I am the Way, follow Me and take my hand
And I am the Truth, embrace Me and you'll understand
And I am the Light and for Me you'll live again
For I am love, I am love, I, I am love.
domenica, dicembre 04, 2016
mercoledì, novembre 30, 2016
giovedì, novembre 17, 2016
mercoledì, novembre 16, 2016
martedì, novembre 15, 2016
Why Universities Must Choose One Telos: Truth or Social Justice
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Aristotle often evaluated a thing with respect to its “telos” – its purpose, end, or goal. The telos of a knife is to cut. The telos of a physician is health or healing. What is the telos of university?
The most obvious answer is “truth” –- the word appears on so many university crests. But increasingly, many of America’s top universities are embracing social justice as their telos, or as a second and equal telos. But can any institution or profession have two teloses (or teloi)? What happens if they conflict?
As a social psychologist who studies morality, I have watched these two teloses come into conflict increasingly often during my 30 years in the academy. The conflicts seemed manageable in the 1990s. But the intensity of conflict has grown since then, at the same time as the political diversity of the professoriate was plummeting, and at the same time as American cross-partisan hostility was rising. I believe the conflict reached its boiling point in the fall of 2015 when student protesters at 80 universities demanded that their universities make much greater and more explicit commitments to social justice, often including mandatory courses and training for everyone in social justice perspectives and content.
Now that many university presidents have agreed to implement many of the demands, I believe that the conflict between truth and social justice is likely to become unmanageable. Universities will have to choose, and be explicit about their choice, so that potential students and faculty recruits can make an informed choice. Universities that try to honor both will face increasing incoherence and internal conflict.
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lunedì, novembre 14, 2016
QUEL TRUMP CHE SI CHIAMA PUTIFERIO
Donald Trump ha vinto dunque le elezioni
presidenziali negli USA. Un grande paese democratico, senza dubbio. Che
ha saputo esprimere come candidati contrapposti due supermillionari,
entrambi legati a doppio filo agli ambienti di potere statunitensi e
internazionali: un gran bell’esempio di democrazia davvero (l’unico
aspirante candidato presentabile, il “socialista” Benny Sanders, è stato
fatto fuori subito: anche se aveva preso 13 milioni di voti,
soprattutto da parte di giovani; e per fortuna è stato accolto in
Vaticano, non i due protagonisti dello scellerato derby dell’8 novembre).
Ma torniamo a Trump. Su 245.273.000
elettori aventi diritto (una cifra lontana dalla totalità degli
abitanti: si perde facilmente il diritto di voto, negli States); hanno
votato solo in 119.651.000, vale a dire in percentuale il 48%, meno
della metà. Una straordinaria tensione politica, un’autentica passione.
Poi, milioni di manifestanti hanno dimostrato sotto lo slogan He is not my president. Un’altra
prova specifica di fedeltà al sistema democratico. Questa è la più
grande democrazia del mondo, com’è stato detto da più parti. Una
democrazia i membri della quale hanno votato in numero più basso di
quanto non abbiano mai fatto in tutta la storia degli Stati Uniti.
Dal canto mio, ho sempre sostenuto che
dalle elezioni dell’8 novembre sarebbe uscito il Male Peggiore. Era una
facile prospettiva. Sarebbe stato il Male Peggiore in entrambi i casi.
Solo in modo differente.
Intanto, fatemi dire che un luminoso
momento di gioia ha rallegrato la mia vecchiezza. Aveva ragione Massimo
Cacciari in una sua recentissima intervista: a proposito di Trump come
di millanta altre cose, i media, la finanza e i politici che ormai inseguono gli uni e l’altra senza capire, hanno sbagliato tutto. Le uscite sexy di Madonna, gli shows di
Meryl Streep, le ballate di Bruce Springsteen, i furori di Robert De
Niro, le barricate erette a Wall Street e a Silicon Valley dai
coccodrilli da sempre Padroni del Vapore, le raffiche dei più raffinati columnists e dei più strapagati anchormen televisivi
non sono serviti a nulla. Nemmeno “i Mercati”, questi nuovi santuari
dove si ufficiano le liturgie dell’unico Dio adorato dall’Occidente, si
sono scossi più di tanto. Ho accolto tutto ciò non già con rinnovato
ottimismo, bensì con il disperato ma allegro pessimismo di chi capisce
che il peggio deve ancora venire, ma quanto meno ringrazia Iddio per
essersi fatto adesso quattro belle risate.
