giovedì, dicembre 03, 2020

Ho visto Maradona



Di Lorenzo Altieri

E no, non ci sono parole. Perché siamo naufraghi, e non marinai. Ti illudi di poter governare le onde, ma il più delle volte ti travolgono. E quando le onde sono troppo alte, non puoi parlare. Puoi solo trattenere il fiato, e aspettare che passino.
Ora che riprendo a respirare, adesso che credo di riuscire a tirare la testa fuori dalle onde, provo a cercare le prime parole. Le parole vengono solo dopo. Però poi ti salvano, perché ti permettono di raccontare il mare, di dire il tuo naufragio. E soprattutto di parlare di quel posto bellissimo che avevi visto, prima.
Ho visto Maradona. A proposito: è stato un grandissimo calciatore, il migliore di tutti i tempi, ma come uomo forse è stato ancora più grande. Chiarito questo semplice concetto preliminare, possiamo cominciare.
Ho visto Maradona, sin dall’inizio. Perché mi ricordo benissimo quel 5 luglio del 1984. Avevo quasi otto anni, e mi rimasero impressi i suoi pantaloni celesti e i palloncini blu. Quindi, ricordo tutto, dall’inizio. Aiuta, quando hai a che fare con la fine.
Ho visto Maradona, ma mai troppo da vicino. Sempre solo dai distinti superiori. La mia era una famiglia normale, non ho mai avuto un parente, un amico, un usciere che mi facesse “entrare” da qualche parte. Ma non importa, naturalmente. L’ho visto giocare a pallone. Per me. E per molti altri, certo.
Erano tantissimi, e soprattutto quando si alzavano in piedi smettevo di vederlo, Maradona. Ma era solo per un attimo. E poi era bello che ci fosse tanta gente. I cori, le radioline, il caffè Borghetti (che era solo per i grandi). E c’era mio padre. Man mano che crescevo, all’ingresso mi diceva di abbassarmi, così mi facevano entrare gratis. Un giorno – era un Napoli-Fiorentina, ma non quello – mi persi, allo stadio. Avrò avuto dieci anni. Mi allontanai all’intervallo, ma quando provai a tornare da papà tutti si erano rialzati in piedi. E non sapevo dove andare. All’uscita, due signori gentili mi videro che vagavo per piazzale Tecchio e mi portarono a casa in auto. Trovai mia madre attaccata al telefono, piuttosto pallida. Quella sera mio padre mi fece un discorso molto serio in camera da letto. Qualcosa sul trovare sempre dei punti di riferimento, per non perdersi mai.
E poi naturalmente ricordo quella volta. Era di maggio, e c’era anche mamma. Ero molto eccitato perché dovemmo andare così in anticipo che ci portammo dei panini. Una specie di pic-nic allo stadio. Avevo quasi undici anni, capite, era molto divertente. E quella volta, mamma e papà si misero a piangere, e allora mi misi a piangere anch’io. Gli spalti tremavano. E tutti cantavamo una canzone molto bella, che a distanza di tanti anni Maradona si ricordava ancora. Sì, Diego, eri la mia vita. Era la mia vita.
Vita, vita mia.
In realtà mi sono ricordato ieri che mia mamma è stata l’unica ad averlo visto davvero, e toccato addirittura. Perché frequentava lo stesso parrucchiere in via Poerio dove andavano Claudia e le altre mogli dei calciatori. Un giorno lo vide arrivare e credo (ma non ho mai voluto indagare troppo – sapete, è pur sempre mia madre) lo abbracciò commossa. E mi sono ricordato che pochi giorni dopo quell’incontro mamma, ridendo imbarazzata, ci disse a colazione che aveva sognato Maradona. Dal sorriso stampato capimmo che non doveva essere stato un sogno troppo casto, e mio padre era molto combattuto tra l’amore del tifoso e la gelosia del marito.
Ho visto Maradona, tante volte: in un poster gigante a casa di mio cugino, in quelli più piccoli appesi nel nostro solaio, sulle cassette pirata con le canzoni dello scudetto, in ogni televisione. E poi naturalmente nei miei album. Era la figurina più ambita, che a Napoli non so perché non usciva MAI. Avresti scambiato 10 Gullit e 20 Mattaehus, naturalmente. E per quella con il tricolore, anche tua sorella piccola, a sua insaputa. Mio padre ogni tanto si inventava una caccia al tesoro delle bustine Panini nascoste in giro per la casa. Altre volte le compravo rubando i soldi dei miei. Ricordo la gioia incredula quando, aprendo l’ennesimo pacchetto, fatti pochi passi dopo il giornalaio del Corso, vedevo spuntare quella piccola icona plastificata adesiva. Nato a Lanus, in Argentina, eccetera eccetera.
A proposito, da poco sono andato a vedere dov’è esattamente Lanus. Lui era di Villa Fiorito (ora lo sanno anche i tombini e persino i giornalisti mediaset), ma a Lanus c’era l’ospedale. Hospital Interzonal De Agudos Evita. Qualcuno, in questi giorni, ha messo un drappo azzurro fuori al cancello con scritto, semplicemente: “naciò acà”.
Qualcuno ha detto che Maradona era un’unità di misura – non solo del calcio, ma di qualsiasi altro sport. C’era il maradona del basket e il maradona della pallanuoto (qualche anno fa Obama ha detto una cosa simile di Michael Jordan – ma si sa, quelli sono Americani).
E c’erano le finte "alla maradona" fatte col Super Santos in Villa Comunale, o con i palloni pesanti, di cuoio, ai campetti Manzoni. Forse si può dire anche che c’è un maradona della danza e un maradona della canzone. I problemi, come si vede, sono due. Anzitutto, Maradona è soprattutto un’unità di dis-misura.
E’ una figura smisurata, come il suo talento, come la sua vita.
E’ un altro nome con cui chiamare l’Eccellenza, la Bellezza, la Grazia, quando le intravediamo. E dunque – secondo problema – Maradona non è uno “sportivo” (anche, ma sarebbe riduttivo).
E’ un’idea regolativa, un noumeno.
Però a pensarci meglio Maradona è stato soprattutto una unità di misura del mio tempo: ha scandito la mia infanzia e la mia prima giovinezza. E’ stato un metro universale con cui misurare lo spazio della mia città e, più di tutto, l’estensione della mia felicità.
Ecco, ora lo dico meglio: Maradona è una delle unità di misura del mio essere felice. Ma non della felicità piccola, quotidiana, che pure è una cosa bellissima e ci rende la vita migliore. No, Maradona è la gioia che ti fa esplodere il cuore e che ti fa restare senza fiato. E’ il nome proprio di persona della Gioia. Maschile, singolare. Cioè mia: la mia voce, le mie palpitazioni, le mie lacrime. Ma anche femminile, plurale. Cioè di tutti gli altri, tutti quelli che come me hanno visto Maradona e che quindi posso chiamare “noi”. E sento che la loro voce, le loro palpitazioni, le loro lacrime sono le mie. Gracias, por estas lágrimas.
Maradona è un nome singolare che per me dice dunque una cosa molto plurale: Napoli. Maradona è una delle poche cose che mi ha fatto gioire di Napoli e con Napoli. Non di amarla. Uno la ama a prescindere, anche quando la odia. Non di esserne orgoglioso, né di sapere che è la città più bella del mondo. Quello lo sapevo già. Ma urlare di gioia di fronte al mondo, perché la tua è la città più forte del mondo, la tua è la città che il più forte del mondo ha scelto. Ecco. Lui è venuto da me. Per un caso di serendipità cosmica, Maradona ha giocato a Napoli. E Napoli è diventata il centro del mondo, perché Maradona col mondo giocava ogni domenica, e lo faceva rotolare dove voleva.
Ma Maradona non ha semplicemente scelto Napoli (che a pensarci ora, come dice il poeta, non sembra neanche vero). Maradona è venuto a Napoli con una missione: è venuto per portare gioia.
Lo ha detto lui. Sono qui per far felici i Napoletani. Sono qui per far vincere i ragazzi poveri di Napoli. Parola di Diego. Un manifesto.
Un programma politico-poetico. The Pursuit of Happiness. Sta pure nella Costituzione. Una promessa di riscatto, è chiaro.
E, naturalmente, una promessa mantenuta.
Ora, seguitemi bene. Un leader che mantiene le promesse diventa un punto di riferimento. Se poi quella promessa è una cosa mai successa prima, cosa diventa? Un eroe. Se poi per realizzare quella promessa mai successa prima fa cose mai viste prima, cosa diventa? Come si chiamano quelli che fanno i miracoli?
Calma, calma. Mamma mia. Naturalmente un santo non era. Lo so. Soprattutto in un Paese di santi come l’Italia, tanti miei connazionali (?) si sono affrettati a dire che non lo era. D’altronde c’è da credergli: loro, popolo di santi, i santi li sanno riconoscere. E no, certo, Maradona non lo era. Per carità. Il punto è che Nietzsche aveva ragione: a noi secoli di catechismo ci hanno rovinato. Abbiamo – avete – dimenticato le nostre origini. Maradona infatti era un dio greco, tanto quanto Napoli è una città greca (uno che ha studiato l’ha detto pochi giorni fa – ma se proprio non avete il tempo e la voglia di leggere Zarathustra basterebbe guardare Così parlò Bellavista).
Avete presente gli dei? L’Olimpo non era un posto politicamente molto corretto. Non c’era il #metoo, e si commettevano ogni sorta di atti impuri. Ma era il posto più bello che gli umani di questo emisfero hanno mai saputo immaginare. I Greci lo sapevano, e noi ce ne siamo dimenticati: gli dei non sono degli “esempi”. Delle figure esemplari. Che sciocchezza. Gli dei sono gli dei. Stanno lì a farti capire che tu sei mortale, e basta. Gli esempi sono tuo nonno, tuo padre, tua madre, i tuoi maestri. Maiores nostri (che era pure il titolo credo di un libro di antologia latina al liceo). Quelli sono “gli esempi da seguire”. Mica gli dei. E Maradona l’ha sempre detto. Lui aveva capito tutto. (Poi non so voi, ma i miei altri miti, da ragazzo, erano gentaglia tipo Rimbaud e Pasolini, o borderline tipo Beethoven e Leopardi. Così, per dire).
Che poi lui una fonte d’ispirazione per migliaia di ragazzini argentini e napoletani, lo è stato pure. E non solo ragazzini. Il più povero che vince, che sconfigge i ricchi e i potenti. Volete una storia esemplare? Eccola. Al Dio degli Inglesi, non credere mai. (A proposito: non è un gol di mano. Attenzione: è un gol di pugno. Un puño apretado contro il cielo, il pugno sinistro contro tutto quello che volete voi).
Che i Napoletani siano Greci, è proprio tanto vero. Per dirne una: sanno – sappiamo – di essere mortali. E basta. Dopo il primo scudetto – probabilmente la gioia più dirompente, più assoluta, più definitiva provata dalla Città di Napoli – comparve il famoso striscione all’ingresso del cimitero. I Vivi dicevano ai Morti: guagliò, che vi siete persi! Perché lo sanno, i Napoletani, che le ineffabili e un po' noiose beatitudini celesti non si possono paragonare a quella Gioia terrena, viscerale, tumultuosa, per cui mio padre si rotolava nel fango con la cerata gialla dopo la famosa punizione contro la Juventus. E chi è venuto Prima, come chi è venuto Dopo, si è perso una cosa grande, immensa. (La storia finisce con mio padre che in una domenica di fine maggio, per onorare un voto di gioventù, si alza la mattina presto e va a piedi a Pompei).
