mercoledì, gennaio 20, 2021

Una tensione morale incapace di riposo

 Pomilio a metà degli anni Settanta

Un intellettuale abruzzese poco più che trentenne, nato a Orsogna (Chieti) il 14 gennaio 1921, docente liceale di lettere, non avrebbe forse mai intrapreso una brillante carriera letteraria, destinata a conferirgli stima e notorietà internazionali, senza un fatidico incontro, nel marzo del 1953, con una suora. A rievocarlo fu, molti anni dopo, lo stesso Mario Pomilio, scrittore ormai affermato, pubblicando nel più autobiografico dei suoi libri, Scritti cristiani (1979), una lettera aperta indirizzata a quell’anonima religiosa: l’«angelo della carità» che a Napoli, città elettiva di Pomilio, nella clinica dove sua moglie era stata ricoverata per un delicato intervento chirurgico, rivelò ai due coniugi il grado umilmente eroico delle sue evangeliche virtù. Il giovane insegnante ne fu colpito sino al punto di rimettere in discussione l’agnosticismo connesso alla sua precedente militanza nel Partito socialista (alla politica attiva sarebbe tornato solo nel 1984, eletto al Parlamento europeo come indipendente nelle liste della Democrazia cristiana). Nella sua coscienza riaffiorò il sostrato di religiosità “fisiologica” che, durante l’infanzia e l’adolescenza, vi aveva impresso un’educazione cattolica di austero stampo tradizionalista. Da questo recupero interiore del retaggio familiare scaturì non tanto una conversione quanto una riconversione: una pensosa metànoia, una rinnovata (ancorché a tratti sofferta) adesione ai fondamentali valori cristiani, consolidati nel ricorso diretto al messaggio di Cristo e nella meditazione della Parola biblica così come nello stile del vissuto quotidiano; nell’approfondimento delle radici manzoniane del cattolicesimo liberale così come nella partecipazione all’aggiornamento promosso dal concilio Vaticano II e nella reverente ammirazione per le figure di Giovanni XXIII , Paolo VI e Giovanni Paolo II .

In pari tempo, la scintilla del cortocircuito spirituale scoccato al capezzale della moglie sofferente accese la fiamma di un’ispirazione creativa che generò frutti già maturi fin dall’esordio con L’uccello nella cupola (1954). Scritto di getto in pochi mesi, il romanzo mette in scena nella cornice di Teramo i drammi incrociati di un sacerdote inesperto, bisognoso di verifica sul proprio ministero, e di una giovane donna in preda a sensi di colpa, penitente ansiosa di espiazione. Inibito dal rigorismo dell’educazione ricevuta in seminario, don Giacomo non riesce a salvare la sventurata Marta dall’autodistruzione. Ma quella sconvolgente esperienza pastorale lo guiderà verso un umile riconoscimento della fragilità umana redenta dalla misericordia di Dio. La Grazia vince il peccato.

A reggere l’intero impianto narrativo, sulle orme dell’amato Manzoni, sono una tensione morale incapace di riposo, una concentrazione sulle problematiche esistenziali in tutta la loro dirompente drammaticità, una disposizione a percepire l’essenza creaturale dei personaggi che avrebbero innervato, nel segno di un cristianesimo «interrogante e inquieto» (Carlo Bo), anche le successive imprese di narratore e, in minor misura, saggista. Tra il 1956 e il 1959 vedono la luce tre romanzi: Il testimone, un “poliziesco” sui generis, giocato sul confronto tra un commissario parigino, dubbioso rappresentante della giustizia istituzionale, e l’angosciata compagna di un delinquente; Il cimitero cinese, breve ma limpida e profonda love story nello scenario della Normandia, protagonisti un giovane studioso italiano (alter ego dell’autore) e una studentessa tedesca chiamati dalla forza dei loro sentimenti a una simbolica riconciliazione in rappresentanza dei rispettivi popoli, oltre i condizionamenti psicologici del secondo dopoguerra; Il nuovo corso, apologo “distopico” e fantapolitico, allusivo alla repressione sovietica della rivolta ungherese del 1956.

Tracce di un’ancora oscillante ricerca di compatibilità tra impegno sociale e integrità morale solcano La compromissione (Premio Campiello 1965), parabola amara di un ambizioso parvenu di provincia che, cedendo alle lusinghe della corruzione politica, finisce per bruciare una carriera in embrione e incenerire la sua vita privata. Studi specialistici su Verga e Pirandello precedono nel frattempo la pubblicazione, nel 1967, di saggi e interventi polemici raccolti in Contestazioni, con cui Pomilio si pone al centro del dibattito culturale alla vigilia del Sessantotto.

Cinque anni di lavoro febbrile, in un silenzioso “ritiro” intellettuale, approdano nel 1975 alla clamorosa quanto luminosa epifania di un capolavoro assoluto, senza precedenti e senza paragoni: Il quinto evangelio, pubblicato e più volte ristampato da Rusconi, poi ricomparso presso altri editori, da Mondadori-Oscar (1990) a Bompiani (2000) a L’orma (2015). Un caso davvero straordinario di longevità editoriale, tanto più stupefacente in quanto si tratta di un libro “iperletterario”, accessibile solo a lettori colti, raffinati e sensibili. Alla sua fortuna diede fin da subito un impulso decisivo l’accoglienza entusiastica di autorevoli critici in Italia, in Francia (Prix du meilleur livre étranger), in Polonia (Premio Pax) e altrove, tutti concordi nell’elogiare «un sinfonico epos cristiano», memorabile per l’equilibrio tra mole e qualità della scrittura, per la complessità d’orchestrazione, per la stratificata storicità del disegno, per il connubio tra rigore filologico e arditezza d’invenzione narrativa, per l’iridescente varietà di temi, toni, cifre espressive.