E a questo Ridere-Ridere-Ridere ha dato
come al solito il suo originale contributo il Maurice Chevalier del
nuovo scemenziario stile gauche-caviar. Bernard-Henry Levy sta
rilasciando interviste micidiali contro Trump: prevede il peggio,
disegna fantasmagoriche alleanze dei “testosteronici” Trump, Putin ed
Erdogan, rivela addirittura che è stato Assad a inventare l’ISIS,
rispolvera la storiella dell’”internazionale rosso-nera” (e non allude
al Milan).
Levy è sempre stato la mia stella
polare. Quando afferma qualcosa, punto immediatamente sul contrario: e
non sbaglio mai. Semmai, mi dà da pensare Trump: non riesco a
riconoscergli alcun merito, ma se Levy ne parla così male qualcuno ne
avrà pure.
Dicono che stia sul serio preparando
grosse espulsioni di migranti, che intenda mantenere le promesse sui
fantasmagorici sgravi fiscali, insomma che – fedele al principio
multidecennale dei governanti statunitensi e dei ceti che li appoggiano –
si appresti a rubare ai poveri dell’America e di tutto il mondo per
dare ancora di più ai ricchi. Non c’è da stupirsene: che i poveri lo
applaudano, questa sì che sarebbe una novità. Ma chi conosce un po’ di
storia statunitense ed europea sa che accade spesso per non dir sempre
che i poveri applaudano i ricchi e facciano la guerra agli altri poveri.
Ma davvero Trump è un modello di
“populismo”? E di che tipo di “populismo? Davvero rappresenta ed esprime
quel coagularsi della resistenza di differenti strati sociali che si
sentono esclusi che, comunque, del populismo è l’essenza, e cerca di dar
loro una voce e un indirizzo? Davvero si sente in qualche modo legato
al vecchio progetto “neoisolazionista” statunitense, tipico dei
repubblicani “storici” (quelli dell’Elefante) e risposta “di destra” al
programma di Monroe del 1823 (“l’America agli americani”) laddove
quella “di sinistra”, che la Clinton avrebbe abbracciato di nuovo,
sarebbe stata la ripresa del principio “USA gendarme del mondo”?
Comunque, se l’Europa non si sveglia,
qualcuno dovrà bene svegliarla. E se un contributo ce lo desse proprio
il Grande Matto dal Ciuffo Arancione? Sono decenni che io e altri
quattro sderenati, reduci patetici eppur a modo nostro inossidabili del
“Fuori-la-NATO-dall’Italia-Fuori-l’Italia-dalla-NATO”, offriamo ceri
alla Madonna Stella Maris augurandoci che liberi il Mediterraneo dalle
incomode presenze armate di chi sul nostro vecchio mare non ha alcuna
sponda e pertanto alcun diritto (diverso il caso della Russia: il Mar
Nero è un golfo mediterraneo) . L’amico Alessandro Bedini, un altro che
al pari di me scrive gratis libri che difendono cause perse, ha firmato
tre anni fa un saggio importante e documentato che naturalmente non ha
ricevuto né recensioni né passaggi televisivi, L’Italia “occupata”. La sovranità militare italiana e le basi USA-NATO (Rimini,
Il Cerchio 2013), nel quale dimostrava pulitamente a tutti quelli che
si preoccupano di recuperare la sovranità monetaria del nostro paese che
esso non ha soprattutto quella politica: e non ce l’ha, come non ha
quella diplomatica, in quanto non ha quella militare. E’ un paese
occupato. Obama, ricevendo Renzi alla grande quando ancora stava
fingendo di gioire dell’Immancabile Vittoria della signora Clinton
(ch’egli detesta, detestato a sua volta), non ha abbracciato un sicuro
alleato, ma un fedele capo ascaro: e spero che Matteo lo sapesse. Siamo
sempre stati ascari, ma almeno di quando in quando un Fanfani, un
Andreotti, un La Pira, un Craxi (quest’ultimo soprattutto) avevano dei
soprassalti di dignità. Perfino Berlusconi qualche volta sembrava
svegliarsi dal letargo, anche se ne uscivano amenità come “lettoni di
Putin” e travestimenti da inverno sovietico tipo l’incursione dei due
cafoni dello hinterland partenopeo a Milano in Totò, Peppino e la Malafemmina. Renzi
no: lui è allineato e coperto, fare l’ascaro gli piace e rimprovera
addirittura il suo ministro degli esteri Gentiloni di non esserlo sempre
e con sufficiente zelo…
E ora? Che cosa succederà se davvero
Trump applicasse alla lettera l’articolo 5 del Patto Atlantico siglato a
Washington il 4 aprile 1949, e negasse la copertura NATO a chi non
“adempie gli obblighi verso di noi”, a chi è indietro con i pagamenti
(perché la protezioni, come in tutti i sistemi mafiosi di questo mondo,
si pagano)? Il contributo minimo annuo alla comune difesa, indicato dai
vertici della NATO, è il 2% del PIL di ciascuno dei 28 paesi aderenti.
Gli Stati Uniti versano oggi il 3,62% del loro. L’Italia lo 0,95%
(penultima: la Spagna solo lo 0.89). Me ne compiaccio: abbiamo
risparmiato. E me ne dolgo: quello 0,95 poteva esser meglio impiegato
altrove. Rischiano di adempiersi i voti di noialtri dinosauri anti-Zio
Sam, ma in modo umiliante e inatteso: invece di andarcene noi sbattendo
la porta, sarà Zio Sam, ora che si è tagliato la barbetta caprina e
porta parrucca arancione, a cacciarci a pedate nel culo. Peraltro,
pedate che sarebbero accolte con ilare, quasi grata umiltà.
E allora, avanti con la European Defence Agency, anche
se la strada sarà difficile, lunga e costosa: perché l’autodifesa
costerebbe un bel po’ all’Italia e a tutti i paesi europei che ci
stessero, ma li ricondurrebbe alla realtà. Europa, svegliati.
Proclamiamolo a voce ben alta, una buona volta, che aveva ragione il
vecchio Schuman: che senza un libero esercito europeo non si fa né
un’Europa unita né un’Europa libera. Guardiamoci attorno, ricominciamo
da qui: smettiamola di far gli interessi d’una superpotenza lontana che
non è nemmeno una superpotenza. Ricominciamo a pensare concretamente a
noi, al nostro Mediterraneo, alla nostra Eurasiafrica. Che sia questa
una nuova possibile strada per rilanciare l’unità europea, al di là dei
fantasmi neomicronazionalisti e degli isterismi xenofobi?
Franco Cardini
dal blog dell'autore
sabato, novembre 12, 2016
La creatività malefica di Donald Trump
Per un quarto di secolo la sinistra perbene, quella sedicente riformista, benpensante, e socialmente garantita, che si era impegnata a costruire un paradiso in terra sulle ceneri del comunismo ha ripetuto a se stessa e a noi tutti, popolo degli elettori progressisti, che il segreto di una vera e vincente strategia politica stava nella conquista del centro. Le elezioni americane mettono una pietra tombale su questa presunzione, se ce n’era ancora bisogno, e suonano come un campanello d’allarme per tutti coloro che non sono convinti che senza una sinistra forte e caratterizzata sia la stessa stabilità della democrazia ad essere messa seriamente in causa.
IN USA OBAMA passa la mano direttamente a Trump. Ma è davvero così strano e inaudito? A pensarci c’è una logica forte. Per otto anni il presidente nero non ha fatto altro che cumulare sconfitte alternate da piccole insignificanti vittorie. La parola d’ordine con cui era riuscito a farsi eleggere (Yes we can) non poteva conoscere una smentita più clamorosa. Sia in politica interna che in politica estera l’impotenza e l’incoerenza è stato il tratto distintivo di questa presidenza. Ed è proprio la completa disillusione delle grandi attese di cambiamento riposte per otto anni nel presidente democratico che in definitiva ha aperto la strada alla destra. Ad essere sconfitto è stato il tentativo tardivo e un po’ ingenuo di riproporre il tradizionale messaggio progressista americano in un’epoca in cui erano venute meno le condizioni storiche della sua attuazione.
La politologia americana, nella figura assai rappresentativa del democratico Arthur Schlesinger ( stretto collaboratore di J.F. Kennedy), ebbe ottimi motivi per teorizzare una politica di «vital center» negli anni in cui un possente sviluppo economico allargava ininterrottamente i confini della classe media i cui requisiti di base si era soliti individuare nella proprietà di una confortevole abitazione nei sobborghi in perpetua espansione e nella possibilità di mandare i figli a studiare in una buona università. Il sogno americano in definitiva non aveva niente di sognante: si lasciva misurare su assai tangibili risultati economici. La politica di inclusione del centro vitale trovò precisi corrispettivi in Europa. In Italia significò un ininterrotto monopolio del governo della Democrazia cristiana, partito congenitamente interclassista, e in Europa, in assenza della conventio ad excludendum, un progressivo avvicinamento politico – programmatico dei partiti conservatori e progressisti.
Quantum mutatus ab illo! Obama ha avuto la piccola vittoria di mettere in sicurezza l’industria automobilistica, ma ha perso platealmente la guerra contro la crescente polarizzazione sociale che mina da anni la stabilità della democrazia americana.
OGGI È CHIARO quello che già prima si poteva intuire, ossia che solo un candidato democratico come Bernie Sanders poteva avere qualche opportunità di arrestare la landslide di Trump. Ed ancor più chiaro è il fatto che la Clinton, invece di accontentarsi dell’endorsement di Sanders, avrebbe dovuto riprendere ed enfatizzare l’agenda iniziale di Obama che l’opposizione repubblicana , maggioranza nei due rami del parlamento, era riuscita a mandare a picco. Troppo per quella sua storia personale tutta calata nelle mitologie ormai stantie degli anni Novanta, quando sia in Europa che in Usa si pensò davvero(ingenuità o scelleratezza?) che la tradizionale politica di progresso, affermatasi in tutto l’Occidente capitalistico dopo la seconda guerra mondiale, ed in presenza di una ruggente Unione sovietica, fosse conciliabile con una espansione illimitata del potere della finanza.
Se si ha il coraggio di andare oltre le emozioni di superficie di una campagna elettorale, che forse troppo superficialmente si è detto essersi basata sul nulla, ci si accorge che in realtà Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane. Una politica estera di intesa con la Russia per porre fine alla tragedia del Medio Oriente in cui gli Stati uniti stanno perdendo ogni reputazione dal 2001, allorché, frastornati dall’idea di aver vinto la guerra fredda, imboccarono la impossibile strada della ricostituzione dell’impero. E una politica di sviluppo fondata prioritariamente su grandi investimenti pubblici nelle infrastrutture(di cui Trump ha riparlato nel discorso della vittoria), sulla difesa della precedenza del lavoratore americano rispetto a quello straniero, sul ritorno anche, là dove sia necessario, a forme di protezione della manifattura nazionale contro la logica del Trattato Transatlantico difeso accanitamente in Europa dai pasdaran della politica di austerità, in primis dal ministro dello sviluppo economico del governo in carica nel nostro paese.
PIACCIA O NO occorre prendere atto che da queste elezioni esce battuto quel mix di liberismo e bellicismo di cui la Clinton è apparsa rappresentante diretta. Siamo dinanzi al paradosso di una politica di destra che viene sconfitta da una destra che ha avuto il coraggio e la creatività politica di farsi interprete di un disagio sociale ormai dilagante e che da tempo cerca disperatamente una voce che lo rappresenti. Gli ingredienti sono molto simili a quelli che hanno determinato la Brexit (che pure è totalmente specioso rappresentare come una vittoria della destra) e che nei paesi più benestanti del continente stanno invece gonfiando le vele del populismo neofascista.
Le elezioni americane ci aiutano allora a capire l’ estrema fragilità democratica di un’Europa sintonizzata da anni sulla politica di austerità. Nella sconfitta della Clinton è facile leggere anche tutta la debolezza di Renzi che crede di stabilizzare il proprio potere con la distribuzione dei bonus; che continua a pensare si possa avere crescita e occupazione regalando soldi alle imprese (secondo un vecchio pregiudizio degli anni Novanta) senza aver capito che nessun imprenditore che si rispetti, grande o piccolo che sia, è disposto a fare investimenti se non ha le certezza di vendere le sue merci; che crede di contestare la politica di austerità prendendosela con Junker, il funzionario di turno, senza chiamare in causa il sistema di Maastricht, da un quarto di secolo governato con mano ferrea dagli interessi tedeschi. Ossia dal vero Stato che consente l’esistenza della «moneta senza Stato».