Forse era Hermes. Dio dei ladri, dell’atletica, dei commerci, della destrezza e della farmacia. Perfetto. Lui. Così c’è dentro tutto, anche la Mano de Dios, le donne e le droghe. Hermes ha le ali ai piedi: Maradona spesso correva, spessissimo saltava. Sfiorava la terra. Ma le ali ai piedi sono anche l’emblema dell’intelligenza che controlla la materia. Ecco un altro punto. Se sfrondiamo il mito, rimane la Grazia dei gesti. La Grazia è quando vediamo uno di noi che fa delle cose che nessuno di noi sa fare. Deve essere uno solo, e devono essere delle cose molto importanti per noi umani. Lo sport (pensate di nuovo ai Greci) è molto importante per noi umani. E il calcio è lo sport più importante di tutti.
Dicono: Maradona violava le leggi della fisica. Non è esatto. Lui mostrava diverse possibilità della fisica. La Fisica della Palla e del Corpo Umano. Disegnava traiettorie che vedeva solo lui e si muoveva sempre nel modo più giusto e più perfetto. Vedere Maradona ti offriva questo privilegio: vedevi la perfezione assoluta in quella Scienza della Palla. Non ha mai fatto un movimento sbagliato, inessenziale, vano. Ogni gesto di Maradona era perfetto perché perfettamente funzionale alla Cosa Migliore Possibile. Maradona ti mostrava scientificamente, plasticamente la definizione stessa di perfezione: e cioè, dato un campo x (il terreno di gioco), attuare le variabili abc che erano sempre, in ogni istante, le migliori possibili in mezzo a un’infinità n di alternative. Tiro al volo da 40 metri? Tiro di testa da 40 metri? Tiro saltando colpendo da un’altezza improbabile per sorprendere il difensore e il portiere? Passo la palla? Li scarto tutti? Ogni volta, la soluzione ideale. La cosa giusta. La cosa da fare. Il campo da gioco diventava per un attimo il migliore dei mondi possibili.
Un genio pazzo, caotico e sregolato? Ma quella è solo la superficie. Roba buona per i rotocalchi. Guardatelo, Maradona. Guardatelo veramente. Maradona era la perfezione iperuranica, l’armonia delle sfere pitagorica. Gesti puliti, composti, asciutti. Maradona era geometricamente cartesiano. Questa, è la vera follia.
Ah, poi qualche volta sbagliava, certo. La palla usciva di poco, il portiere parava, il compagno sbagliava a porta vuota. Ma quello era per ricordare che nel Mondo c’è anche il Male. L’enfer, c’est les autres.
Dunque, la Grazia, la Bellezza. Perché? Perché sono i nomi che diamo a qualcosa che uno ci fa vedere. Qualcosa di molto particolare che prima non c’era. Qualcosa di essenziale, in qualche modo. In fondo non c’è nulla di mistico. E’ solo una diversa configurazione dello spazio e del tempo. Un quadro, una partitura, un verso, una giocata di pallone. Maradona faceva cose apparentemente impossibili. Ma attenzione: non è che siccome le faceva, esse erano possibili. No. Lui le rendeva possibili. Prima che lui le disvelasse, quelle cose non esistevano. Maradona, insomma, è alethico: è la Verità in quanto dis-velamento. Ad Heidegger sarebbe piaciuto, e l’avrebbe chiamato Ereignis.
Maradona, dicevamo, non è napoletano. Che stupidaggine. Come dice giustamente mia sorella, lui era visceralmente argentino. Certo, un po' ci assomigliamo. Certo, un po' l’Argentina ci sta simpatica. Ma Maradona NON era napoletano. E’ proprio qui che scatta la magia: per questo ha potuto scegliere Napoli. Abbracciarla. Fondersi con lei. Non puoi abbracciare te stesso. Non puoi fonderti con qualcosa di cui fai già parte.
Perciò lui non è Pino, non è Eduardo, non è Massimo. E non è neanche Masaniello. Quelli sono figli di Napoli. Sono impastati della stessa pasta di cui siamo fatti noi. Qui sono nati e qui sono morti (il “portatemi a Napoli” di Totò). Maradona no. Lui è venuto.
E ci ha sentito e capito meglio e più di chiunque altro. E ha lottato e vinto per noi e con noi più di chiunque altro. Poi è andato via, e ora riposa con sua madre e suo padre, a Bella Vista, Buenos Aires, Argentina.
Ho visto Maradona. Ho visto dunque questa fusione. Questo abbraccio panico, questa eucarestia mistica che si ripeteva domenica dopo domenica, miracolo dopo miracolo. Maradona era una febbre. Non era la liturgia dei piccoli borghesi, che si fanno il segno della croce e poi scacciano il mendicante fuori la Chiesa. Maradona era la fede che sconquassa, l’estasi della carne, le stimmate nel corpo e nel sangue di una città. Era religione, certo, e c’ho messo un po' per capirlo. Lui, dio greco mercuriale, era anche cristo di periferia: se credi in me, stasera sei in paradiso
(a proposito, Lui lo diceva a un ladrone). Ma non tra mille anni, non in un’Altra vita: ora. Adesso. E lui mi ha portato in quel suo paradiso tante volte. Un paradiso dove succedevano cose mai successe prima, e mai successe dopo. Dove si vedevano gesti mai visti.
Un posto dove il Napoli, e Napoli, erano Campioni d’Italia. Erano l’ombelico del Mondo. Ma scherziamo.
Era pura religione del martirio. Il martire è un testimone. E’ uno che ha visto. Ho visto Maradona.
Ma alla fine quel martirio era il suo. Le stimmate, le sue. Il corpo, e il sangue, i suoi. Maradona ha dato la vita, a Napoli. In senso letterale. Napoli ha anche, in parte, ucciso Maradona.
Come ogni sacrificio comanda. Come ogni vera eucarestia insegna. Ne abbiamo preso, e mangiato. Tutti. Maradona ha scelto l’abbraccio di Napoli, e Napoli ha soffocato Maradona in quell’abbraccio. L’amore molesto. Lui ha provato a scappare. Scappava di notte, dove poteva. Scappava d’estate, in Argentina. Poi una volta ci ha provato davvero, a fuggire.
Era l’estate del 1989.
Ma Napoli l’ha tirato indietro. Lui ha tentato di divincolarsi, poi si è lasciato andare e non ha opposto resistenza.
Abbiamo vinto un altro scudetto, ma abbiamo perso Maradona.
Maradona scappava anche da se stesso, certo. E quell’abbraccio non era solo di Napoli, era del mondo, che lo seguiva, lo braccava, lo spiava. Questo dovrebbe aiutare tanti a capire la dimensione planetaria, cosmico-storica in senso hegeliano, di Maradona.
E un poco aiuta anche me a non sentirmi troppo in colpa, a non avere troppi rimorsi. In fondo, come afferma lui stesso in giacca e cravatta in un impeccabile speech agli studenti di Oxford nel 1995 (tutto vero), lui voleva soltanto “giocare a pallone”.
Non sempre gli è riuscito, spesso gliel’hanno impedito.
Maradona non è mai stato un uomo delle istituzioni, perché sapeva che il Potere è sempre marcio, e l’ha combattuto per tutta la sua vita. Sempre e per sempre, dalla stessa parte. Ha seguito il suo istinto, ha seguito il suo Sinistro.
Ma Maradona mi ha insegnato anche la Storia e la Geografia, soprattutto dell’Italia. Perché Maradona è un sintomo.
Il sintomo di una malattia. Una qualche patologia che affligge gli Italiani (non tutti, per carità, per fortuna): l’odio per Napoli.
Poi non so se sia esattamente odio, ma insomma, ci siamo capiti.
Il problema che hanno molti Italiani verso Maradona è l’altra faccia del problema che l’Italia ha con Napoli. Non ho ancora compreso perché, non ho ancora individuato bene cos’è. Credo che al fondo ci siano la paura e l’ignoranza verso qualcosa che non riesci a capire. Napoli è Altra, e con questa Alterità alcune persone non riescono a fare pace. Sentono che c’è una strana forma di decadente grandezza, una bellezza inquietante, un orrore dolcissimo che non riescono a domare. Che non riescono a dire.
Se non usando luoghi comuni. E quindi, cercano di schiacciarla. Non mi spiego altrimenti tanto odio gratuito, permanente, un basso continuo della nostra biografia nazionale. Maradona è vittima anche e soprattutto di questo. Se avesse giocato e vinto nella Roma, nel Cagliari o nel Bari, non sarebbe stato lo stesso.