Seme generativo di questo opus magnum, anzi maximum, articolato in diciassette corposi “capitoli”, fu — secondo una testimonianza dello stesso Pomilio — l’idea di un romanzo-saggio che raccontasse, in un arco temporale esteso all’intera vita della Chiesa, il mito di un vangelo sconosciuto, ripetutamente intravisto, balenante per frammenti, sfuggente, mai posseduto, scrigno di un arcano «supplemento di rivelazione»; metafora, in definitiva, dei quattro Vangeli canonici nel loro continuo, vivificante reincarnarsi nella storia dell’umanità. Geniale “falsario”, Pomilio fabbrica fonti fittizie o manipola fonti autentiche, con un’operazione di mimesi linguistica che ricrea la patina sintattico-lessicale propria di ciascun contesto storico. Tale mimetismo insieme concettuale e stilistico risalta soprattutto in tre episodi: Il manoscritto di Vivario, un intreccio epistolare che attraversa l’Europa lungo una pista di sette secoli; Vita del cavalier Du Breuil, memoriale della transizione di un gentiluomo seicentesco dalla severa ascesi dei giansenisti alla gioiosa apertura verso la speranza della salvezza; La giustificazione del sacerdote Domenico De Lellis, ritratto di un presbitero dedito, nella Napoli del Settecento, alla cura pastorale di miseri popolani, in polemica con un clero sfarzoso e corrotto. Riepilogo della quête all’inseguimento del “criptovangelo”, del Sacro Graal della Parola, è infine un testo teatrale, il dramma Il quinto evangelista, ambientato nella Germania del 1940. Se Il quinto evangelio si staglia nel panorama della produzione pomiliana con la maestosità di una cattedrale, la raccolta degli Scritti cristiani, edita da Rusconi nel 1979 e ripubblicata da «Vita e Pensiero» in una «nuova edizione accresciuta» nel 2014, può essere paragonata a un armonioso battistero che custodisce una sorta di “sesto evangelio”. Oltrepassato l’atrio delle memorie familiari (Lettere al padre,, alla figlia, a un amico, a una suora), Pomilio apre il tabernacolo delle sue meditazioni all’incrocio tra fede e letteratura. Rifulgono di sapienza e intelligenza le “accordature” eseguite in preparazione al grande concerto del Quinto evangelioCristianesimo e culturaLa Bibbia come letteraturaI Vangeli come letteratura. Si schiude anche, attraverso Preistoria d’un romanzo, uno spiraglio sul laboratorio “quintoevangelico”. E ancora affascinano mente e cuore dei lettori le riflessioni deontologiche sulla Responsabilità dell’uomo di cultura e quelle di sapore profetico su Dio nella società d’oggi.

La «filologia fantastica di Pomilio» (definizione di Pietro Gibellini), la sua attitudine a trascendere la realtà storica per attingere una superiore verità artistica, torna a librarsi ad alta quota nell’ultima opera compiuta, il romanzo breve Il Natale del 1833 (Rusconi, 1983), insignito del Premio Strega. Occupa il centro della scena Alessandro Manzoni, “prigioniero” nel suo palazzo milanese. Dove un lutto devastante, la morte dell’adorata sposa Enrichetta Blondel, lo ha trafitto proprio nel giorno della Natività di Cristo. È, il suo, uno strazio intimo, come un’implosione dell’anima rivelata solo da scarni sedimenti scritti, fra cui due abbozzi frammentari del Natale del 1833, due “aborti” poetici che documentano la crisi del rapporto con un Dio non più amorosamente vicino in Cristo, ma silenziosamente lontano, non tanto «pietoso» quanto «terribile». Da queste labili tracce Pomilio prende lo spunto per una finissima indagine sugli stati d’animo del vedovo, per un’anatomia della sua perturbata sensibilità religiosa. Finché, grazie a un colpo di scena spirituale, il drammatico interrogativo «perché il dolore nel mondo nonostante Dio?» si risolve in una folgorante illuminazione: «La croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio».

Col trittico Il quinto evangelio – Scritti cristiani – Il Natale del 1833 Mario Pomilio, giunto all’incontro con «sora nostra morte corporale» il 3 aprile 1990, ha consegnato ai posteri un’eredità d’inestimabile valore. Ma finora, in questo XXI secolo segnato da un generale declino umanistico — che si spera non sia irreversibile —, nessuno scrittore ha saputo o voluto raccoglierla nell’intento di svilupparla e perpetuarla. Per quanto ardua, è una sfida che resta comunque aperta. Oggi, cento anni dopo la sua nascita, Pomilio continua a tenderci la sua mano invisibile.

di Marco Beck

Nessun commento: