sabato, febbraio 13, 2021

Jacques Maritain. Il contadino della Garonna

LETTERATURA: I MAESTRI: Jacques Maritain. Il contadino della Garonna

di Gianfranco Morra

da “La fiera letteraria”, numero 20, giovedì 18 maggio 1967

Forse il modo più efficace per non intendere il significato e l’intento della recente opera di Jacques MaritainLe paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Parigi 1966, pagg. 406 — leggerla attraverso le lenti deformanti delle polemiche che ne hanno accompagnato e seguito la comparsa. La cultura cattolica, scossa dalla incisività e dalla efficacia della diagnosi maritainiana, ha largamen­te reagito con apoteosi e anatemi (anche se più con anatemi che con apoteosi). Da un lato si è voluto vedere nel Contadino della Garonna colui che ha smascherato l’anticristianesimo post-conciliare — e forse anche, in parte, conciliare — richiamando la coscienza cristiana alla riproposizione delle categorie tradizionali contro ogni eversiva cessione al mondo moderno ; dall’altro vi si è scorto il difensore di superate, retrive e dogmatiche posizioni costantiniane, il reazionario che cerca invano di frenare quel clima ­di libertà e di impegno che la chiesa giovannea avrebbe introdotto.

Sono, questi, due atteggiamenti sterili e negativi, non consentono di cogliere in tutto il suo significato il discorso maritainiano, il quale viene politicamente classificato, con i toni della esaltazione o della condanna, come discorso-di-destra, senza tenere presente che Maritain si propone appunto di rifiutare come inadeguata proprio questa classificazione. Un attento esame degli atteggiamenti politici assunti dal Maritain mostra infatti chiaramente l’impossibilità di una attribuzione tout court di queste denominazioni politiche a un uomo che le ha sempre rifiutate e che ha assunto, di volta in volta, atteggiamenti che solo su-perficialmente potevano essere classificati di « destra » o «sinistra». (L’autore di Antimoderno non esitò a schierarsi contro il nazionalismo de l‘Action française; e tuttavia il difensore della democrazia personalista, comunitaria, teista e plurista non ha mai rinnegato la condanna del mondo moderno e ha chiaramente rifiutato il comunitarismo del Mounier.

I PIONIERI BALBUZIENTI

Maritain lo afferma decisamente: il cristiano non è di destra né di sinistra (un tema, questo, svolto con coerenza e decisione sin dalla Lettera sull’indipendenza del 1935). Destra e sinistra sono due categorie politiche: in quanto tali non riguardano l’impegno del cristiano; ma sono anche categorie psicologi­che: esse indicano due temperamenti innati, che privilegiano l’essere o il dover-essere (e che, al limite, degenerano nel cinismo e nell’utopismo). Maritain ammette di essere, per temperamento, di sinistra; ma rifiuta la coincidenza tra sinistra psicologica e si­nistra politica. Purtroppo coloro che tendono a inserire la problematica maritainiana in una denominazione meramente politica sono proprio quelli che sono incapaci di porsi al di sopra di queste classificazioni: i montoni e i ruminanti. I « montoni di Panurgo », tipi dell’estremismo di sinistra, sono mossi dalla cupidigia del nuovo e dell’accordo col mondo; i « ru­minanti della Santa Alleanza », prototipi dell’estremismo di destra, agiscono invece sotto la spinta della prudenza e della sicurezza. Sono due pericoli costanti della coscienza cristiana, ciascuno dei quali prevale sull’altro a seconda delle diverse circostanze storiche: nella nostra epoca post-conciliare i montoni prevalgono sui ruminanti — soprattutto nelle facoltà teologiche.

La « cultura » cattolica, infatti, attraversa un periodo difficile e tormentato: i ruminanti sono quasi tutti divenuti montoni (anche i montoni, del resto, sono ru­minanti!). Se, prima, le vecchie misture teologiche ve­nivano continuamente e acriticamente riproposte senza una originalità o profondità, ora, invece, le novità più impensate e irriflesse vengono avanzate come scoperte e conquiste. In realtà, osserva Maritain, questi « pionieri » sono ritardatari e balbuzienti, in quanto solo la precedente chiusura nei confronti del mon­do moderno li induce ora a una acritica apertura a mi­ti, che il mondo moderno stesso ha ormai superati. La dialettica antinomica di sadismo e masochismo, sulla quale così opportunamente la sociologia psicoanalitica di Eric Fromm s’è soffermata, è uno schema interpretativo di prim’ordine per intendere la meta­morfosi del ruminante in montone.