Ma lui è stato nostro. In Italia, solo nostro.
E o sape tutto ‘o munno, ma nun sann’ a verità.
Maradona non ha semplicemente giocato a Napoli (cosa, già questa, che fa impazzire di rabbia tutti gli altri); ma ha giocato
per Napoli, e questo diventa davvero intollerabile. Non ce la fanno. Per Maradona hanno anche infranto il virgiliano parce sepulta, perdona e lascia riposare i morti. Un Paese che è pronto a fare Berlusconi Presidente della Repubblica (e badate, sono gli stessi che giudicano Maradona).
Ma lui lo sapeva, l’ha fatto consapevolmente. Per questo lo abbiamo amato in modo così smisurato. Perché lui ci ha scelto,
ci ha amato e ci ha difeso. E Napoli è odiata e indifesa. Era così allora, è così adesso. Basta guardare qualunque servizio televisivo, qualunque commento sui giornali.
Credo che nessun Napoletano non litighi almeno una volta con Napoli. A me è capitato spesso. Ma Maradona mi fa fare sempre pace con Napoli.
C’è un libro molto bello, che mi regalò papà poco dopo che Maradona andò via. Si chiama Il giovane Holden (sì, quello della Scuola di Baricco). In realtà non si chiama così. Il titolo originale
è tanto poetico quanto senza senso: The catcher in the rye. Letteralmente, l’Acchiappatore nella segale (si intuisce perché hanno deciso di non tradurlo). Il protagonista è un ragazzo che scappa da scuola, che si chiede dove finiscono le anatre di Central Park quando gela e che non sa cosa fare da grande. O meglio, lui un’idea ce l’ha, ma non è proprio un mestiere molto tradizionale.
E’ un mestiere legato a un sogno, e già questo – capite – non è molto “professionale”. Lui ha questo sogno ricorrente dove sta in un campo di segale e ci sono molti bambini che giocano.
Da un lato di questo campo, però, c’è un precipizio. E quindi lui si mette sul bordo a guardare i bambini giocare, e ogni volta che un creaturo si avvicina troppo al burrone, lui lo acchiappa. L’acchiappatore nella segale. Lui vorrebbe fare quello.
Ecco. Ho sempre seguito da lontano Maradona in tutti questi anni. Come si segue una persona a cui vuoi bene. Qualcuno che ami. E soffrivo quando lo vedevo soffrire. E allora spesso pensavo a Holden. Mi sarebbe piaciuto fare quello nella vita: stare lì, e ogni volta che si avvicinava troppo al burrone, afferrare Diego al volo. Acchiapparlo e dirgli: “Accorto, Diego. Torna a giocare un altro po'”.
Ma ora Maradona è “morto”. Due concetti difficilmente sovrapponibili. Anche per come era lui, esplosivo, vulcanico, allegro. Per come sorrideva, con gli occhi sempre tristi dei latinoamericani. E per come parlava, in quel modo sempre molto intenso che hanno i latinoamericani. E per come coincideva con la mia vita, tutta intera, finora. Ma ora Maradona è morto. E io ho scritto questa cosa interminabile solo per distrarmi, perché se scrivo non piango. Più era lunga, più a lungo potevo trattenere le lacrime. Potevo tenere a distanza il dolore. Una cosa interminabile che mi è sembrato il modo più veloce per dire l’unica cosa che ha senso dire: “Grazie”.
E’ una pena infinita, perché era un amore infinito.
E poi avevi sempre questo sogno nel cassetto, che un giorno sarebbe tornato. Tornato davvero. Invece di allenare improbabili squadre sudamericane, tornava a Napoli, nel Napoli.
E chissà, magari avrebbe trovato un senso nuovo.
Sicuramente avrebbe ritrovato un Amore immenso.
Ma Maradona non tornerà più.
I miei dodici anni, non torneranno più.
No, non riesco a lasciarti andare.
No, non smetterò mai di piangere.

Nessun commento: