La sciatteria televisiva di Lucia Annunziata e il clericalismo laico di Michele Serra certificano che l’unico “amore che non osa dire il proprio nome” è ormai l’amor di Dio. Lucio Dalla, “un buon peccatore che frequenta la messa”, direbbe Péguy, ha avuto il funerale in chiesa, ma non della sua fede si deve parlare, ma solo della sua velata (a loro dire) omosessualità. L’outing post mortem cui è stato sottoposto è grossolano nella forma (al netto degli irrisolti problemi con Dio di Aldo Busi, che gli ha dato di “checchesco buontempone” e “chierichetto furbastro”) e violento nella sostanza.
Un assalto di ideologia omofila, pretestuosamente anticattolica, ma ancor di più irrispettosa della persona (la privacy, la coscienza..). Annunziata ha inventato una sorta di mai esistito ricatto (“ti seppelliscono con un rito cattolico, e ti consedono i funerali se non dici di essere gay”). Il pretesco Serra si è impancato a misuratore di quanto la “retriva” chiesa di Bologna sia stata imbarazzata. Tanto poco, nei fatti, che a celebrare il funerale c’era pure il suo amico e confessore: ciò che presuppone un peccato, e non un reato, concetto inarrivabile per il clericale Serra. Se Dalla ha mantenuto riserbo sulla sua vita privata non è stato per “consociativismo”, ma forse per un suo libero riserbo. Semplicemente Lucio Dalla non era un militante dell’ideologia gay, quella che taccia di omofobia ogni altra sensibilità, persino quella di altri omosessuali. E questo per l’ideologia è insopportabile. Era un uomo libero che ha vissuto, felice o meno, pacificato o meno, non lo sappiamo, la sua sessualità e la sua fede come potuto, voluto, creduto: come un cristiano che nessuno ha mai cacciato di chiesa. Almeno fino a quando non sono arrivati loro, con il loro grottesco autodafé da gay pride di totalitaristi del pensiero unico.
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