Con la vittoria della nazionale italiana agli europei, qualcuno ha
fatto notare che, in fondo, siamo sempre all’antico sistema usato dagli
imperatori romani del “panem et circenses” per gabbare il popolo mentre
proprio in Europa, con l’aiuto del “commissario” Mario Draghi, si sta
preparando un futuro di “lacrime e sangue” attraverso il Recovery Fund,
che è un ulteriore cappio al collo di indebitamento e condizionalità.
Non solo, anche il trionfo dei nostri calciatori sarà usato – già sta
avvenendo – come strumento di propaganda pro vaccinazione.
Alla luce di un simile argomentare, in sé vero, un amico mi ha
inviato questo messaggio, non suo ma da lui evidentemente sottoscritto e
condiviso: “Mentre dissanguavano la Grecia le fecero vincere gli
europei. Vi fa pensare qualcosa mandrie?”
Questo amico è persona colta, preparata, arguta, avvezza a leggere in
controluce tra le pieghe dei fatti. Sa cogliere i retroscena delle
questioni come pochi altri e spesso mette il dito nella piaga che altri
neanche vedono. Ma a volte il disprezzo delle “mandrie” – le masse sono
di per sé amorfe e passive e quindi condizionabili, tuttavia più che
disprezzarle si dovrebbe elevarle (Cristo le fuggiva ma aveva di esse
compassione come di pecore senza veri pastori) – gioca brutti scherzi. E
così questo amico nell’inviare il messaggio, da lui apprezzato, non si è
accorto del grossolano errore contenuto nello stesso. La Grecia vinse
gli europei di calcio, contro il Portogallo, a Lisbona, il 4 luglio 2004
mentre la crisi economica, conseguenza di quella mondiale, la investì
nel 2010 (il declassamento dei titoli del debito pubblico ellenico a
titoli spazzatura è dell’aprile 2010 dopo che il governo greco,
nell’autunno 2009, aveva ammesso di aver falsificato i bilanci) ed il
commissariamento eurocratico di Atene, con le politiche genocide di
austerità, ebbe inizio tra il 2011 (con qualche avvisaglia già nel 2010)
ed il 2012. Quindi il Paese ellenico non vinse gli europei di calcio
mentre lo spolpavano e se, inviando quel messaggio, l’amico in questione
ha voluto vedere in quel trionfo calcistico un’arma di distrazione di
massa, per le mandrie appunto, affinché i padroni del vapore potessero
indisturbati inchiodare i greci alla loro catene, proprio non ci siamo.
Una riflessione sul rapporto tra agonismo sportivo e politica va
comune fatta, iniziando con il porsi la domanda se il primo sia o meno
in grado di contribuire se non proprio al rafforzamento dell’identità
nazionale quantomeno ad ostacolarne, per quanto su un piano
pre-politico, l’evaporazione totale.
La Grecia, come l’Italia, per via della sua storia, ha una debole
coscienza nazionale. Eppure qualcosa ci dice che le masse che si
riversarono nelle strade di Atene nel 2004 per festeggiare il trionfo
calcistico sono le stesse che, nel 2015, elessero a larga maggioranza
Alexis Tsipras e determinarono la schiacciante vittoria referendaria
dell’oki (“no”) contrario al piano imposto dalla Troika per dissanguare
il Paese. Certo fu quello un moto di popolo tradito, come spesso è
accaduto nella storia, ma supporre un collegamento tra la mobilitazione
sportiva e, almeno nei momenti di crisi, una conquista, o quantomeno una
reminiscenza, identitaria da parte del popolo non è tesi azzardata.
Sempre sul web è circolato, in questi giorni, un altro messaggio, una
frase attribuita nientemeno che a Winston Churchill. Stando a questo
messaggio, veicolato sulla rete, lo statista inglese, non si sa quando
né quale sia la fonte della citazione, avrebbe affermato: “Che strano
popolo gli italiani. Affrontano una partita di calcio come fosse una
guerra! Ed invece affrontano una guerra come fosse una partita di
calcio”.
Non abbiamo prove che questo aforisma sia proprio del premier inglese
e che invece non gli sia stato attribuito per creare un effetto
raffreddamento dell’entusiasmo popolare in occasione della vittoria
della nazionale. Tuttavia in tale frase c’è qualcosa di vero e non solo
nel suo immediato senso anti-italiano – a noi non pare, tuttavia, che ad
El Alamein, ed altrove, l’esercito italiano si sia comportato in modo
disonorevole (piuttosto inefficienti erano gli armamenti ed incapace lo
stato maggiore) – ma anche nel senso antropologicamente recondito che
essa, nonostante tutto, contiene. Sì, perché in effetti una partita di
calcio, come qualsiasi gioco, esprime aspetti bellici come al contempo
la guerra, almeno quella antica, esprime aspetti ludici.
Ce lo hanno spiegato due storici di eccezione, Franco Cardini e Johan Huizinga.
Il primo nell’opera “Quell’antica festa crudele – Guerra e cultura
della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese” (Il Mulino, 2013).
Si tratta di un classico sul tema della guerra affrontata soprattutto
dal punto di vista della mentalità, ovvero in altri termini della
“cultura della guerra”. Esaminandola nel lungo arco di tempo dall’Alto
Medioevo alla Grande Rivoluzione, Cardini spiega come la guerra sia
stata una presenza costante ed ineliminabile dell’uomo eppure, in fondo,
fino all’età contemporanea, molto meno devastante di quelle della
nostra epoca “umanitaria” e pacifista.
«… la guerra del lungo periodo fra XI e XVIII secolo – scrive Cardini – sembra
aver costantemente cercato (sia pure con qualche lunga parentesi,
specie fra Cinque e Seicento) di non perdere di vista certi valori
irrinunziabili, di rimaner circoscritta ai combattenti e alle ragioni
per cui era di volta in volta scoppiata, di non coinvolgere la società
nel suo complesso arrestandone tutte le funzioni vitali, insomma di
autolimitarsi. Gli ideali cavallereschi prima, il diritto internazionale
poi, la meditazione dei filosofi settecenteschi infine, sono stati
tentativi differenti di umanizzare e limitare i conflitti, poiché era
palese utopia l’evitarli del tutto e in tutto. Lo stesso tendere della
guerra a trasformarsi in una sorta d’istituzione permanente, il suo
“cronicizzarsi” pare aver condotto all’instaurarsi d’un equilibrio tra
fattori demografici, sociali, politici, produttivi, religioso-mentali
all’interno della società europea preindustriale. Il fenomeno della
guerra totale è rimasto sostanzialmente estraneo a quel mondo, che anzi
ha assistito, nel XVIII secolo, a un grande sforzo anche intellettuale
per ulteriormente umanizzare e limitare i conflitti».
Il motivo profondo di questa autolimitazione della guerra va cercato
nel suo carattere “festoso” e “ludico” – da qui la definizione
cardiniana di “festa crudele” – dato che anche la guerra, come altre
dimensioni dell’umano, è strettamente connessa con il gioco. Ed il gioco
è innanzitutto regola ossia limitazione della forza fisica. Esempi di
tentativi di limitazione della guerra nei suoi aspetti cruenti e
contemporaneamente di esaltazione del suo carattere crudelmente ludico
sono i racconti, tra mito e storia, delle antiche sfide concluse con
duelli “in singolar tenzone”, quindi riducendo al minimo lo spargimento
di sangue, come quelli degli Orazi e Curiazi, di Ettore ed Achille,
della cosiddetta disfida di Barletta, o quello biblico di Davide e
Golia. La stessa cavalleria medioevale nasce su questo modello di guerra
limitata, connotata appunto da cortesia cavalleresca, e di quasi-gioco.
Non a caso i tornei cavallereschi si chiamavano “giostre”. Termini
moderni come “fair play” – correttezza, lealtà – hanno origine
cavalleresca. Ora, è esattamente da questa intrinseca natura ludica
della guerra che è nato anche l’agonismo sportivo. Le Olimpiadi in
Grecia erano una alternativa agonistica alla guerra tra le polis ed una
riaffermazione dell’unità delle stesse in quanto appartenenti alla
medesima civiltà. Il trionfatore olimpico veniva onorato alla pari
dell’eroe vittorioso in guerra.
Lo studio più approfondito del ruolo del gioco nella società umana,
quindi anche di quel gioco crudele che è la guerra, resta l’opera di
Johan Huizinga “Homo ludens” (Einaudi, 1979). Apparsa nel 1939,
quest’opera, in modo interdisciplinare, mostra le vie e le forme
attraverso le quali il gioco è alla base stessa della nascita del
sapere, dell’arte, della poesia, del diritto, della guerra, del mito,
della filosofia. Secondo Huizinga, il gioco ha generato e forgiato la
stessa esistenza comunitaria degli uomini. Esso, infatti, è rito, festa,
parata, ritmo e genera solidarietà ed appartenenza. Non a caso il
sottotitolo dell’opera è “Saggio sull’origine delle civiltà dal gioco”.
Huizinga mette in evidenza che Il gioco «è un’azione, o
un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo
e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia
impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata
da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere
diversi” dalla “vita ordinaria”». Senza tale elemento ludico, secondo lo storico olandese, non possono esistere né la cultura né la società.
Nonostante che anche gli animali giocano per istinto, il gioco è una delle azioni che distinguono l’Homo sapiens dall’animalità, intesa come sfera dei bisogni primari, perché mediante il gioco «la vita sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior valore». Richiamando Platone, che considerava il gioco una azione sacra, Huizinga giunge a sostenere che «la filosofia, comunque approfondita, rimase un nobile gioco».
Il gioco consente la coesistenza di leggerezza e di tragicità. Dopo il
Settecento, la modernità occidentale ha smarrito il carattere ludico
dell’esistenza sostituendolo con un “infantilismo” tanto stolto quanto
individualisticamente capriccioso. Secondo Huizinga lo sport
professionistico è una sorta di tentativo di mantenere una unità fra
gioco e cultura nonostante che proprio la professionalizzazione dello
sport tenda a causare una diversificazione tra l’uno e l’altra.
Attraverso il gioco si impara a capire che le nostre azioni hanno un
loro senso sicché il gioco è, paradossalmente, una cosa seria perché
insegna il rispetto delle regole. Senza il gioco, quindi senza le
regole, ci sarà soltanto il dominio sarà dei prepotenti ossia di coloro
che non sapendo giocare, appunto secondo le regole, si comportano come
guastafeste e disturbatori del rito comunitario, che nell’attività
ludica si manifesta. Giocare “alla guerra”, poi, è sempre stata una
forma di catarsi, un modo per attraversare paure ancestrali o
semplicemente per educare il corpo e lo spirito alle tattiche e alle
regole militari. Per Huizinga il gioco è speculare ai sistemi dell’“Homo
faber”, ossia dell’Homo oeconomicus che si è imposto nella modernità.
Il gioco è allenamento all’autocontrollo, esercizio preparatorio per
evacuare gli istinti nocivi, le pulsioni animali, l’ansia. E’ errato
contrapporre gioco e serietà «L’opposizione gioco-serietà non pare
né conclusiva né stabile … bambini, calciatori, scacchisti giocano con
la massima serietà senza la minima tendenza a ridere». Il gioco è anche bellezza «Nelle
sue forme più evolute il gioco è intessuto di ritmo e d’armonia, le
doti più nobili della facoltà percettiva estetica che siano date
all’uomo. I vincoli tra gioco e bellezza sono molteplici e saldi». Ed è libertà «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più un gioco». Ma nel suo carattere simulatore il gioco è anche ordine perché se «non è la vita “ordinaria” … (è però) indispensabile … per il senso che contiene … (sicché in tal modo) esso crea un ordine, è un ordine …». Il gioco, inoltre, avendo « … le sue regole … (genera) … diversità e misteri, riti di iniziazione, carnevale, maschera/travestimento».
Anche, e forse soprattutto, nella guerra il gioco manifesta il suo
ruolo ordinatore. Nel Giappone antico le attività dei ceti superiori
erano legate al gioco sicché «il samurai stimava che ciò che è cosa seria per gli uomini comuni deve essere un gioco per l’uomo di valore».
Seguendo l’etica del Bushido, la cultura giapponese tradizionale
esaltava l’eccezionale serietà dell’ideale aristocratico di vita nella
convinzione che la vita non è che un gioco. Invece la guerra moderna ha
perso ogni contatto col gioco con la conseguenza che essa è diventata
illimitata nella sua ferocia. La guerra non conosce più regole e gli
Stati moderni scalpitano per sottrarsi all’antico “pacta sunt servanda”.
Alla luce della breve disamina di cui sopra, è quindi possibile non
biasimare quel residuo di rito comunitario che è la festa popolare per
una partita vinta dalla nazionale di calcio. Perché la partita è
surrogato, certo molto scadente, dell’antica pratica giocosa della
guerra ed il vincente è l’erede, certo molto modesto, dell’eroe antico,
dell’atleta olimpico, del cavaliere medioevale. Ma, nonostante il suo
essere un surrogato adatto ad un’epoca nella quale predomina non l’Homo
ludens ma l’Homo faber, è possibile affrontare – a dispetto di Churchill
– una partita di calcio, una finale europea vinta, come una guerra.
Magari, piuttosto, la guerra, la feroce e tremenda guerra tecnologica
moderna di massa, tornasse ad essere approcciata – sempre per stare alle
presunte parole di Churchill – come una partita di calcio, ossia come
un gioco, come una festa crudele ma limitata nella sua violenza!
Pertanto, in una vittoria calcistica è possibile e legittimo
ritrovare anche i motivi di antiche contese, di antiche rivalità, di
atavici contenziosi, politici o religiosi, che persistono ancora oggi.
Luigi Copertino