Il servizio reso dal Maritain alla verità cristiana in oltre cinquant’anni di attività veemente e contrastata consiste appunto in questo tentativo di mostrare che il kerygma evangelico è molto al di sopra del cibo dei ruminanti e dei montoni. Era naturale che lo sfor­zo del Maritain, volto dapprima prevalentemente con­tro i ruminanti — numerosi e potenti nel periodo pre­conciliare — si dirigesse ora contro i loro diversi e pur simili eredi: contro i montoni, potenti e numero­si nel periodo post-conciliare. Con sottile e incal­zante ricerca Maritain discopre tutti i miti cari al neomodernismo di oggi (quel neomodernismo ri­spetto al quale il modernismo condannato, giusto ses­sant’anni fa, da Pio X era un semplice raffreddore).

In primo luogo la cronolatria: che è l’adorazione dell’effimero e del meramente temporale. Il trionfo progressivo dello storicismo nella cultura moderna e nella stessa coscienza comune induce il neomodernista a una genuflessione davanti al mondo, assunto nelle sue strutture naturali e temporali. Ciò a cui, consape­volmente o inconsapevolmente, conduce questo atteg­giamento è la completa temporalizzazione del cristia­nesimo. Per questo il mito cronolatrico è accompagna­to dal mito perfettistico, cioè dalla fede nel progresso storico e temporale dell’umanità: il carattere escatolo­gico del messaggio cristiano viene secolarizzato e lai­cizzato ; il fine ultimo della storia viene posto in con­tinuità con lo svolgimento della storia stessa e l’azione dell’uomo in essa viene considerata come cooperatrice dell’azione divina (semititanismo): « la sola cosa Che conta è la vocazione temporale del genere uma­no, il suo cammino contrastato ma vittorioso verso la giustizia, la pace, il benessere. Invece di comprendere che bisogna dedicarsi ai compiti temporali con una volontà tanto più ferma e ardente quanto più si sa che il genere umano non giungerà mai a liberarsi com­pletamente del male sulla terra — a causa delle ferite di Adamo, e perché il suo fine ultimo è soprannatu­rale — si fa di questi fini terreni il vero fine supre­mo dell’umanità » (p. 88).

Alla base di questa confusione v’è la pretesa dell’autonomia del temporale. Per tutta la vita Maritain si è battuto, contro i ruminanti, per proclamare la di­stinzione tra temporale e spirituale: l’era sacrale o ba­rocca è irrimediabilmente (e salutarmente!) finita e il temporale non può essere più considerato come la tutela dello spirituale. Ma distinzione non significa separazione o autonomia. E’ vero che il mondo tem­porale rifiuta ogni richiamo al regime sacrale, ma non è meno vero che essi debbono collaborare armonicamente e gerarchicamente (tesi espressa dal Maritain già nel 1927 col Primato dello spirituale). E’ così che, con singolare contraddizione, l’autonomia del tem­porale diviene, nel neomodernismo, divinizzazione di un mondo riconosciuto sconsacrato sino all’ateismo: « la distinzione tra il temporale e lo spirituale, tra le cose di Cesare e le cose di Dio, si oscura inevita­bilmente nei cristiani di cui parlo. E i più decisi la negano già rigorosamente. E’ naturale: se il regno di Dio non ha realtà al di fuori del mondo, non è che un fermento nella pasta del mondo » (p. 89).

Certo Maritain comprende le intenzioni di questo processo. Esse si possono riassumere in un altro mi­to del nostro tempo: la demitizzazione, cioè il dispe­rato tentativo di mantenere la fede in Cristo in un’epo­ca storica che ha elaborato categorie mentali sostan­zialmente incompatibili con essa. Ciò che mostra la pretesa demitizzante è la buona fede dei montoni neo­modernisti. Essi secolarizzano il cristianesimo per sal­vare il cristianesimo: « Ecco un’altra bizzarria della natura umana: con una fede tormentata, e anche il meno chiara possibile, ma con una fede sincera in Gesù Cristo, tradiscono il Vangelo a forza di volerlo servire » (p. 23).