LA COSCIENZA E LA CULTURA di sinistra che ancora esiste nel nostro paese, aldilà delle vecchie sigle del passato, ha dunque qualcosa da imparare dalla vittoria di Trump. Ma come? Ad esempio smettendo di bollare di razzismo ogni protesta contro una situazione caratterizzata da crescente immigrazione e crescente disoccupazione. Facendosi interprete sul terreno nazionale e persino su quello locale di tutti gli interessi lesi dalla globalizzazione, come unico modo per risuscitare la politica democratica cancellata dal sedicente governo impersonale delle regole. Andando a censire gli enormi danni provocati dalle tre libertà di Maastricht, quelle dei capitali, delle merci, e della forza lavoro, per ricostruire nelle condizioni di oggi un concreto programma di quella che negli anni Trenta Karl Polanyi chiamava «autodifesa della società dal mercato».
Leonardo Paggi
http://ilmanifesto.info/la-creativita-malefica-di-donald-trump/
lunedì, novembre 07, 2016
lunedì, ottobre 31, 2016
In occasione della visita del Papa in Svezia vi consiglio la lettura di questa discussione che ha coinvolto i miei amici e conterranei Luigi Copertino e Giovanni Marcotullio.
Che è che gode delle liti tra cattolici e luterani.
La comune lotta al gender non rende Lutero "cattolicizzabile" - risposta a LaCrocequotidiano.it
Contrappunto su cristianesimo e cristianità.
Che è che gode delle liti tra cattolici e luterani.
La comune lotta al gender non rende Lutero "cattolicizzabile" - risposta a LaCrocequotidiano.it
Contrappunto su cristianesimo e cristianità.
martedì, ottobre 18, 2016
Trump e Clinton sono i sintomi dell’inevitabile malattia della democrazia liberale
La democrazia americana non si è smarrita, ha solo compiuto le sue imperfette premesse. Perché i due candidati alla Casa Bianca "rappresentano il crescente assorbimento della politica democratica negli ‘interessi’. Parla il teologo Schindler
New York. Alexis de Tocqueville aveva intravisto lo psicotico affannarsi del becero Donald Trump, aveva intuito il sordido viluppo di potere di Hillary Clinton, aveva presentito i dibattiti vacui, scorto gli intrighi intessuti nel silenzio di server privati, ma non era riuscito a dare a tutto questo un nome: “Penso che i tipi di oppressione dai quali le nazioni democratiche sono minacciate siano diversi da qualunque cosa sia esistita al mondo. Sto cercando di trovare un’espressione che trasmetta con precisione l’intera idea che mi sono formato, ma non ci riesco”. Il teologo David Schindler, che vede accadere nella cronaca quello che Tocqueville aveva prefigurato, lo chiama “il capolinea della democrazia liberale”. Per il decano emerito dell’Istituto Giovanni Paolo II di Washington non si tratta del tramonto storico degli istituti democratici, ma di quella fase in cui la democrazia “esaurisce la sua logica intrinseca”, il meccanismo s’inceppa. Che la democrazia si sia ammalata lo dicono tutti. La questione – capitale – è se la patologia viene da fuori oppure si tratta di una malattia autoimmune, e sono i suoi stessi anticorpi a debilitare l’organismo. Schindler sostiene questa seconda e più impopolare tesi. Per spiegare il nesso fra queste pazze elezioni e il morbo congenito che affligge l’ordine liberale, il teologo americano parte da Platone: “Per il filosofo il tiranno è il figlio del democratico, cioè l’anima democratica si riversa in un’anima tirannica. Se lo stato si occupa soltanto degli interessi individuali, e non del bene comune o bene naturale, non c’è criterio oggettivo con cui risolvere in modo giusto i conflitti della società. Questo è ciò che Giovanni Paolo II e il cardinale Ratzinger intendevano quando parlavano della conversione della democrazia nel totalitarismo, oppure quando si parlava di dittatura del relativismo”. Laddove l’interesse individuale è il fondamento ultimo della società, le intenzioni virtuose delle istituzioni hanno vita necessariamente limitata.
Il concetto va travasato nello stampo della democrazia americana. Nel dibattito fra i Padri fondatori, James Madison ha dedicato un’ampia riflessione alla “fazione”, definita come un numero di cittadini “unito e messo in azione da un comune impulso della passione, oppure da un interesse, in contrasto con i diritti di altri cittadini”. Spiega Schindler: “Nella fondazione della democrazia americana ovviamente si può presumere la presenza di una cornice morale ispirata dal protestantesimo nella sua forma puritana. Questa cornice era condivisa da Madison e Jefferson, anche se in una forma piuttosto secolarizzata. Ma lo stato che hanno formato era ordinato attorno a ‘fazioni’ guidate da ‘interessi’ individuali. Nell’amministrazione della giustizia lo stato non aveva l’autorità di riconoscere alcun ordine dell’anima, si occupava soltanto del bilanciamento degli interessi competitivi. Così, l’unica, definitiva difesa contro la tirannide consisteva nel moltiplicare gli interessi, per fare in modo che nessun interesse dominasse sugli altri”. Il problema non è che questo equilibrio fra fazioni è saltato, ma proprio che si è consolidato e approfondito, affermandosi non come una fra le possibili impostazioni del problema politico ma come unica impostazione. “In quest’ottica – continua Schindler – Trump e Clinton non sono soltanto ‘cattivi’ candidati che tradiscono i princìpi fondativi della democrazia americana. Al contrario, rappresentano il crescente assorbimento della politica democratica negli ‘interessi’. Trump incarna questa realtà in modo volgare, Clinton in modo più sistemico, ma nessuno dei due è cosciente di ciò che gli antichi chiamavano l’ordine dell’anima”.
La patologia sta dunque nella concezione antropologica su cui l’edificio liberale poggia, talmente radicata da essere difficile da individuare, figurarsi da criticare. E’ come se la preparazione dello spettacolo lugubre di questa disfida elettorale, dove la voglia di ridere o di godersi la rissa con i pop corn sono svanite ormai da mesi, fosse iniziata alcuni secoli fa. Trump e Hillary sono soltanto gli attori meno amati (e più votati) che erano sulla piazza in questo frangente storico. Possibile districarsi fra tali alternative senza rinchiudersi in una monade impermeabile alla modernità? Nel 2004 il filosofo cattolico Alasdair MacIntyre ha vergato un argomento sull’obbligo morale all’astensione quando le alternative politiche sono intollerabili. Si trattava non solo del rifiuto di due candidati incompatibili con le proprie convinzioni, ma di un gesto di resistenza “all’imposizione di questa falsa scelta da parte di chi si è arrogato il potere di designare le alternative”. In altre parole: non ci si astiene perché i giocatori in campo non piacciono, ma perché non piacciono il campo, le regole del gioco e quelli che le fissano. Schindler parla però di “un obbligo anche più fondamentale del voto”. Quale? “Condividere la responsabilità di tutta la società umana: di difendere soprattutto ciò che è dato da Dio: le comunità naturali della famiglia e i figli nella loro innocenza, la realtà nella sua verità e bontà ‘senza difese’. La decisione di votare o non votare dev’essere determinata sulla base di ciò che realizza al meglio la responsabilità sociale di ciascuno”.
http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/10/16/trump-clinton-sintomi-inevitabile-malattia-della-democrazia-liberale___1-v-149290-rubriche_c152.htm
mercoledì, ottobre 05, 2016
domenica, settembre 25, 2016
VANGELI
tratto dal n. 05 - 1999 della rivista "30 Giorni nella Chiesa e nel mondo"
Amati, odiati comunque noti
Il Vangelo di Marco era così conosciuto nella Roma imperiale del primo secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno riferimento nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e simpatia. Come spiega Marta Sordi, una delle maggiori esperte del cristianesimo antico. Intervista
Intervista con Marta Sordi di Stefano Maria Paci
Il Vangelo di Marco? Sarebbe
stato scritto a Roma appena pochi anni dopo la morte di Gesù Cristo,
attorno all’anno 50, ed è frutto diretto della predicazione di
san Pietro. Ci sono nuovi, autorevoli studi che sostengono questa tesi. Una
tesi che contraddice l’esegesi tuttora imperante anche nei seminari e
nelle facoltà teologiche secondo la quale i Vangeli non
conterrebbero il racconto dei testimoni oculari degli eventi che vi sono
descritti, ma sarebbero stati composti dalle comunità cristiane dei
secoli successivi.
Invece il Vangelo di Marco, contrariamente a quanto si
dice abitualmente, era così conosciuto nella Roma imperiale del I
secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno continuo riferimento
nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e
simpatia. Esaminando gli scritti degli autori pagani si scopre così
che la crocifissione, da supplizio vergognoso, viene improvvisamente
trasformata in esaltazione vittoriosa, che Seneca potrebbe avere avuto
rapporti con san Paolo, che gli autori stoici rimodellano i miti pagani,
come quello di Ercole, sulla figura di Cristo Salvatore. E il singolare
Editto di Nazareth, scritto da un imperatore romano e scoperto attorno al
1800, che colpiva retroattivamente con pena di morte chiunque avesse
spostato cippi sepocrali, sarebbe di Nerone, e segnerebbe l’inizio
della persecuzione dei cristiani in Giudea. Proprio alla voce secondo la
quale i cristiani avrebbero trafugato il corpo di Cristo per fingere la
resurrezione, e a questo Editto, farebbe riferimento Matteo alla fine del
suo Vangelo («Così questa diceria si è divulgata tra i
Giudei fino ad oggi», Mt 28, 15); non ne parla però Marco. Un ulteriore indizio
del fatto che il discepolo di Pietro abbia scritto il Vangelo prima
dell’Editto di Nerone.
Per saperne di più su queste nuove ipotesi siamo andati ad incontrare la professoressa Marta Sordi, direttore dell’Istituto di storia antica dell’Università Cattolica di Milano, una delle massime esperte del cristianesimo dei primi secoli.
Professoressa, cosa emerge da questi nuovi studi?
MARTA SORDI: Si è spesso sostenuto che il cristianesimo a Roma è stato conosciuto tardi. Secondo l’interpretazione più diffusa di un passo di Svetonio lo stesso imperatore Claudio non aveva nemmeno capito che Gesù era morto in Palestina, ma credeva che fosse presente a Roma. Nel I secolo, insomma, secondo le interpretazioni correnti, nel cuore dell’Impero romano si aveva una concezione vaga, confusa di cosa fosse il cristianesimo. Quello che invece sta emergendo, e che rompe gli schemi prestabiliti, è che non solo già nel I secolo il cristianesimo era conosciuto a Roma da molti, anche intellettuali e appartenenti ai circoli imperiali, ma era visto, almeno in certi ambienti, con simpatia e ammirazione.
Da cosa nasce questo proliferare di scoperte sulla presenza dei cristiani a Roma nel I secolo?
SORDI: A metterle in moto è stata l’identificazione, accettata da alcuni e respinta da altri, di un frammento, il 7Q5, scoperto nelle Grotte di Qumrân in Palestina, con un passo del Vangelo di Marco. Il frammento è databile a prima del 50 d.C. e proviene probabilmente da Roma. Questa identificazione è servita, sia pure soltanto come ipotesi di lavoro, a stimolare la ricerca storiografica. Ha permesso cioè di riesaminare la validità di testimonianze che l’ipercritica nata nell’Ottocento, putroppo ancora attiva oggi quando si tratta di notizie riguardanti il cristianesimo delle origini, aveva accantonato.
Essa conferma, innanzitutto, la notizia che Pietro era venuto a Roma nel 42 d.C., all’inizio del regno di Claudio, e che il Vangelo di Marco era la stesura della sua predicazione fatta dallo stesso Marco su richiesta dei Romani, soprattutto cavalieri e cesariani (i liberti imperiali), che lo avevano ascoltato.
Che testimonianze storiche ci sono della presenza di Pietro a Roma e dell’esistenza di una comunità cristiana nel cuore dell’Impero già negli anni 40 del I secolo?
