuzione). Per gli altri esistono diverse possibilità, tra cui anche il contratto atipico, in crescita (a un anno dalla laurea interessa il 48,5% dei giovani).
I laureati occupati a un anno dalla laurea non hanno uno stipendio particolarmente elevato: in media quasi 1000 euro (e infatti “la remunerazione è il fattore di minor soddisfazione per i laureati, dati MIUR). La cifra lievita di poco dopo tre e cinque anni; guadagnano di più i laureati giovani e del Nord, possibilmente impiegati nel privato, più generoso.
Questa una scelta dei dati relativi all’occupabilità dei laureati. L’impressione potrebbe essere quella di una presa molto difettosa tra il mondo del lavoro e della formazione, aggancio che se non fa cadere l’acrobata certo procura un brivido al pubblico: tra i due mondi sembra esistere una regione frastagliata, lunga da percorrere e non rassicurante. Ma si può pensare che il problema sia tutto da localizzare in un’accademia incapace di rispondere alla società? Si tratta di problema complesso e come tale, ricordava Bloch a proposito di ogni avvenimento storico, molteplici sono i fattori in causa (conoscenza tra i due mondi, periodi di transizione, distanza di idee tra i diversi attori dell’istruzione, rapporto pubblico privato, carente cultura della progettazione…). Forse non si tratta di individuare responsabilità ma di disegnare l’incrocio dei diversi fattori.
«Senza paure davanti alla Bibbia»
Giovani con la Bibbia in mano. Ma non da soli. Perché la Scrittura, per essere davvero «lampada per i propri passi», va letta con l'aiuto di qualche maestro. È il messaggio che Benedetto XVI ha affidato ai giovani il 7 aprile scorso, dialogando con loro in piazza San Pietro alla vigilia della XXI Giornata mondiale della gioventù.
Un messaggio forte, da non lasciare cadere. Ed è per questo che abbiamo chiesto di aiutarci a riprenderlo a colui che il Papa stesso in quell'occasione ha citato davanti ai giovani. Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, oggi vive a Gerusalemme proprio dedicando le sue giornate allo studio dei testi biblici. «È un vero maestro della lectio divina, che aiuta a entrare nel vivo della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.
Eminenza, come ha accolto queste parole del Papa?
«Mi sono assai stupito della menzione che il Santo Padre ha voluto benevolmente fare del mio nome a proposito della lectio divina - risponde -. Me ne sono rallegrato a motivo della grande importanza che essa ha per tutti i cristiani, soprattutto per i più giovani. Ma non pensavo di essere menzionato io stesso, che non sono uno specialista; sono solo un umile discepolo della Parola, mentre molti altri nella Chiesa si sono dati da fare per questo impegno dei cristiani raccomandato dal Vaticano II nel capitolo VI della Dei Verbum».
Continua su Avvenire.
Un messaggio forte, da non lasciare cadere. Ed è per questo che abbiamo chiesto di aiutarci a riprenderlo a colui che il Papa stesso in quell'occasione ha citato davanti ai giovani. Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, oggi vive a Gerusalemme proprio dedicando le sue giornate allo studio dei testi biblici. «È un vero maestro della lectio divina, che aiuta a entrare nel vivo della Sacra Scrittura», ha detto di lui in piazza San Pietro Benedetto XVI.
Eminenza, come ha accolto queste parole del Papa?
«Mi sono assai stupito della menzione che il Santo Padre ha voluto benevolmente fare del mio nome a proposito della lectio divina - risponde -. Me ne sono rallegrato a motivo della grande importanza che essa ha per tutti i cristiani, soprattutto per i più giovani. Ma non pensavo di essere menzionato io stesso, che non sono uno specialista; sono solo un umile discepolo della Parola, mentre molti altri nella Chiesa si sono dati da fare per questo impegno dei cristiani raccomandato dal Vaticano II nel capitolo VI della Dei Verbum».
Continua su Avvenire.
giovedì, maggio 04, 2006
Per chi vota il Vicariato?
Dopo Paola Binetti un altro membro dell'Opus Dei fa una scelta di centro-sinistra. Alberto Michelini, già Forza Italia, guiderà infatti una lista di moderati in appoggio alla candidatura di Veltroni a sindaco di Roma. Appoggio confermato anche da Olimpia Tarzia, già UDC, segretaria generale del Movimento per la vita italiano e vicepresidente della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana.
Un mesetto fa accennavo all'asse Casini-Rutelli-Veltroni. Qualcosa si comincia a muovere. Tempo di far fallire il governo Prodi e assisteremo a grandi sorprese.
Un mesetto fa accennavo all'asse Casini-Rutelli-Veltroni. Qualcosa si comincia a muovere. Tempo di far fallire il governo Prodi e assisteremo a grandi sorprese.
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Ho guardato e riguardato questo incredibile filmato una diecina di volte. Ci sono solo due spiegazioni per quel che accade alla macchina sull'estrema corsia destra: o il filmato è falso oppure si tratta di un miracolo!
mercoledì, maggio 03, 2006
Tesi congressuali FUCI Titolo Primo 2
1.3 Ipertesto, nuove tecnologie e eLearning
Come abbiamo visto, i cambiamenti a cui è soggetta la didattica universitaria passano, da un lato, per un aumento della domanda di istruzione e aggiornamento imposta dal mercato del lavoro e, dall’altro, attraverso la sperimentazione di nuove tecniche e strumenti per la trasmissione e l’apprendimento dei saperi.
Questi fattori implicano la necessità di ripensare il modello classico di insegnamento - quello uno a molti - nel quale il docente è il centro del processo di apprendimento. Egli fornisce al discente non solo le nozioni basilari per il conseguimento dell’esame ma gli strumenti didattici e tecnologici che gli permettono di essere pronto all’innovazione e alla gestione dei contenuti. Allora, sembra che l’università dovrebbe implementare percorsi curriculari e mappe cognitive dinamici, aperti all’aggiornamento, non appiattiti sull’iperspecializzazione e sulle esigenze del “qui e ora”, che responsabilizzino il discente e lo rendano attore principale del processo di apprendimento.
