“Il passato è solo un avvenire
invecchiato” dice Cocteau. Noi viviamo nel punto di divisione tra passato e
futuro. Questo punto si sposta e ci trasporta inevitabilmente con sé verso il
futuro. E ognuno di noi sa tacitamente, senza neppure pensarvi, di invecchiare.
Vivere vuol dire invecchiare. Invecchiare allora è l’unico mezzo che abbiamo
trovato, di vivere a lungo.
Illustri Signore e Signori, sono
lieto di questo incontro; esso mi consente di avvicinare tanti qualificati
Maestri della Medicina, primo fra tutti il prof. Abate, titolare della Cattedra
di Geriatria dell’Università di Chieti; la Dott.ssa Bartorelli, Primario al San
Eugenio di Roma; il Dott. Falconio, Dirigente del Servizio Medico dello Sport;
il Dott. Guizzardi, Primario Geriatria di Città S. Angelo; il Dott. Viscanti,
Primario Geriatria dell’O.C. di Lanciano e Segretario della Sezione Abruzzo
della S. I. G. O. Saluto tutti gli altri Colleghi della cui presenza siamo
onorati.
Al Dottor Angelo Pace,
coordinatore sanitario, dico grazie della sua partecipazione. Egli è ancora
tanto giovane da poter esorcizzare tale età della vita, ma tra maturità e
vecchiaia non c’è soluzione di continuità e quest’ultima non è un periodo
facoltativo della nostra esistenza ma una sicura realtà. Sono certo che anche dopo
questo Convegno che cade nell’anno europeo dell’anziano, egli orienterà il suo
impegno, ai vertici della ULSS, verso la promozione dell’uomo in età avanzata.
Io mi auguro che a seguito delle
sue iniziative, ogni anziano possa dire quello che un poeta francese esprimeva
così con molta efficacia: “80 anni, più occhi, più orecchi, più gambe, più
fiato. Ed è incredibile come si arrivi a sorpassarli”.
Quando il Prof. Palmieri
impeccabile animatore di questo convegno mi ha proposto di parlare degli
anziani io mi sono sentito subito a disagio. Innanzitutto, per la tensione che
tale impegno sempre comporta; in secondo luogo, per il timore di proiettare
sull’argomento le mie personali paure e al limite le mie angosce e poi perché
ho poco da dire a chi, come voi, ha acquisito una esperienza sul campo, tra gli
anziani, ascoltando le loro storie e i loro disagi, la loro ansia per la
perdita del ruolo e la paura della malattia e della morte. Mi limiterò ad
alcune annotazioni per gli ospiti di questa stupenda Residenza per Anziani, “Piccolo
Rifugio La Cicala” illeggiadrita dalla direzione di Luisella e Valeria
Palmieri, così ricche di esperienza umana e di sapienza professionale.
Mi rivolgerò al Personale di
questa Casa che sa così facilmente sintonizzarsi con il prossimo e dedicarsi
agli altri. Per il quale lavorare tra queste mura significa accostarsi a valori
in generale poco promossi e a volte persino frustranti. Ma per il quale non c’è
piacere più grande che accendere un sorriso e togliere un po’ di tristezza.
Parlerò ai giovani, a questi
giovani della Scuola Infermieri Professionali di Atessa e alla loro direttrice
Suor Lorenza per dir loro che giovinezza è speranza e conquista e realizzazione
di sogni. Ma anche la longevità è speranza e conquista di significati ed
interessi.
Un saluto particolare va poi a
tutte le persone anziane che si sentono messe da parte come inutili e
dimenticate. A loro vorrei gridare: riempite la casa della vostra presenza,
affinate le risorse corporali e spirituali. Se l’aspetto fisico si deteriora,
l’aspetto spirituale cresce. Lottare contro la solitudine, evitare il
conformismo e la routine. Rimanete gradevoli. La vostra vita è degna di
significato. Sentitevi capaci di recitare l’atto più lungo della Commedia
Umana. Vi è ancora spazio alla speranza, alla fede, alla carità che non sono
soltanto virtù cristiane, ma luoghi di forza del nostro essere uomini.
Ma parlo anche all’uomo nella più
larga eccezione del termine. Parlo all’anziano che non è l’uomo dei filosofi,
che non mi interessa, che non è l’uomo della razza, che non è l’uomo della mia
nazione, che non è l’uomo della mia fede. Parlo all’uomo reale, l’uomo vero, in
carne e ossa, quello che posso toccare, quello che giace nei letti del mio
ospedale pieno di gente morente che spesso soffre di avanzate malattie di
cuore, di cancro, di paralisi, di forme demenziali e al quale ho ben poco da
offrire dal punto di vista medico. E quest’uomo che chiede pietà, sono io
stesso. Siamo ciascuno di noi “quando i fili dell’ordito sono per essere tagliati
e ci avviciniamo come il tessitore al termine del rotolo della vita”.