Un altro mito, verso il quale il Maritain dirige le sue armi, è quello sociomorfico. Se v’è un carattere costante della politica del cristiano, è il riconoscimento del primato della persona sulla società. Ora il mondo moderno privilegia invece la società: l’idolo del neomodernismo è, a questo proposito, il Mounier, Con la sua celebre definizione « personalista e comu­nitario ». Maritain ha buon gioco non solo nel riven­dicare la paternità di questa espressione, ma anche nel rivelarne la sostanziale ambiguità: « Io stesso non sono senza qualche responsabilità… Questa espressio­ne è giusta, ma una considerazione sull’uso che ora se ne fa non mi consente di esserne fiero. Infatti, dopo aver pagato un lip service al “personalista”, è chiaro che è il ‘’comunitario” che viene prediletto » (p. 82). Tutto ciò risulta chiaro anche dalla banaliz­zazione neomodernista della liturgia, che confonde comune e unitario, giungendo all’errata conclusione di un contrasto tra liturgia e contemplazione (le qua­li, invece, reciprocamente si richiamano). Il neomo­dernismo, infatti, odia la contemplazione, in accordo col mito operativo del mondo moderno: si ritiene che l’impegno del cristiano debba essere riversato nelle imprese mondane e sociali; e si maschera questa par­zialità inventando il mito della contemplazione come astratto intellettualismo privo di carità (mentre es­sa è « intelletto d’amore »).

DISGUSTO PER LA RAGIONE

Né il neomodernismo odia solo la contemplazione mistica: la sua urgenza pragmatica lo induce pure a un rifiuto della contemplazione razionale. Logofobia: ecco un altro mito neomodernistico. Il montone ha un connaturale e insuperabile disgusto per la ragione filosofica (come il ruminante, del resto): « Noi siamo convinti che non v’è che un solo tipo di sapere pos­sibile — quello che è puro di ogni metafìsica — e, nell’ordine di questo sapere, un solo e unico tipo di conoscenza incrollabile e autenticamente capace di pro­va: la Scienza » (p. 167).

Alla base di queste false monete intellettuali, sul­le quali è stata impiantata una redditizia industria editoriale fatta di luoghi comuni e di facili convenzioni, è l’incapacità di risolvere adeguatamente il rap­porto tra verità, libertà ed efficacia. Nella civiltà mo­derna, infatti, i termini « libertà » ed « efficacia » han­no nettamente prevalso sul termine « verità ». Il rap­porto autentico, espresso nella nota affermazione di Giovanni 8, 32 (« Et veritas liberavit vos »), è stato capovolto, con la pretesa di raggiungere una efficacia, che in realtà si rivela inefficace: « Il fatto è che ciò che non vuole che l’efficacia, e un’efficacia senza limi­ti, è quanto v’è di meno realmente efficace (perché la natura e la vita sono un ordine nascosto, non un puro scatenarsi di forze), mentre ciò che ha l’aria meno efficace (se è di un ordine superiore a quello delle attività legate alla materia) è ciò che possiede la maggiore reale efficacia» (p. 139).

Un’opera come Le paysan de la Garonne risulta il­luminante circa i reali intendimenti, fedelmente e coerentemente perseguiti in una intera vita di ricer­ca, del Maritain. La lettura di quest’ultimo scritto get­ta luce fortissima anche sugli scritti precedenti e dis­sipa pericolosi equivoci. Tutto lo svolgimento che il pensiero neomodernista francese ha ritenuto di com­piere partendo dalle premesse maritainiane, viene da lui indicato come frutto di un fraintendimento. Mari­tain Sa bene di avere indicato una strada, in tempi in cui le sue parole risultavano eversive e inaccettabili come risultano, per diversi motivi, i discorsi del con­tadino della Garonna, che forse non mette i piedi sul piatto, come il contadino del Danubio, ma certo « chia­ma le cose col loro nome » ; ma sa anche che questa strada, impervia e tortuosa, è percorribile solo da chi sia pervenuto a una accorta ed equilibrata definizione dei compiti del cristiano nel mondo. In questo senso non solo Maritain ha precorso e preparato il Conci­lio, ma lo ha anche continuato contro le degenera­zioni anticonciliari.

Il Concilio ha indicato come imprescindibile la mis­sione temporale del cristiano ; ma ha anche mo­strato che tale missione unicamente trae senso e rea­lismo dalla coscienza che il cristiano agisce nel mon­do ma non è del mondo, dalla consapevolezza che il mondo non va solo migliorato, ma soprattutto santi­ficato. Se il manicheismo, pel quale il mondo è, in sé e per sé, male, contrasta con la coscienza cristia­na, non meno le si oppone il pelagianesimo, pel qua­le la sfera del mondano è autonoma e quasi divina. A questi due estremi Maritain contrappone la diffici­le situazione del cristiano, che agisce nel mondo pur conoscendone la provvisorietà e la finitezza, che non accetta tutto e non rifiuta tutto, che si impegna, con la salda consapevolezza della distonia qualitativa tra mondo e Regno, non a risolvere i problemi del mon­do, ma ad aiutare il mondo a risolvere i suoi pro­blemi.

Contro le semplificazioni neomoderniste Maritain rivendica la difficile, straniera e incompresa situazio­ne del cristiano — di quello di ieri come di quello di oggi e di sempre — : « come laico è del mondo, è del secolo, e opera per questo fine che non è il fine ulti­mo, cioè per il buon andamento del mondo, per il be­ne, la bellezza e il progresso del mondo. Come mem­bro della Chiesa opera per il fine ultimo, che è il re­gno di Dio pienamente compiuto e non è di questo mondo; è nel mondo senza essere del mondo » (p. 299).

E’ per questo che Maritain può affermare, senza alcun dubbio, la sua fedeltà alla Chiesa e al Concilio: le toccanti pagine iniziali dedicate a una rievocazione della grande assise della cristianità non sono né con­venzionali né opportuniste. (E le due citazioni del Maritain nella recente enciclica di Paolo VI Populorum progressio confermano, dopo tante polemiche e incomprensioni, la validità di questa pretesa). Una vita totalmente spesa al servizio della verità cristia­na non poteva concludersi più degnamente, in perfet­ta continuità con tutte le precedenti battaglie. Forse la fedeltà alla filosofia di San Tommaso — pur chia­ramente distinta dalla scolastica tomista di bassa le­ga — non può essere accettata da tutti ; forse l’eccessi­va insistenza su fatti personali ingenera talvolta qual­che stanchezza ; forse la lunghezza di talune autocita­zioni poteva essere evitata, con vantaggio per la snel­lezza del volume. E tuttavia Le paysan de la Garonne risulta illuminante e sollecitante: contro la scolastica del conformismo, che a parole esalta il dialogo e in realtà non accetta la critica (alcune astiose reazioni con cui certi rotocalchi cattolico-progressisti hanno ac­colto la comparsa del volume ne sono una chiara ri­prova) Maritain propone la criticità di un discorso integrale e realista. Tale discorso non è né mellifluo né accomodante ; anzi, è un discorso provocante e deciso, come Maritain stesso espressamente ammet­te: « Bisogna avere lo spirito duro e il cuore dolce » (p. 122). Maritain insiste opportunamente e inopportu­namente ; il suo intento non è né la condanna, né il rifiuto, è la polemica (solo per questo egli non ha voluto avanzare alcuna critica a personam e ha quin­di taciuto, con la sola eccezione di P. Schoonenberg, i nomi degli autori neomodernisti; e al Teilhard de Chardin vengono dedicate pagine serene e penetranti).

Maritain vuole, anzi, mostrare la validità e la ne­cessità di quell’aggiornamento, che il Concilio ha pro­posto come imprescindibile e che coincide con la sto­ria stessa della Chiesa ; di quell’apertura ai non-cristiani, che lo Schema Tredici ha indicato come op­portuna e salutare; di quell’impegno nel mondo cui il cristiano non può sottrarsi senza cadere in un co­modo ed egoistico narcisismo teologico. Ma queste valide istanze assumono un senso solo entro la tradizio­ne della Chiesa, che il Concilio continua, non distrugge; entro quella tradizione che afferma, contro i miti storicistici e sociomorfici, il primato della contem­plazione.

L’ultima parte del volume, in cui le notazioni cri­tiche si placano e il discorso diviene preghiera, ne costituisce insieme la conclusione e il criterio: « La contemplazione è qualcosa di alato e di soprannatu­rale, libero della libertà dello Spirito di Dio, più bru­ciante del sole d’Africa e più fresco dell’acqua del torrente, più leggero della peluria dell’uccello, inaf­ferrabile; sfugge a ogni misura umana e ogni umani nozione sconcerta, è felice di abbassare i potenti e di esaltare i piccoli, è capace di ogni travestimento, auda­cia, timidità ; è casta, ardita, luminosa e notturna, più dolce del miele e più arida della roccia ; crocifigge e beatifica (ma soprattutto crocifigge) ; talvolta essa è tanto più alta quanto meno si mostra » (p. 332).

Ha ragione Charles Journet: «Bisogna tacere e ringraziare ».

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