In questa visione elastica trova nuova lettura anche la valorizzazione delle ICT e dell’eLearning, visti da molti addetti ai lavori dell’economia di scala come una strategia di riduzione dei costi nella risposta alla domanda di istruzione. Tuttavia l’uso delle nuove tecnologie a scopi didattici non si può fermare solo ad una visione economica e nemmeno all’aspetto di alfabetizzazione informatica, ma deve trovare una più ampia applicazione nell’apprendimento di come gestire l’immenso flusso di informazioni che la rete mette a disposizione. Le ICT si possono considerare dunque come un contenitore vuoto se separato dalla progettazione e dall’integrazione dell’ informazione.
L’eLearning è l’insieme dei sistemi informatici per l’educazione a distanza, scolastica, universitaria e l’aggiornamento professionale (lifelong learning). La parola stessa pone l’accento sull’attività dell’apprendimento (learning) che è l’espressione della partecipazione dello studente al processo formativo. Tale procedimento di rivalutazione del singolo, tramite uno spostamento di carico dalla metodologia top-down a quella bottom up, si inserisce in quella tendenza all’entusiasmo educativo che tiene in considerazione le esigenze dell’interlocutore mettendole in valore.
Ciò assume maggiore interesse nella misura in cui guardiamo al sapere come processo in continua evoluzione per il quale è necessario approntare un sistema formativo flessibile nell’aggiornamento e nella fruizione, che favorisca l’auto-responsabilizzazione dello studente lasciando a lui il compito di gestire il proprio percorso formativo.
Le dimensioni del sistema che riassumono gli ambiti dell’esperienza eLearning possono essere in sintesi:
- multimedialità: l’utilizzo di elementi multimediali facilita l’apprendimento in quanto aiuta il discente a focalizzare e mantenere l’attenzione su contenuti anche complessi, grazie alla messa in atto di più stimoli sensoriali. Ciò permette un coinvolgimento simultaneo di più categorie conoscitive: si apprende non più attraverso la lettura, ma tramite le immagini, i suoni, le animazioni.
- ipertestualità: l’ipertesto, costituito come un sistema molteplice di relazioni non lineari tra testi, dà la possibilità al discente di seguire il proprio personale percorso e di crearne sempre di nuovi. La tecnica dell’ipertesto è considerata come l’interprete per eccellenza di una cultura più partecipata e democratica, perchè l’apprendimento tramite ipertesto muta i confini dell’ io-partecipante, innalzandolo a catalizzatore di nuove conoscenze. Un tale strumento è dotato di una potenziale illimitatezza, non solo perché tramite la partecipazione attiva del discente è possibile l’interazione con una cultura divergente, ma perché l’ipertesto è per sua natura uno strumento implementabile, capace cioè di accogliere nuovi contributi senza stravolgere la sua logica interna.
- interattività: anche le componenti interattive permettono di lavorare con il materiale didattico in un approccio partecipativo. Tale tendenza si riscontra anche nel settore informatico nel caso dell’open source, sistemi operativi di cui sono rivelati i codici sorgenti, per i quali è possibile contribuire, modificando e migliorando il sistema. Il riferimento al campo dell’informatica, che risulta il settore più all’avanguardia, denota la diffusione di un desiderio di interazione che stravolge il sistema dei valori classico fatto di scientificità, verità, e condivisione, portando alla ribalta il valore della parzialità, della singolarità e dell’idiosincrasia.
- learning-by-doing, letteralmente “imparare facendo”, un sovvertimento, cioè, del procedimento inverso per cui si antepone la teoria alla pratica. Il learning by doing ci richiama alle richieste del mercato di un “saper fare” professionale, in questo caso non si tratta semplicemente dell’apprendimento di strumenti pratici, ma dell’applicazione di un metodo scientifico basato sull’estrapolazione della regola dall’azione empirica anche per le altre discipline: una sorta di “fare pensante” che metta a frutto le capacità individuali di fare interagire le proprie conoscenze.
La diffusione dell’eLearning ha riscosso grande successo nel Nord Europa sia come sistema capillare di interconnessione fra enti di istruzione, che come università on-line; nel resto del vecchio continente il fenomeno sta trovando una sua graduale attuazione.
In Italia, come negli altri paesi del bacino Mediterraneo, il discorso dell’eLearning ha trovato inizialmente delle difficoltà applicative dovute alla scarsità di tradizione, alla poca diffusione dei mezzi telematici, al modello di istruzione legato alla didattica classica. Grazie alla promozione della Commissione Europea anche l’accademia italiana ha avviato dei progetti finalizzati allo sfruttamento delle nuove tecnologie nel settore del Knowledge Management. Le esperienze di università on-line in realtà fanno riferimento non ad interi atenei virtuali ma a singoli corsi di laurea afferenti a università di tipo tradizionale. L’eLearning “all’italiana” è blended, ovvero più orientato a fare da supporto e da integrazione alla didattica che da base per un eUniversity vera e propria. Le aree disciplinari con maggiore presenza di tipologia di corsi a distanza sono quelle di ingegneria (30), politico-sociale (28) ed economico-statistico (20) .
Non si può affermare però che l’esperienza sia riconducibile solo ad un’archiviazione di dati affidati ad internet come ad un contenitore flessibile in grado di ospitare un sapere frenetico. Il supporto tecnologico e l’evoluzione dei sistemi telematici porta anche alla necessità di smussare i punti critici della didattica e di iniziare un’educazione alla valutazione del contenuto e dell’informazione.
Se da un lato quindi i metodi di insegnamento fanno riferimento alla tecnologia, dall’altro l’uso delle ICT impone anche un’evoluzione nello stile di diffondere, vagliare e apprendere i contenuti.
L’approccio blended può essere un punto a favore dell’esperienza italiana in quanto puntare unicamente su un modello di formazione a distanza per tutte le categorie di studenti può avere dei punti critici. Rimanere soddisfatti di una diffusa abilità all’uso dei mezzi informatici può avere il grosso rischio di perdere il senso critico nel gestire la conoscenza che fluttua in rete: l’affidamento totale nel contatto virtuale con l’università può dare un titolo con lo stesso valore legale e anche con un alto grado di qualità, ma il valore umano di un’esperienza universitaria, basata sul contatto intellettuale tra docente e studente, risulta avere un valore aggiunto certamente non traducibile e digitalizzabile.
1.4 Rischi e sfide
Alla luce della breve analisi svolta avvertiamo alcune perplessità. Assistiamo al progressivo delinearsi di una cultura sempre più centrifuga, periferica e individuale, interprete di un “pensiero debole”, così definito da Lyotard. Come abbiamo visto l’avvento di nuovi strumenti e la necessità di un aggiornamento costante del sapere porta all’affermarsi di un nuovo sistema di valori legati al contingente, al singolo, all’unicità e all’irriducibilità dell’individuo.
In un sistema flessibile e ramificato in cui si delineano continuamente una serie di “spazi cerniera”, come zolle di terra in continuo movimento, sembra difficoltoso il tentativo di catalogare il sapere in assenza di un sistema di valori condiviso da tutti. Il ruolo dell’università allora non può limitarsi semplicemente alla conservazione della cultura , né alla sua semplice trasmissione, ma deve lavorare in sinergia con gli organi di ricerca in continua produzione di nuove conoscenze impegnandosi nella trasmissione di linguaggi e di metodi di apprendimento. In questo senso possiamo guardare alla pratica del learning by doing, così come alle altre esperienze applicative promosse all’interno dei nostri corsi di laurea, come a delle occasioni per metterci in gioco per favorire la partecipazione e il coinvolgimento dello studente.
Tuttavia, oggi gli strumenti del fare passano attraverso le nuove tecnologie: il rischio che si corre con una progressiva diffusione di tali sistemi in ogni ambito di studio non deve costituire un fattore discriminante per chi, per diverse motivazioni, dovesse trovarsi meno aggiornato. L’università non può quindi rincorrere l’avanzamento tecnologico escludendo chi resta indietro, ma deve rendersi abitabile includendo chi rischia la marginalizzazione, facendo confluire i diversi curricula e le diverse esperienze extra accademiche. Questo perché il sapere è costituito anche dal contributo dell’esperienza dell’individuo che rappresenta uno dei tanti nodi essenziali della rete globale.
Se finora ci siamo interrogati sulle sfide che la globalizzazione ha posto alla nostra epoca, ci accorgiamo di quanto sia necessario concentrarsi su quelle che il locale pone a sua volta. In particolare ci chiediamo quanto il sapere vada scollandosi da un territorio assumendo una sua autonomia. Le nuove generazioni rischiano di allentare la loro esperienza nel locale, saltando gli step logici, proiettandosi immediatamente nella realtà globale e planetaria. Ciò può portare alla formazione di un individuo sradicato dal proprio contesto, lontano dal territorio, che non riesce cioè ad intravedere il suo potenziale contributo alla comunità di cui fa parte, proprio perché non ne apprende la storia e la cultura relativa. In sostanza ci chiediamo quali siano le strade per formare un cittadino del mondo, coscienti che la formazione della persona non può passare solo attraverso l’esperienza Universitaria. A fronte di quanto detto, come può l’Università, ancora oggi educare alla cittadinanza e alla partecipazione?
Le agenzie formative si trovano di fronte a tre sfide: la prima di ordine culturale, che promuove la costante ricerca di interconnessioni tra discipline apparentemente distanti tra loro; una sfida sociologica; ed una sfida civica, che interroga sull’interazione che deve esistere tra il sapere e la società, senza il quale si rischia di formare individui senza legami, staccati dal contesto in cui vivono. E’ forse questo uno dei maggiori rischi al quale l’università deve far fronte: la deresponsabilizzazione dello studente, che nasce nell’assenza di una visione più globale di un percorso formativo intrapreso. Nel sistema accademico non dovrebbe trovare spazio il disinteresse e l’apatia - intesa come assenza di pathos e quindi di frequentazione personale ineliminabile all’interno della dimensione comunitaria dell’università - , al contrario frequente dovrebbe essere lo stimolo all’entusiasmo, alla curiosità di ognuno, ciò che insomma favorisca l’inquietudine di un atteggiamento in continua ricerca.
Come abbiamo visto, i cambiamenti a cui è soggetta la didattica universitaria passano, da un lato, per un aumento della domanda di istruzione e aggiornamento imposta dal mercato del lavoro e, dall’altro, attraverso la sperimentazione di nuove tecniche e strumenti per la trasmissione e l’apprendimento dei saperi.
Questi fattori implicano la necessità di ripensare il modello classico di insegnamento - quello uno a molti - nel quale il docente è il centro del processo di apprendimento. Egli fornisce al discente non solo le nozioni basilari per il conseguimento dell’esame ma gli strumenti didattici e tecnologici che gli permettono di essere pronto all’innovazione e alla gestione dei contenuti. Allora, sembra che l’università dovrebbe implementare percorsi curriculari e mappe cognitive dinamici, aperti all’aggiornamento, non appiattiti sull’iperspecializzazione e sulle esigenze del “qui e ora”, che responsabilizzino il discente e lo rendano attore principale del processo di apprendimento.
In questa visione elastica trova nuova lettura anche la valorizzazione delle ICT e dell’eLearning, visti da molti addetti ai lavori dell’economia di scala come una strategia di riduzione dei costi nella risposta alla domanda di istruzione. Tuttavia l’uso delle nuove tecnologie a scopi didattici non si può fermare solo ad una visione economica e nemmeno all’aspetto di alfabetizzazione informatica, ma deve trovare una più ampia applicazione nell’apprendimento di come gestire l’immenso flusso di informazioni che la rete mette a disposizione. Le ICT si possono considerare dunque come un contenitore vuoto se separato dalla progettazione e dall’integrazione dell’ informazione.
L’eLearning è l’insieme dei sistemi informatici per l’educazione a distanza, scolastica, universitaria e l’aggiornamento professionale (lifelong learning). La parola stessa pone l’accento sull’attività dell’apprendimento (learning) che è l’espressione della partecipazione dello studente al processo formativo. Tale procedimento di rivalutazione del singolo, tramite uno spostamento di carico dalla metodologia top-down a quella bottom up, si inserisce in quella tendenza all’entusiasmo educativo che tiene in considerazione le esigenze dell’interlocutore mettendole in valore.
Ciò assume maggiore interesse nella misura in cui guardiamo al sapere come processo in continua evoluzione per il quale è necessario approntare un sistema formativo flessibile nell’aggiornamento e nella fruizione, che favorisca l’auto-responsabilizzazione dello studente lasciando a lui il compito di gestire il proprio percorso formativo.
Le dimensioni del sistema che riassumono gli ambiti dell’esperienza eLearning possono essere in sintesi:
- multimedialità: l’utilizzo di elementi multimediali facilita l’apprendimento in quanto aiuta il discente a focalizzare e mantenere l’attenzione su contenuti anche complessi, grazie alla messa in atto di più stimoli sensoriali. Ciò permette un coinvolgimento simultaneo di più categorie conoscitive: si apprende non più attraverso la lettura, ma tramite le immagini, i suoni, le animazioni.
- ipertestualità: l’ipertesto, costituito come un sistema molteplice di relazioni non lineari tra testi, dà la possibilità al discente di seguire il proprio personale percorso e di crearne sempre di nuovi. La tecnica dell’ipertesto è considerata come l’interprete per eccellenza di una cultura più partecipata e democratica, perchè l’apprendimento tramite ipertesto muta i confini dell’ io-partecipante, innalzandolo a catalizzatore di nuove conoscenze. Un tale strumento è dotato di una potenziale illimitatezza, non solo perché tramite la partecipazione attiva del discente è possibile l’interazione con una cultura divergente, ma perché l’ipertesto è per sua natura uno strumento implementabile, capace cioè di accogliere nuovi contributi senza stravolgere la sua logica interna.
- interattività: anche le componenti interattive permettono di lavorare con il materiale didattico in un approccio partecipativo. Tale tendenza si riscontra anche nel settore informatico nel caso dell’open source, sistemi operativi di cui sono rivelati i codici sorgenti, per i quali è possibile contribuire, modificando e migliorando il sistema. Il riferimento al campo dell’informatica, che risulta il settore più all’avanguardia, denota la diffusione di un desiderio di interazione che stravolge il sistema dei valori classico fatto di scientificità, verità, e condivisione, portando alla ribalta il valore della parzialità, della singolarità e dell’idiosincrasia.
- learning-by-doing, letteralmente “imparare facendo”, un sovvertimento, cioè, del procedimento inverso per cui si antepone la teoria alla pratica. Il learning by doing ci richiama alle richieste del mercato di un “saper fare” professionale, in questo caso non si tratta semplicemente dell’apprendimento di strumenti pratici, ma dell’applicazione di un metodo scientifico basato sull’estrapolazione della regola dall’azione empirica anche per le altre discipline: una sorta di “fare pensante” che metta a frutto le capacità individuali di fare interagire le proprie conoscenze.
La diffusione dell’eLearning ha riscosso grande successo nel Nord Europa sia come sistema capillare di interconnessione fra enti di istruzione, che come università on-line; nel resto del vecchio continente il fenomeno sta trovando una sua graduale attuazione.
In Italia, come negli altri paesi del bacino Mediterraneo, il discorso dell’eLearning ha trovato inizialmente delle difficoltà applicative dovute alla scarsità di tradizione, alla poca diffusione dei mezzi telematici, al modello di istruzione legato alla didattica classica. Grazie alla promozione della Commissione Europea anche l’accademia italiana ha avviato dei progetti finalizzati allo sfruttamento delle nuove tecnologie nel settore del Knowledge Management. Le esperienze di università on-line in realtà fanno riferimento non ad interi atenei virtuali ma a singoli corsi di laurea afferenti a università di tipo tradizionale. L’eLearning “all’italiana” è blended, ovvero più orientato a fare da supporto e da integrazione alla didattica che da base per un eUniversity vera e propria. Le aree disciplinari con maggiore presenza di tipologia di corsi a distanza sono quelle di ingegneria (30), politico-sociale (28) ed economico-statistico (20) .
Non si può affermare però che l’esperienza sia riconducibile solo ad un’archiviazione di dati affidati ad internet come ad un contenitore flessibile in grado di ospitare un sapere frenetico. Il supporto tecnologico e l’evoluzione dei sistemi telematici porta anche alla necessità di smussare i punti critici della didattica e di iniziare un’educazione alla valutazione del contenuto e dell’informazione.
Se da un lato quindi i metodi di insegnamento fanno riferimento alla tecnologia, dall’altro l’uso delle ICT impone anche un’evoluzione nello stile di diffondere, vagliare e apprendere i contenuti.
L’approccio blended può essere un punto a favore dell’esperienza italiana in quanto puntare unicamente su un modello di formazione a distanza per tutte le categorie di studenti può avere dei punti critici. Rimanere soddisfatti di una diffusa abilità all’uso dei mezzi informatici può avere il grosso rischio di perdere il senso critico nel gestire la conoscenza che fluttua in rete: l’affidamento totale nel contatto virtuale con l’università può dare un titolo con lo stesso valore legale e anche con un alto grado di qualità, ma il valore umano di un’esperienza universitaria, basata sul contatto intellettuale tra docente e studente, risulta avere un valore aggiunto certamente non traducibile e digitalizzabile.
1.4 Rischi e sfide
Alla luce della breve analisi svolta avvertiamo alcune perplessità. Assistiamo al progressivo delinearsi di una cultura sempre più centrifuga, periferica e individuale, interprete di un “pensiero debole”, così definito da Lyotard. Come abbiamo visto l’avvento di nuovi strumenti e la necessità di un aggiornamento costante del sapere porta all’affermarsi di un nuovo sistema di valori legati al contingente, al singolo, all’unicità e all’irriducibilità dell’individuo.
In un sistema flessibile e ramificato in cui si delineano continuamente una serie di “spazi cerniera”, come zolle di terra in continuo movimento, sembra difficoltoso il tentativo di catalogare il sapere in assenza di un sistema di valori condiviso da tutti. Il ruolo dell’università allora non può limitarsi semplicemente alla conservazione della cultura , né alla sua semplice trasmissione, ma deve lavorare in sinergia con gli organi di ricerca in continua produzione di nuove conoscenze impegnandosi nella trasmissione di linguaggi e di metodi di apprendimento. In questo senso possiamo guardare alla pratica del learning by doing, così come alle altre esperienze applicative promosse all’interno dei nostri corsi di laurea, come a delle occasioni per metterci in gioco per favorire la partecipazione e il coinvolgimento dello studente.
Tuttavia, oggi gli strumenti del fare passano attraverso le nuove tecnologie: il rischio che si corre con una progressiva diffusione di tali sistemi in ogni ambito di studio non deve costituire un fattore discriminante per chi, per diverse motivazioni, dovesse trovarsi meno aggiornato. L’università non può quindi rincorrere l’avanzamento tecnologico escludendo chi resta indietro, ma deve rendersi abitabile includendo chi rischia la marginalizzazione, facendo confluire i diversi curricula e le diverse esperienze extra accademiche. Questo perché il sapere è costituito anche dal contributo dell’esperienza dell’individuo che rappresenta uno dei tanti nodi essenziali della rete globale.
Se finora ci siamo interrogati sulle sfide che la globalizzazione ha posto alla nostra epoca, ci accorgiamo di quanto sia necessario concentrarsi su quelle che il locale pone a sua volta. In particolare ci chiediamo quanto il sapere vada scollandosi da un territorio assumendo una sua autonomia. Le nuove generazioni rischiano di allentare la loro esperienza nel locale, saltando gli step logici, proiettandosi immediatamente nella realtà globale e planetaria. Ciò può portare alla formazione di un individuo sradicato dal proprio contesto, lontano dal territorio, che non riesce cioè ad intravedere il suo potenziale contributo alla comunità di cui fa parte, proprio perché non ne apprende la storia e la cultura relativa. In sostanza ci chiediamo quali siano le strade per formare un cittadino del mondo, coscienti che la formazione della persona non può passare solo attraverso l’esperienza Universitaria. A fronte di quanto detto, come può l’Università, ancora oggi educare alla cittadinanza e alla partecipazione?
Le agenzie formative si trovano di fronte a tre sfide: la prima di ordine culturale, che promuove la costante ricerca di interconnessioni tra discipline apparentemente distanti tra loro; una sfida sociologica; ed una sfida civica, che interroga sull’interazione che deve esistere tra il sapere e la società, senza il quale si rischia di formare individui senza legami, staccati dal contesto in cui vivono. E’ forse questo uno dei maggiori rischi al quale l’università deve far fronte: la deresponsabilizzazione dello studente, che nasce nell’assenza di una visione più globale di un percorso formativo intrapreso. Nel sistema accademico non dovrebbe trovare spazio il disinteresse e l’apatia - intesa come assenza di pathos e quindi di frequentazione personale ineliminabile all’interno della dimensione comunitaria dell’università - , al contrario frequente dovrebbe essere lo stimolo all’entusiasmo, alla curiosità di ognuno, ciò che insomma favorisca l’inquietudine di un atteggiamento in continua ricerca.
martedì, maggio 02, 2006
Father Ted - The Passion of Saint Tibulus
Boicottare il Codice da Vinci? Chiedetelo a Father Ted.
(Da guardare fino alla fine. Esilarante)
(Da guardare fino alla fine. Esilarante)
Tesi congressuali FUCI Titolo Primo 1
La didattica e il sapere che cambia
1. 1 La didattica tra vecchio e nuovo ordinamento
Prima di scendere nello specifico dei fenomeni di cambiamento che stanno caratterizzando il mondo universitario in merito all’organizzazione didattica, è necessario ripercorrere brevemente le tappe salienti che hanno portato a un ripensamento dell’impianto didattico e a un suo aggiornamento.
La situazione attuale è il risultato di un percorso di cambiamento avviato nel 1999 dal decreto ministeriale 509 che aveva l’obiettivo di ridefinire l’architettura dei percorsi di formazione superiore.
Già negli anni precedenti, la legge Ruberti n. 168/89 aveva disegnato un impianto fortemente dualistico, istituendo il cosiddetto Diploma di Laurea come un percorso professionalizzante e la Laurea come quel percorso votato ad una formazione di base e di lunga durata. Del cosiddetto “quadrifoglio Ruberti” è però interessante recuperare l’art. 6 e l’art. 8 che, oltre all’autonomia finanziaria e organizzativa, afferma l’autonomia della didattica, prevedendo che ogni università e ogni ente di ricerca si dia un proprio ordinamento e un proprio statuto. In ordine di tempo si sono poi susseguite la “bozza Martinotti”, del 9 dicembre 1997, che proponeva l’idea di un’organizzazione del percorso universitario in tre sezioni (diploma, laurea e post-lauream); e la Bassanini 2, ovvero la legge n. 127 del ’97 che ha avviato in concreto il piano di attuazione della autonomia didattica attraverso un processo di snellimento legislativo.
La 509 voleva rispondere ad alcune questioni lasciate in sospeso dall’ordinamento precedente. In particolare si è ribadita l’autonomia didattica di ogni ateneo di poter differenziare l’offerta formativa dei singoli corsi di laurea. Allo stesso tempo, la riforma ha voluto articolare l’offerta formativa con la costituzione di nuovi corsi di laurea che potessero interpretare i cambiamenti del mercato del lavoro. Inoltre, la riforma aveva l’obiettivo di reagire al fenomeno dell’abbandono degli iscritti e all’elevata età media dei laureati. Infatti, negli anni successivi di applicazione generalizzata della riforma si è registrato un aumento costante degli iscritti che negli ultimi anni si sono stabilizzati intorno alle 350 mila unità.
Di pari passo all’aumento della domanda formativa va l’aumento dell’offerta, ovvero quel fenomeno apparentemente incontrollato della proliferazione di nuovi corsi di laurea. Sono 4.539 i corsi attivati in Italia, di cui circa 80 del vecchio ordinamento. Il numero di corsi di laurea del nuovo ordinamento è ulteriormente aumentato nel 2003/04 di 44 unità (erano 3.024 nel 2002/03 ed è aumentato a 3.068 nel 2003/04). Nonostante i tentativi a livello centrale di semplificazione del quadro dell’offerta formativa, che appariva un po’ ridondante, nell’A.A. 2003/2004, quasi un corso su cinque era di nuova istituzione. I settori, o meglio, le classi disciplinari che risultano avere attuato il maggior numero di nuovi corsi sono quelli psicologico, geo-biologico e dell’insegnamento, mentre rimangono più stabili quelli medico e giuridico. I corsi di studio si distribuiscono in modo differenziato tra i programmi delle lauree triennali (3.358 corsi), specialistiche a ciclo unico (178) e specialistiche biennali (1.247). Esiste allora un rapporto numerico per cui per 100 corsi triennali e esistono 39 corsi di specializzazione.
Tale fenomeno si inserisce certo nelle intenzioni del legislatore di diversificare sempre più un’offerta didattica legata ad un sistema ormai non più attuale, ma disattende quella che era la visione di un percorso formativo compiuto che riuscisse ad esaurire le esigenze di formazione dello studente prima e del mercato del lavoro poi. Infatti, la maggior parte degli studenti in possesso del titolo di studio di Laurea triennale decide di proseguire il percorso universitario iscrivendosi a una laurea specialistica. E’ una scelta spesso dettata da una mancata sinergia con il mondo del lavoro che non sempre è preparato a accogliere il “prodotto” di un sistema formativo non ben noto (ad esempio alcuni ordini professionali hanno ritardato l’adattamento dei propri albi alla riforma). Oppure lo studente non “si sente ancora pronto” per entrare nel mondo del lavoro e sceglie allora di proseguire attraverso i master, che comportano una spesa onerosa e che spesso rischiano semplicemente di rimandare il problema senza costituire una soluzione reale.
I dati citati fanno riferimento alla situazione attuale dell’Università Italiana che dovrà affrontare un ulteriore assestamento in seguito all’approvazione del decreto ministeriale 270/04, firmato dal ministro Moratti. Tale decreto prevede un nuovo stravolgimento organizzativo del percorso formativo definendo una struttura cosiddetta ad “Y”, in cui, di volta in volta, lo studente deve scegliere la “tipologia” di offerta formativa. Il decreto infatti prevede un anno, corrispondente a 60 crediti formativi, comune a tutti i corsi di laurea della classe disciplinare, al termine del quale lo studente compirà una scelta di tipo “metodologico” o di tipo “professionalizzante”. In entrambi i casi si giunge al conseguimento della laurea triennale: nel primo caso si potrà proseguire con il biennio per ottenere la laurea magistrale (già laurea specialistica) e nel secondo si entra direttamente nel mondo del lavoro. Le attività didattiche previste per il primo anno in comune devono essere intese come una ricerca di orizzontalità in un percorso apparentemente rigido e verticale; allo stesso fine sono istituite delle “occasioni” per passare da un biennio all’altro, definite “passerelle”, per evitare la rigidità di un sistema che altrimenti risulterebbe costringente nella sua irrevocabilità. Notiamo però quanto si insista sulla separazione netta tra formazione alla professione e formazione al metodo, distinguendo i due percorsi, frammentando le conoscenze e disorientando sulle relative prospettive future.
I provvedimenti legislativi che abbiamo brevemente richiamato sono frutto di una vivacità intrinseca al mondo universitario che sa e deve sempre tendere ad un rinnovamento costante. Questi provvedimenti hanno poi trovato attuazione grazie al lavoro degli attori in causa: i rettori, i docenti e gli studenti. La CRUI ha avviato sin dal 1999 progetti per tradurre meglio in atto la riforma, tra cui CampusOne, con l’obiettivo di delineare un progetto di management didattico non delineato a priori ma in base all’esperienza e alle esigenze reali. Gli obiettivi generali di tale progetto, ormai a regime in diversi atenei, è di proporre un sistema formativo innovativo con attenzione particolare: al raccordo tra i contenuti dei programmi universitari e le esigenze del mercato del lavoro; allo sviluppo delle competenze strumentali informatiche e linguistiche; allo sviluppo di attività trasversali, favorendo occasioni di lavoro in gruppo, esperienze relazionali ecc.; incentivando la familiarizzazione con il mondo dell’ICT, Information and Communication Technologies.
1. 2 Saper fare, interdisciplinarietà e flessibilità dei percorsi
L’università sta radicalmente riorganizzando la didattica anche in virtù di un ripensamento più ampio del suo ruolo all’interno della società. Non si tratta quindi semplicemente di rinnovare metodi e gestione dei singoli corsi di laurea, ma di un cambiamento più profondo che interessa la proiezione delle agenzie formative in un contesto di dimensioni globali e di interconnessioni complesse. Infatti, assistiamo a un continuo delinearsi di nuove forme di cittadinanza che superano i limiti geografici e culturali imposti dagli stati nazionali per partecipare alla società planetaria: è necessario quindi guardare all’altro, alle storie “altre” e alle culture transnazionali aprendosi al confronto e al dialogo.
In passato l’organizzazione del sapere era fondata su due ipotesi fondamentali: la stabilità della cultura legata a territori e categorie ben definite, e il continuo riferimento all’individuo “medio”, alla standardizzazione dell’interlocutore. Oggi è necessario sapersi porre dei problemi di interesse globale calibrando la didattica non più sull’ obiettivo dell’omologazione, ma sulla produzione di linguaggi omogenei che sappiano codificare e tradurre culture sempre più frenetiche.
Nel concreto l’università ha dovuto affrontare alcuni concreti fenomeni: l’aumento degli iscritti, l’incremento delle funzioni relative all’ingresso (orientamento) e all’uscita (jobplacement), e, infine, l’attività sempre più necessaria del fund raising e della sponsorizzazione. Si va sempre più delineandosi un modello di ateneo legato aflessibilità, autonomia e competitività. Queste tre caratteristiche sono interconnesse: infatti, non è possibile garantire una flessibilità che diversifichi i corsi di laurea se non esiste autonomia della didattica; quest’ultima è garantita dall’autonomia finanziaria che dipende dal grado di competitività dell’ateneo in confronto agli altri. Ma la competizione si manifesta a più livelli: nel contesto locale e in quello globale; a livello nazionale e a livello internazionale, misurandosi su più ambiti: l’attrattività dei corsi di laurea, l’atteggiamento dialogico con gli interlocutori territoriali, la capacità d’nnovazione degli strumenti e la produttività della ricerca.
Il parametro della competizione è legato a una cultura tecnologica all’insegna della performance, unico termine di giudizio, che sposta l’attenzione dai processi ai risultati, ai prodotti. In realtà questa è una dinamica acquisita dal mondo del lavoro che può e sa remunerare solo un prodotto e non un processo.
In questa direzione, l’università ha finora seguito un’impostazione della didattica che procede per funzioni, generando cioè le figure professionali richieste dal mondo del lavoro. Tale modello, però, può risultare inadeguato perchè deriva da un contesto in cui l’attività della didattica era fondamentalmente più ristretta, i suoi referenti pochi e più omogenei, il grado di autonomia degli atenei inferiore rispetto al presente, gli obiettivi in larga parte autoreferenziali e i vincoli meno definiti. Quello che si cerca di perseguire oggi è un modello organizzativo della didattica che non sia articolato per funzioni, più o meno rigidamente compartimentate, ma che si basi su un modello trasversale di lavoro gestito per obiettivi e per processi; un sistema di riferimento che filtri le diversità formative dell’individuo, creando interconnessioni tra esse, rielaborandole e integrandole.
Procedendo per funzioni ci si basava sull’idea di una Università-contenitore, che potesse cioè custodire e trasmettere il sapere in modo enciclopedico. In realtà ci accorgiamo come sempre di più il sapere venga declinato al plurale: i saperi sono sempre più frammentati e filiformi, e risulta difficoltoso il tentativo di catalogarli per contenerli. Una visione del sapere convergente appartenente al passato lascia il posto all’idea di un sapere divergente, risultato non dall’accumulazione di più informazioni, ma della moltiplicazione: si tratta di una “cultura rigenerante” che sa aggiornare le conoscenze acquisite attraverso la pratica del dubbio metodico che può favorire nuovi saperi.
1. 1 La didattica tra vecchio e nuovo ordinamento
Prima di scendere nello specifico dei fenomeni di cambiamento che stanno caratterizzando il mondo universitario in merito all’organizzazione didattica, è necessario ripercorrere brevemente le tappe salienti che hanno portato a un ripensamento dell’impianto didattico e a un suo aggiornamento.
La situazione attuale è il risultato di un percorso di cambiamento avviato nel 1999 dal decreto ministeriale 509 che aveva l’obiettivo di ridefinire l’architettura dei percorsi di formazione superiore.
Già negli anni precedenti, la legge Ruberti n. 168/89 aveva disegnato un impianto fortemente dualistico, istituendo il cosiddetto Diploma di Laurea come un percorso professionalizzante e la Laurea come quel percorso votato ad una formazione di base e di lunga durata. Del cosiddetto “quadrifoglio Ruberti” è però interessante recuperare l’art. 6 e l’art. 8 che, oltre all’autonomia finanziaria e organizzativa, afferma l’autonomia della didattica, prevedendo che ogni università e ogni ente di ricerca si dia un proprio ordinamento e un proprio statuto. In ordine di tempo si sono poi susseguite la “bozza Martinotti”, del 9 dicembre 1997, che proponeva l’idea di un’organizzazione del percorso universitario in tre sezioni (diploma, laurea e post-lauream); e la Bassanini 2, ovvero la legge n. 127 del ’97 che ha avviato in concreto il piano di attuazione della autonomia didattica attraverso un processo di snellimento legislativo.
La 509 voleva rispondere ad alcune questioni lasciate in sospeso dall’ordinamento precedente. In particolare si è ribadita l’autonomia didattica di ogni ateneo di poter differenziare l’offerta formativa dei singoli corsi di laurea. Allo stesso tempo, la riforma ha voluto articolare l’offerta formativa con la costituzione di nuovi corsi di laurea che potessero interpretare i cambiamenti del mercato del lavoro. Inoltre, la riforma aveva l’obiettivo di reagire al fenomeno dell’abbandono degli iscritti e all’elevata età media dei laureati. Infatti, negli anni successivi di applicazione generalizzata della riforma si è registrato un aumento costante degli iscritti che negli ultimi anni si sono stabilizzati intorno alle 350 mila unità.
Di pari passo all’aumento della domanda formativa va l’aumento dell’offerta, ovvero quel fenomeno apparentemente incontrollato della proliferazione di nuovi corsi di laurea. Sono 4.539 i corsi attivati in Italia, di cui circa 80 del vecchio ordinamento. Il numero di corsi di laurea del nuovo ordinamento è ulteriormente aumentato nel 2003/04 di 44 unità (erano 3.024 nel 2002/03 ed è aumentato a 3.068 nel 2003/04). Nonostante i tentativi a livello centrale di semplificazione del quadro dell’offerta formativa, che appariva un po’ ridondante, nell’A.A. 2003/2004, quasi un corso su cinque era di nuova istituzione. I settori, o meglio, le classi disciplinari che risultano avere attuato il maggior numero di nuovi corsi sono quelli psicologico, geo-biologico e dell’insegnamento, mentre rimangono più stabili quelli medico e giuridico. I corsi di studio si distribuiscono in modo differenziato tra i programmi delle lauree triennali (3.358 corsi), specialistiche a ciclo unico (178) e specialistiche biennali (1.247). Esiste allora un rapporto numerico per cui per 100 corsi triennali e esistono 39 corsi di specializzazione.
Tale fenomeno si inserisce certo nelle intenzioni del legislatore di diversificare sempre più un’offerta didattica legata ad un sistema ormai non più attuale, ma disattende quella che era la visione di un percorso formativo compiuto che riuscisse ad esaurire le esigenze di formazione dello studente prima e del mercato del lavoro poi. Infatti, la maggior parte degli studenti in possesso del titolo di studio di Laurea triennale decide di proseguire il percorso universitario iscrivendosi a una laurea specialistica. E’ una scelta spesso dettata da una mancata sinergia con il mondo del lavoro che non sempre è preparato a accogliere il “prodotto” di un sistema formativo non ben noto (ad esempio alcuni ordini professionali hanno ritardato l’adattamento dei propri albi alla riforma). Oppure lo studente non “si sente ancora pronto” per entrare nel mondo del lavoro e sceglie allora di proseguire attraverso i master, che comportano una spesa onerosa e che spesso rischiano semplicemente di rimandare il problema senza costituire una soluzione reale.
I dati citati fanno riferimento alla situazione attuale dell’Università Italiana che dovrà affrontare un ulteriore assestamento in seguito all’approvazione del decreto ministeriale 270/04, firmato dal ministro Moratti. Tale decreto prevede un nuovo stravolgimento organizzativo del percorso formativo definendo una struttura cosiddetta ad “Y”, in cui, di volta in volta, lo studente deve scegliere la “tipologia” di offerta formativa. Il decreto infatti prevede un anno, corrispondente a 60 crediti formativi, comune a tutti i corsi di laurea della classe disciplinare, al termine del quale lo studente compirà una scelta di tipo “metodologico” o di tipo “professionalizzante”. In entrambi i casi si giunge al conseguimento della laurea triennale: nel primo caso si potrà proseguire con il biennio per ottenere la laurea magistrale (già laurea specialistica) e nel secondo si entra direttamente nel mondo del lavoro. Le attività didattiche previste per il primo anno in comune devono essere intese come una ricerca di orizzontalità in un percorso apparentemente rigido e verticale; allo stesso fine sono istituite delle “occasioni” per passare da un biennio all’altro, definite “passerelle”, per evitare la rigidità di un sistema che altrimenti risulterebbe costringente nella sua irrevocabilità. Notiamo però quanto si insista sulla separazione netta tra formazione alla professione e formazione al metodo, distinguendo i due percorsi, frammentando le conoscenze e disorientando sulle relative prospettive future.
I provvedimenti legislativi che abbiamo brevemente richiamato sono frutto di una vivacità intrinseca al mondo universitario che sa e deve sempre tendere ad un rinnovamento costante. Questi provvedimenti hanno poi trovato attuazione grazie al lavoro degli attori in causa: i rettori, i docenti e gli studenti. La CRUI ha avviato sin dal 1999 progetti per tradurre meglio in atto la riforma, tra cui CampusOne, con l’obiettivo di delineare un progetto di management didattico non delineato a priori ma in base all’esperienza e alle esigenze reali. Gli obiettivi generali di tale progetto, ormai a regime in diversi atenei, è di proporre un sistema formativo innovativo con attenzione particolare: al raccordo tra i contenuti dei programmi universitari e le esigenze del mercato del lavoro; allo sviluppo delle competenze strumentali informatiche e linguistiche; allo sviluppo di attività trasversali, favorendo occasioni di lavoro in gruppo, esperienze relazionali ecc.; incentivando la familiarizzazione con il mondo dell’ICT, Information and Communication Technologies.
1. 2 Saper fare, interdisciplinarietà e flessibilità dei percorsi
L’università sta radicalmente riorganizzando la didattica anche in virtù di un ripensamento più ampio del suo ruolo all’interno della società. Non si tratta quindi semplicemente di rinnovare metodi e gestione dei singoli corsi di laurea, ma di un cambiamento più profondo che interessa la proiezione delle agenzie formative in un contesto di dimensioni globali e di interconnessioni complesse. Infatti, assistiamo a un continuo delinearsi di nuove forme di cittadinanza che superano i limiti geografici e culturali imposti dagli stati nazionali per partecipare alla società planetaria: è necessario quindi guardare all’altro, alle storie “altre” e alle culture transnazionali aprendosi al confronto e al dialogo.
In passato l’organizzazione del sapere era fondata su due ipotesi fondamentali: la stabilità della cultura legata a territori e categorie ben definite, e il continuo riferimento all’individuo “medio”, alla standardizzazione dell’interlocutore. Oggi è necessario sapersi porre dei problemi di interesse globale calibrando la didattica non più sull’ obiettivo dell’omologazione, ma sulla produzione di linguaggi omogenei che sappiano codificare e tradurre culture sempre più frenetiche.
Nel concreto l’università ha dovuto affrontare alcuni concreti fenomeni: l’aumento degli iscritti, l’incremento delle funzioni relative all’ingresso (orientamento) e all’uscita (jobplacement), e, infine, l’attività sempre più necessaria del fund raising e della sponsorizzazione. Si va sempre più delineandosi un modello di ateneo legato aflessibilità, autonomia e competitività. Queste tre caratteristiche sono interconnesse: infatti, non è possibile garantire una flessibilità che diversifichi i corsi di laurea se non esiste autonomia della didattica; quest’ultima è garantita dall’autonomia finanziaria che dipende dal grado di competitività dell’ateneo in confronto agli altri. Ma la competizione si manifesta a più livelli: nel contesto locale e in quello globale; a livello nazionale e a livello internazionale, misurandosi su più ambiti: l’attrattività dei corsi di laurea, l’atteggiamento dialogico con gli interlocutori territoriali, la capacità d’nnovazione degli strumenti e la produttività della ricerca.
Il parametro della competizione è legato a una cultura tecnologica all’insegna della performance, unico termine di giudizio, che sposta l’attenzione dai processi ai risultati, ai prodotti. In realtà questa è una dinamica acquisita dal mondo del lavoro che può e sa remunerare solo un prodotto e non un processo.
In questa direzione, l’università ha finora seguito un’impostazione della didattica che procede per funzioni, generando cioè le figure professionali richieste dal mondo del lavoro. Tale modello, però, può risultare inadeguato perchè deriva da un contesto in cui l’attività della didattica era fondamentalmente più ristretta, i suoi referenti pochi e più omogenei, il grado di autonomia degli atenei inferiore rispetto al presente, gli obiettivi in larga parte autoreferenziali e i vincoli meno definiti. Quello che si cerca di perseguire oggi è un modello organizzativo della didattica che non sia articolato per funzioni, più o meno rigidamente compartimentate, ma che si basi su un modello trasversale di lavoro gestito per obiettivi e per processi; un sistema di riferimento che filtri le diversità formative dell’individuo, creando interconnessioni tra esse, rielaborandole e integrandole.
Procedendo per funzioni ci si basava sull’idea di una Università-contenitore, che potesse cioè custodire e trasmettere il sapere in modo enciclopedico. In realtà ci accorgiamo come sempre di più il sapere venga declinato al plurale: i saperi sono sempre più frammentati e filiformi, e risulta difficoltoso il tentativo di catalogarli per contenerli. Una visione del sapere convergente appartenente al passato lascia il posto all’idea di un sapere divergente, risultato non dall’accumulazione di più informazioni, ma della moltiplicazione: si tratta di una “cultura rigenerante” che sa aggiornare le conoscenze acquisite attraverso la pratica del dubbio metodico che può favorire nuovi saperi.
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