Siamo ciascuno di noi quando la
società sopravvaluta la giovinezza e scarta i vecchi.
Povero è l’uomo. Ogni uomo.
“He is a has-been” “Egli è uno
che è stato”. L’espressione americana schiaccia il senso autentico della vita
nella materialità, e il cuore dell’uomo in un’aritmetica del profitto. Secondo
questa concezione purtroppo dominante non è la coscienza che fa l’uomo e
l’ambiente ma è l’ambiente che fa la coscienza (e per stare ai tempi, fa
Tangentopoli). In sostanza “siamo ciò che la società ci fa essere” e quando
abbandoniamo il ruolo che prima ricoprivano, noi siamo finiti. Ecco perché una
persona anziana soffre soprattutto nel sentirsi inutile, nel non essere più
richiesta di niente, sentirsi sopportata. Ma allora essere anziani, sempre meno
efficienti, sempre meno forti, sempre meno produttivi, sempre meno importanti,
è una condanna?
“Ogni vita umana è una nuova vita
in crescita
Voi contate molto per tutti
La società ha bisogno di voi.”
Così Giovanni Paolo II agli
anziani del Canada. Vita in crescita, dunque, quando siamo in condizione di
malattia. Vita in crescita in condizione di pluripatologia perché il declino di
una parte di una persona non è il declino di tutta la persona. Vita in crescita
nella fatica dell’esistere e nel freddo della sofferenza perché l’uomo non è
soltanto lui stesso, è il punto unico dove i fenomeni del mondo si incrociano
una sola volta senza ripetersi.
Mi rendo conto che la concezione
della vita come una linea che sale e che può diventare spoglia di tutto fino a
farci dire “tu non sei più vita” ed invece continua ad esserlo; questa
concezione è a rischio e passa assai alto rispetto a noi sino a ribaltare la
nostra moda culturale. Sinora abbiamo guardato l’anziano per porgergli un
aiuto; secondo questa concezione invece l’essere anziani comporta non solo le
molte cose già dette dal geriatra e dal politico, cioè attenzioni, provvidenze
e interventi sulla condizione com’è, ma comporta un valore. Un valore che prima
non c’era nell’umano e che non ci sarebbe se non esistesse la fase anziana
dell’essere uomini. E questo non perché prima o poi faremo tutti il nostro ingresso
nell’anzianità, ma perché crediamo nella continuità del valore della vita
stessa in tutte le sue stagioni: si può dire, anzi, che più la vita è vita,
vive, più cresce valore. Giovanni Testori diceva “La vita è la vita”. Cresce di
valore maturando un diverso significato della vecchiaia che si libera di alcune
sue caratteristiche peculiari di ineluttabilità per disvelarne altre ancora
sepolte nella possibilità (arriveremo a 130 anni?). Cresce il valore perché ha
vissuto tutta la scala dei valori familiari a lui consentita e ora ci invita a
guardare lontano. Cresce di valore perché ricapitola in sé, nel suo passato,
livelli di esperienza che noi dobbiamo ancora vivere. Cresce di valore perché
nella prima volta nella storia, la figura dell’anziano esce dall’immaginario
popolare per diventare una figura concreta e reale raggiungibile dalla maggior
parte delle nuove generazioni in un contesto caratterizzato dalla effettiva
coesistenza di tre e spesso di quattro generazioni.
Queste considerazioni non
esistono nella nostra cultura e il problema consiste nel cambiare mentalità.
Certo, non so quanti anziani, al di là del fatto che lo vivano personalmente,
siano disposti ad affermare che l’anzianità è un valore profondo della vita e
quindi non hanno solo bisogno di infermieri che si chinino su di loro (è ovvio
che non mi riferisco agli infermieri di professione) ma hanno bisogno di
ammiratori che guardino per imparare, o di ammiratrici come la Dott. Bartorelli
che con un bellissimo articolo su Geriatria ci insegna che “la qualità della vita dipende, sì dalla salute della
persona, dal suo stato funzionale, dal benessere psichico e sociale, entità in
qualche modo misurabile, ma anche dall’ineffabile proprietà dell’essere che
sfugge a qualsiasi misura”.
E ancora la Bartorelli descrive
due anziane signore attive e creative che si muovono come farfalle in una vita
di provincia ricca di qualità da cui il film “Caccia di farfalle”.
L’umile immagine della farfalla
in una società impazzita, insaziabile di beni e di danari.
La farfalla, in greco: Psiukè.
L’anima, in greco: Psiukè.
