A PROPOSITO DI UNA LEZIONE
DI ANTONIO LIVI SU
RAGIONE E FEDE IN MARITAIN
Nota di Rocco Pezzimenti
In una recente e densissima conferenza[1], titolata Moderno e antimoderno: Il tomismo di Jacques Maritain, il professor Antonio Livi ha toccato una serie di punti che meritano una particolare attenzione. Molto opportunamente si è partiti da una considerazione del filosofo francese relativa all’Aeterni Patris di Leone XIII che sembra ammonire: “Si vuole far credere agli sprovveduti che le conclusioni contrarie al dogma alle quali pervengono (alcuni teologi) sono conseguenza dell’aver essi adottato le categorie della scienza, che sarebbe sempre imparziale; ma la verità e che si tratta di errori presenti fin da principio, frutto di una metafisica, spesso adottata inconsapevolmente, che altro non è se non un mero rivestimento intellettuale (…) Ora questa sedicente scienza si dichiara neutrale, ma fin dal principio si mette surrettiziamente al servizio di una metafisica che nega e contraddice la fede, per poi spacciare le ipotesi di questa metafisica per risultati della sua ricerca”[2]. Si tratta, ricorda giustamente Livi, di uno dei tanti attacchi “che avevano come progetto la riforma del cristianesimo in senso secolaristico”[3]. Tentativo mastodontico, ma vuoto ed irrealistico dato che una completa secolarizzazione avrebbe dovuto privare il cristianesimo della sua portata metafisica, tentativo ridicolo non solo per la natura stessa del cristianesimo, ma perché quelle stesse filosofie che si sono impegnate in una simile operazione hanno finito per essere legate indissolubilmente alla metafisica stessa. Sia il metodo fenomenologico sia il tentativo di ridurre il tomismo a proposta esistenziale, sono la dimostrazione “che la metafisica, superficialmente liquidata da molti teologi, è indispensabile per trovare una adeguata giustificazione epistemica a ogni pretesa di verità”[4]. Estremamente opportuna quella dicitura “molti teologi” che non sembrano porsi nella scia di quei “filosofi cristiani che, seguendo l’esempio di Vico e di Rosmini, tentano uno svolgimento autonomo delle istanze speculative moderne, in piena armonia con la loro fede nella Rivelazione”[5].
In questa via si pone Maritain che recupera i contenuti, e soprattutto la metodologia, della speculazione tomista. La sua riflessione si concentra sul senso dell’essere tramite il quale la ragione umana coglie “l’essere degli essenti, inteso come evidenza di significato (intelligibilità) e allo stesso tempo come inesauribilità di senso (problematicità)”[6]. In altre parole, com’è stato rilevato nella lezione, lo scopo è quello di ribadire la razionalità della fede cristiana. Questa poi, sottolineando la distinzione tra cultura e sapienza, arriva a ricordare che il Vangelo è per tutti e rivendica il ruolo del “senso comune” sul quale concentreranno la loro attenzione non pochi pensatori francesi, oltre a Maritain, come Gilson o Garrigou-Lagrange. Senso comune che, giova ricordarlo, seppure d’origine stoica, diventa poi uno dei cardini dell’intero pensiero cristiano sino ai nostri giorni, come ha ben evidenziato la stessa riflessione di Rosmini.
La modernità di Tommaso e dei suoi più grandi interpreti sta tutta qui. Lo stesso “Maritain è dunque un filosofo autenticamente moderno, perché moderna è la nozione di senso comune, chiave di volta della critica razionale del cartesianesimo elaborata da un imponente filone speculativo”[7]. Questo è, oggi, fortemente attaccato: la forza del senso comune è divenuta uno scandalo per alcuni professionisti del pensiero che, mi perdoneranno, ma stento a definire filosofi. Mi sembra, però, che questa sia anche la posizione di Livi del quale, non credo a sproposito, vorrei riprendere un breve ma densissimo scritto che chiarisce, per altra via, quanto detto nella sua lezione.
Allontanarsi dalla metafisica è allontanarsi dalla filosofia, tentativo peraltro tanto sciagurato quanto inutile essendo l’essere umano “costituzionalmente” un essere metafisico[8]. Idea questa che va un po’ controcorrente ed urta non pochi post-moderni. Ecco perché condivido pienamente, come sostiene proprio Livi, che l’antifilosofia di Rorty e il pensiero debole di Vattimo siano due facce della stessa medaglia: lo scetticismo radicale della post-modernità. Aspetto questo confermato da entrambi i pensatori che pure provengono da due impostazioni diametralmente opposte. È per questo che le contraddizioni dell’uno finiscono per essere le contraddizioni dell’altro. Acutamente Antonio Livi osserva che il loro scopo è quello “di convincere i credenti che la loro fede deve essere oggi interpretata come fedeltà ad un’eredità culturale del passato, ma depurata da ogni residuo metafisico”[9]. Oltre che una svista, e voglio essere buono, storica e culturale, questa è una affermazione linguistica priva di senso. La fede ha sempre significato proprio il contrario: non è solo un’interpretazione del passato o un’illuminazione per il presente, bensì una prospettiva per il futuro. Se manca questa, per buona pace di Croce[10], la religione si riduce a pura sociologia o storia, rendendo di fatto inutile persino la supposizione dell’esistenza di Dio. È per questo, che si arriva alla paradossale conclusione di definire l’uomo moderno come colui “che non avendo più bisogno della rassicurazione estrema, magica, che era fornita dall’idea di Dio, accetta la probabilità che la storia non stia affatto dalla sua parte e non vi sia alcuna forza in grado di garantirgli la felicità”[11]. Da qui al sostenere, come fa Vattimo, che la verità del cristianesimo è quella di dissolvere il concetto stesso di verità e l’approdare al nichilismo, il passo è breve. È logico, quindi, che chi continua a parlare di fede o di ragione, pur riconoscendone i limiti, e ritiene ancora di poter ricercare i fondamenti sui quali ancorare l’esistenza, non è al passo con i tempi.
Tentativo questo insensato, a parere di alcuni post-moderni, perché chi opera questo tentativo non è in grado di vedere che “al posto dell’essere capace di funzionare come Grund si intravede (…) un essere che, costitutivamente, non è più capace di fondare, un essere debole e depotenziato”[12]. Come conseguenza dovremmo avere un essere finalmente libero di agire come meglio crede. Un essere che, quindi, giustifica il suo fare in base al suo personale sentire, o godere, insomma, diciamolo apertis verbis, che fa il proprio comodo, che diventa misura della sua moralità. Posizione questa che spiega perché, alla fine, cattolici come Antiseri, cristiani come Vattimo e scettici come Rorty si ritrovino d’accordo sull’impossibilità di fondare razionalmente la fede e, quindi, difendere razionalmente valori che abbiano implicazioni etiche.
Capisco che simili parole potranno far risentire i pensatori suddetti, ma gioverà ricordare che proprio costoro lasciano intendere che chi “non si adegua al trend culturale è fuori della storia”[13]. Lo sostengono con argomenti “deboli”, che qualcuno potrebbe definire in linea col loro pensiero, ma che sono deboli nel senso di insostenibili. Come si fa, infatti, a sostenere “tanto per cominciare, la sintesi storica che vede prima un’epoca caratterizzata dalla Fede e poi un’epoca caratterizzata dalla ragione?” Questa è una “visione della storia della cultura assolutamente priva di riscontri”[14]. La storia delle idee è il più delle volte è un dibattito tra Cartesio e Pascal, tra Hegel e Jacobi, insomma tra fede e ragione o vogliamo credere che gli stessi arguti medievali perdessero tempo a dimostrare l’esistenza di Dio in un mondo in cui tutti credevano?
Molto opportunamente è stato poi sottolineato che occorre affrontare il problema dello statuto epistemologico della filosofia della religione. Questo significa che non si può affrontare il discorso religioso in termini generici, ma “occorre parlare della religione in generale e del cristianesimo in particolare chiarendo fin da principio quale idea o concetto della religione si adotta, discutendone poi la legittimità critica”[15]. Ci si accorgerà allora che le problematiche religiose non si esauriscono nella sfera del presente, ma che il loro “valore intrinseco è certamente metastorico”[16]. Se così non fosse e si volesse relegare la filosofia esclusivamente nella dimensione storica, la religione si esaurirebbe nella dimensione politica. Tentativo questo, operato da quanti hanno voluto leggere il processo di Gesù in chiave esclusivamente repressiva e socio-politica. Ma proprio di fronte a Pilato è lo stesso Cristo a sostenere che il suo operato non può essere letto solo in chiave terrena, e quindi culturale, rivendicando di fronte l’autorità costituita che il suo Regno, quindi il suo modus interpretandi, non è di questo mondo. Possibile che ad un filosofo dell’interpretazione come Vattimo sfugga un tratto così determinante sul quale si regge l’intero Cristianesimo?
La dimensione culturale, il trend al quale fanno riferimento alcuni di questi pensatori post-moderni, riduce la religione ad una dimensione sociologica alla quale occorre in qualche modo adeguarsi. Anche questa, però, è una posizione per nulla nuova e ricalca quella della propensione alla secolarizzazione[17] che è l’esatto contrario di quello che richiede la conversione. Questa non ci chiede affatto di adeguarci, anzi, di testimoniare anche se fossimo pochi, o addirittura soli, quello che il mondo, e il secolo appunto, non vuole neppure sentire. Ecco perché per Livi, giustamente, c’è chi non condivide che Vattimo possa affermare “che non bisogna più avere certezze fondate e che pertanto non bisogna dialogare esigendo delle ragioni convincenti”[18]: questo, però, equivarrebbe a dire che si può giocare senza regole. Senza fondamenti non è possibile neppure l’attività ludica, il gioco. Se ci si accalora tanto sui risultati, è perché si ritiene che non si possano disattendere le regole, non ci si può insomma prendere gioco dei fondamenti. Se così non fosse avrebbe ragione il cinismo di Machiavelli dato che, per lui, “colui che vince, in qualunque modo vince, non prova mai vergogna”. Quando si alza un polverone mediatico sulla regolarità, ad esempio, di una elezione è perché senza regole di base non si può neppure ragionare e quindi vivere. Le regole, infatti, non sono astrazioni, ma fondamenti e modelli di vita che debbono essere accettati da chiunque gioca. Non possono essere imposti, ma se si accetta di giocare debbono essere accettati. Lo stesso vale per la religione e “la Chiesa, infatti, non vuole che il Vangelo sia accettato se non per una personale persuasione che porti ad accogliere la verità che salva, di modo che l’evangelizzatore non deve mirare a vincere ma a convincere”[19].
È questo quanto fece Tommaso, che gode poca considerazione in ambienti non tomisti, forse, anche per colpa di alcuni suoi interpreti. I suoi estimatori si limitano a vederlo “Aristotele dipendente”[20]. L’Aquinate ha studiato ed utilizzato il filosofo greco, ma il suo retroterra è molto più ampio e complesso e costituisce una sintesi della riflessione antica e medioevale. Tra i tanti, voglio richiamare un esempio. Dire che la concezione dell’uomo come animale politico equivale a quella più tarda, dagli stoici in poi, di animale sociale è fondamentalmente sbagliato ed a provarcelo è proprio Tommaso. La seconda concezione, infatti, implica un criterio di mutabilità, diremmo oggi di mobilità sociale, estraneo alla prima. Lo prova ampiamente il problema della schiavitù, per Aristotele ope natura e, quindi, immutabile e anche immodificabile. Tommaso, invece, riprende la concezione ciceroniana della schiavitù ope iure che presenta una possibilità di riscatto sociale e politico, del tutto assente nel filosofo greco[21]. Inutile soffermarsi sulle conseguenze, che sono, per tutti, estremamente chiare.
Lo stesso vale per quel che riguarda il problema dell’etica. Anche in questo, spesso, Tommaso viene affiancato acriticamente all’etica aristotelica. Come ha detto più di qualche interprete, quest’etica si richiama al linguaggio delle virtù e, fra queste, alla “prudenza politica che, certo, non si può identificare con la furbizia nell’agire politico”[22]. Ovvio che quest’accorgimento è presente in tutta la riflessione di Tommaso, ma il problema della sua etica non può essere ridotto tutto qui, come se il cristianesimo non avesse aggiunto niente ad un tema così cruciale. La morale cristiana presenta il concetto di persona in modo totalmente diverso dalle concezioni etiche precedenti e da quelle che seguiranno. Inoltre la persona si caratterizza per essere una forma d’adesione alla Persona di Cristo che, per il vero cristiano, diventa la radice e il fondamento d’ogni comportamento. Cristiano significa, infatti, “altro Cristo”, posizione così ben definita da San Paolo che arriva a dire “vivo, però, non più io, ma vive in me Cristo” (Gal, 2.20). Non è più la ragione o la natura, come per i greci, e neppure la tradizione, come per i romani, che dà un significato al nostro agire morale: questo ha senso solo a partire dalla rivelazione di Gesù Cristo.
Questa conclusione consente di ritornare alla lezione-conferenza di Livi dalla quale, mi sembra, emerge con chiarezza quel senso di smarrimento che il pensiero contemporaneo avverte quando mette da parte i presupposti della metafisica e s’inorgoglisce nella sua presunzione che può assumere le tinte di vari colori, anche quello del relativismo, molto più presente di quanto non si possa immaginare, non solo nella filosofia, ma purtroppo in un sempre crescente “senso comune”. Come cristiani, siamo stati quasi avvisati del problema dallo stesso Salvatore. Non vorrei dare un’interpretazione filosofica di un brano del Vangelo, che suona sempre ridicola, ma c’è un punto nel quale credo ci sia da sottolineare una notevole vicinanza con i problemi trattati. Il brano è quello noto del fariseo e del pubblicano (Mt, 18. 9-14).
A ben vedere il primo diventa la misura di se stesso (“non sono come gli altri uomini”) ed il suo legalismo è la malattia dei nostri giorni: “quello che la legge permette o chiede lo faccio”, perché è la legge la misura del fare. Tutto è relativo a ciò che la legge chiede, anche se questa rovescia o esclude i fondamenti. All’interno della legge si sente autosufficiente, ad essa si rapporta, con essa si concilia e, senza volerlo ammettere, ad essa si relativizza. La legge diventa la sua verità storica, come ha drammaticamente testimoniato la dialettica hegeliana. Il fariseo è molto vicino a tanti pensatori del nostro tempo, anzi il suo modo di essere è, oggi, divenuto moda e tanti, troppi lo imitano.
Il pubblicano, al contrario, ha una sola certezza: quella di essere peccatore e, per questo, chiede pietà e la chiede al solo che può concederla. Quella certezza, che oggi diremmo metafisica (per molti un’illusione), gli rivela il suo effettivo essere: la sua miseria e la sua grandezza (“tornò a casa giustificato”). Il pubblicano sente che la realtà non potrà mai pienamente assolverlo e, quindi, pienamente appagarlo. Per questo, direbbe Padre Theodossios Maria della Croce[23], sente in sé quel senso di nostalgia di un’altra dimensione. Era questo, pure se in modo diverso, uno dei temi che portarono Agostino a riflettere sul tema della felicità. In fondo anche Tommaso, che non a caso è santo, ha operato questo salto, ed ancorare la sua filosofia ad un mondo pre-cristiano significa ridimensionarlo e misconoscerne la sua effettiva grandezza.
Rocco Pezzimenti
[1] Si tratta più esattamente di una lezione tenuta il 6 maggio per la cattedra San Tommaso e il pensiero contemporaneo istituita presso la Pontificia Università Lateranense.[2] Faccio qui riferimento alla parte della lezione pubblicata da L’Osservatore Romano il 6 maggio 2009 dal titolo La fobia del logos paralizza il pensiero contemporaneo.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] Ivi.
[7] Ivi. Antonio Livi tra i tanti esponenti di questo filone ricorda anche Balmes. Al riguardo mi permetto di richiamare un mio studio (Storia e politica in Jaime Balmes, Aracne, Roma, 1999) nel quale analizzo anche El Criterio, opera cruciale dal punto di vista della conoscenza e della certezza in particolare.
[8] Ho trattato questo argomento in un testo apparso in inglese di qualche anno fa: Homo Metaphysicus with letters from K. R. Popper, V. Tonini, L. Pauling, J. Eccles, H. von Balthasar, P. Pavan, LER, Napoli-Roma, 1992.
[9] A. Livi, Rorty e Vattimo: il cristianesimo in prospettiva post-metafisica, in Aquinas, anno XLIX, 2006/1, p. 176.
[10] Cfr. a questo proposito l’Appendice prima: “Cristiani” o “Post-cristiani”? nel mio lavoro Politica e religione. La secolarizzazione nella modernità, Città Nuova Editrice, 2004, pp. 229 e segg.
[11] [11] A. Livi, Rorty e Vattimo: il cristianesimo in prospettiva post-metafisica, cit., p. 177.
[12] Ibidem, p. 178.
[13] Ibidem, p. 184.
[14] Ibidem, entrambe le citazioni sono di p. 181.
[15] Ibidem, p. 182.
[16] Ibidem, p. 183.
[17] Ho trattato questo argomento nel già citato lavoro Politica e religione. La secolarizzazione nella modernità.
[18] [18] A. Livi, Rorty e Vattimo: il cristianesimo in prospettiva post-metafisica, cit., p. 184.
[19] Ibidem.
[20] Cfr. al riguardo il sia pur pregevole lavoro di A. F. Utz, Etica politica. In collaborazione con la contessa Brigitta von Galen, San paolo Edizioni, Milano, 2008.
[21] A questa considerazione ho dedicato uno studio (La società aperta e i suoi amici con lettere di I. Berlin e K. R. Popper, Città Nuova Editrice, Roma 2008, sec. ediz.) al quale mi permetto di richiamare l’attenzione proprio del cap. V relativo al pensiero politico dell’Aquinate.
[22] Cfr. A. F. Utz, Etica politica. In collaborazione con la contessa Brigitta von Galen, cit., pp. 8-9.
[23] Cfr. i suoi scritti pubblicati negli ultimi anni dalla Casa Editrice Città Nuova.
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