L’ineffabile proprietà dell’essere in
un corpo che ha intatta la sua umanità e dignità e che continua ad essere una
cellula viva della comunità magari insidiata dal progresso.
Tutto ciò che possiamo dire l’ha detto
tanto tempo fa Dante nel decimo canto del Purgatorio:
“Non v’accorgete voi che noi siam
vermi
nati a formar l’angelica farfalla
che vola a la giustizia sanza schermi?”
“Nessuna
sofferenza, nessuna umiliazione ha il potere di spegnere la gioia essenziale
che è in noi”, ha scritto Claudel.
Quella
gioia, affine all’amore, che non può essere uccisa neppure dal suo antidoto: il
dolore.
Riflettori
puntati per tutto il ’93 sull’anziano, dunque, che non significa solo e per
sempre “assistito, non autosufficiente, bisognoso di aiuto”. Tale
rappresentazione sociale dell’anziano coincide sempre meno con la realtà, dal
momento che crescenti fasce di popolazione anziana presentano stili di vita, di
consumo, di movimento fortemente autonomi.
La
persona d’età, che abbia conservato la buona salute, ha spostato in avanti la
sua “linea del Piave”; la resistenza al declino si affida ad esercizi di
vitalità fino ad una generazione fa semplicemente impensabili: esercizi fisici
(la ginnastica della terza età è orma un rispettabile business che interessa
palestre, produttori e venditori di abbigliamento sportivi e ginnici,
l’industria termale), esercizi psichici e mentali; dai centri di conferenze
alle Università della terza età che si aprono un po’ dappertutto come risposta
spontanea all’abbandono dell’attività produttiva per diventare poi una
prospettiva antropologica. Siamo più giovani ad ogni età. L’esistenza ha
compiuto un grande salto. La vecchiaia ha un altro volto. Non è più il limite
tra il finire e il nulla, come diceva Chateaubriand, ma l’età più libera della
vita. La durata della vita si è allungata e l’Italia in Europa è il Paese dove
si invecchia di più. Nel 2000, per 100 giovani vi saranno 120 anziani. Ma la
longevità è femmina. Nella nostra società ancora maschilista il nascere donna
comporta un certo numero di svantaggi ma non quello della sopravvivenza.
Infatti, la donna vive 7-8 anni più dell’uomo che come è scientificamente
accertato è il vero sesso debole della specie sapiens-sapiens e tende a morire
in percentuale più alta. Ma questa speranza di vita, più solida di quella un
tempo concessa a chi ci ha preceduto nella difficile battaglia del vivere,
permette una vita migliore? E questa longevità già misurabile e sicuramente
prevedibile, può crescere oltre che in quantità, in qualità?
Non
serve guadagnare anni di vita se si traducono solo in anni di malattia. E mi
riferisco non soltanto alle patologie oggi dominanti, ma anche a quelle emergenti,
ad esempio, i disturbi psichici che sono uno dei limiti della qualità della
vita. Soltanto da poco tempo, dopo che si sono dati più anni alla vita si tende
a dare più vita agli anni. Vivere più a lungo offre la possibilità di scoprire
molte cose che prima non si erano viste o capite.
E non è
vero che l’invecchiamento comporta un impoverimento psichico progressivo. E
anche se qualche autore sostiene che dopo i quindici-vent’anni si perdono ogni
giorno cinquantamila neuroni, il cervello ne ha miliardi di riserva.
Molti
personaggi della cultura e dell’arte hanno continuato e continuano ad operare
fino a tarda età. Tolstoi a settantuno anni terminò di scrivere Resurrezione,
Goethe a ottantuno concluse il Faust, Michelangelo a ottantanove lavorava
ancora alla Pietà. Pablo Picasso toccò il vertice della Pittura tra gli
ottantadue e i novantadue anni. Nell’arte del passato come in quella
contemporanea si trovano segni profondissimi di questo coraggio creativo che
permette di esprimere la verità artistica nel modo più irrazionale e assoluto.
Certamente
si tratta di personaggi che non hanno mai perso motivazioni e interessi. Non è
infatti l'eventuale perdita di un neurone ogni minuto secondo a determinare il
deficit psichico nell'anziano quanto la diminuzione degli stimoli che si
ricevono dall'ambiente e che producono le risposte.
Saper
invecchiare è quindi il risultato di una maturità psico-affettiva anche se non è
facile liberarsi dagli stereotipi negativi che erroneamente identificano la
vecchiaia con il passaggio dalla mobilità, dalla capacità all'incapacità,
dall'indipendenza alla dipendenza, dall'appartenenza (alla famiglia, al gruppo)
all'emarginazione. Non si dovrebbero mai contare gli anni. La malattia della
vecchiaia è “credersi vecchi”. Il vecchio infatti si valuta come la società lo
considera. Il termine “anziano" rappresenta per lo più una valutazione
data dagli altri e c'è sempre una discrepanza tra il “concetto dell'altro” e il
“concetto di sé”, tra quello che gli altri si aspettano dall'anziano e quello
che lui vorrebbe e potrebbe fare. Ma proprio perché mi rendo conto di quanto
sia difficile diventare una persona matura e di quanto non sia facile invecchiare
bene, queste modeste riflessioni vogliono ricordare questo impegno prima di
tutto a me stesso.
Ma il
vecchietto dove lo metto?
C'è
oggi un clima culturale che non rispetta la vita nascente, che trascura gli emarginati
e abbandona gli anziani. C’è oggi nella gente un curioso atteggiamento: la
medicina dovrebbe garantirci non solo contro tutte le malattie ma anche contro
tutte “le realtà più crude della vita”.
Nelle
discussioni sull'eutanasia affiora uno strano modo di pensare che opprime in
nome dell'efficienza chi è anomalo, debole, vecchio. Sembra prevalere sempre
più non la tragedia di chi sceglie di porre fine alla propria vita e al proprio
dolore, ma l’igienismo sociale di chi vuole eliminare persone inutili e
togliere di mezzo chi soffre. L’eutanasia appare sempre più come una resa, come
una incapacità a rispondere ai bisogni dell’uomo e si chiede il permesso di
ucciderlo. Si è fatto di tutto per privarlo delle ragioni di vivere, di
soffrire, di amare, di lottare e di morire e all’uomo all’estremo della privazione
che ho detto, si offre il rimedio della … morte.
La
morte!
Gli
uomini non sanno e non possono farsi una ragione dell'esistenza della morte, e
della sua ineluttabilità. Nell’anziano poi, la progressiva scomparsa di coloro
che lo circondano, e soprattutto lo sradicamento dalla propria casa con i
significati simbolici di sicurezza e protezione, costringe a prendere ancor più
coscienza dell’evento decisivo che si avvicina. E ciò che abitualmente spaventa
di più è la paura di rimanere soli, senza una presenza amica a fianco, e
soprattutto terrorizza l'idea che si possa morire senza che nessuno se ne
accorga, con il rischio di essere trovati più o meno tardivamente sotto forma
di un corpo in sfacelo senza la possibilità di lasciare di sé un’ultima immagine
bella.
Joseph
Roth con tenero pessimismo ne La Cripta dei Cappuccini scriveva: “Com'è
caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una
grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi: un
poco di confusione anche prima della morte. Le ombre da cui questa sì fa
procedere sono fresche e caritatevoli.”
È la
poesia della vita e della morte. È la giovinezza eterna che si sogna e
si desidera mentre l’immortalità, vissuta come condizione terrena carica di
pene e di sofferenze, è la peggiore delle condanne: quella che fa desiderare la
morte stessa.
Se le cose stanno così e ogni
attimo conferma la nostra condizione mortale, risuonano pietose le parole di Esopo:
- Una volta un vecchio che aveva
fatto legna nel bosco se la caricò sulle spalle. La via era lunga. Il vecchio
stremato posò la fascina e invocò la Morte. Apparve la morte e gli chiese: “Mi hai
chiamato, che vuoi?”
“Dammi una mano”, il vecchio
rispose.
Mi avvio a concludere queste
poche note cosciente della loro insufficienza ma con una annotazione
incoraggiante: gli avvenimenti di questi ultimi tempi non solo e non tanto hanno
sorpreso per il travolgente ed imprevedibile succedersi al di là di ogni ottimistica
previsione, per quanto il trascinante risveglio di quei valori che devono
essere appannaggio di tutti gli uomini: l'onestà, la responsabilità, il
rispetto del valore dell'uomo in qualsiasi situazione. In questi giorni sembra
che siamo stati colpiti da una famosa maledizione cinese: “Che tu possa vivere
in un momento interessante”. L’exit poll di questo scorcio di millennio ci porta
verso il futuro e già comincia ad aprirsi uno spiraglio in questa straordinaria
frontiera. È questo un momento molto importante, una stagione significativa dalla
nostra società che ha in sé quei valori di passione e di fiducia che per
l'anziano rappresentano una parola di conforto e di amore e che si traduce in
un lampo di gioia ed in un sorriso di speranza. “La rugiada non calma forse il
calore? Così come una parola vale più di un dono”, dice la Bibbia.
Una striscia di felicità, una
lama di luce nella tenebra della vita che può coesistere con un’esistenza aspra
e coniugarsi con la quotidianità amara come insegnano le Beatitudini, ma di
fronte alla quale non possiamo che inchinarci.
Convegno regionale di geriatria. Atessa, 24 aprile 1993.
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