SORDI: Il fatto che Pietro fosse a Roma in quegli anni è attestato da Clemente di Alessandria e da Papia di Gerapoli, ambedue del II secolo dopo Cristo, e si accorda perfettamente con la conversione, avvenuta nell’anno 42/43 d.C. e raccontata da Tacito nei suoi Annales, a una «superstitio externa» (che è certamente il cristianesimo) della matrona romana Pomponia Grecina, moglie di un generale di Claudio e appartenente a una famiglia vicinissima alla corte imperiale. Paolo nel capitolo 16 della Lettera ai Romani parla poi della presenza di cristiani nella casa di Narcisso, liberto e ministro di Claudio, che era appunto un cesariano. Luca dedica a un cavaliere romano il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Tertulliano parla di un tentativo di Tiberio di riconoscere il cristianesimo già nel 35 d.C. e Giuseppe Flavio ci rivela che subito dopo, nel 36/37 d.C., il legato di Tiberio, Vitellio, a Gerusalemme depose Caifa dal sommo sacerdozio. Lo stesso Vitellio, nel 43 d.C., venne lasciato a Roma da Claudio con pieni poteri durante la spedizione dell’imperatore in Britannia ed era il responsabile del governo al tempo della venuta di Pietro.
L’identificazione del 7Q5 con un passo del
Vangelo di Marco, insomma, si accorda pienamente con tutti questi dati,
provenienti da fonti diverse (non solo cristiane ma anche pagane e
giudaiche) e, rivelando la conoscenza che la Roma dei Giulio Claudi ebbe
molto presto del cristianesimo, ha permesso a me e ai miei allievi di
rileggere con nuova attenzione fonti prima trascurate.
E cosa avete scoperto?
SORDI: La dottoressa Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato su Aevum 1996, ha dimostrato – e io credo con buoni argomenti – che Petronio, nel suo famoso Satyricon scritto nel 64/65 d.C., conosceva e parodiava il racconto di Marco sull’unzione di Betania. Io stessa e il collega Erhard Grzybek, dell’Università di Ginevra, abbiamo sostenuto alcuni mesi fa su una rivista tedesca (Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 1998) che il cosiddetto Editto di Nazareth è di Nerone e cerca di colpire i discepoli di Cristo ancora viventi in Giudea, accettando la versione giudaica sul sepolcro vuoto riferita da Matteo alla fine del suo Vangelo. Petronio stesso, nella sua novella sulla matrona di Efeso, mostra di conoscere il racconto evangelico e di volerne fare, come nel caso precedente, la parodia.
Da questi vostri studi emerge che il cristianesimo, per quanto ben conosciuto, provocò negli ambienti della cultura e del potere romani solo irrisioni e persecuzioni.
SORDI: Non unicamente. Se la conoscenza che del cristianesimo hanno Nerone e Petronio denota ostilità e irrisione, ci sono altre testimonianze, provenienti soprattutto dall’ambiente dell’opposizione stoica a Nerone e Domiziano, che rivelano invece ammirazione e simpatia. Un’iscrizione di Ostia del I secolo, pubblicata in CIL XIV, 566, prova che esistevano effettivamente cristiani, devoti a Pietro e a Paolo, nella casa di Seneca, e la stessa Ramelli, in un articolo comparso su Vetera Christianorum 1997, avanza l’ipotesi che l’epistolario fra Seneca e Paolo, tolta la lettera dell’incendio del 64 d.C. che Girolamo non conosceva e che si rivela un’aggiunta più tarda, potrebbe essere autentico. Laura Cotta Ramosino poi, in un articolo che sta per essere pubblicato su Aevum 1999, mette in evidenza come il poeta Silio Italico – che scriveva sotto i Flavi ma che aveva rivestito il consolato sotto Nerone nel 68 d.C. – nel suo poema epico, Punica, rinnova la tradizione letteraria introducendo in due casi il supplizio della croce con un significato del tutto diverso da quello tradizionale.
La morte in croce era considerata dai Romani un supplizio infamante, di cui vergognarsi. Non è così?
SORDI: Sì, proprio così. Ma Silio Italico fa addirittura morire sulla croce, diversamente da tutti gli scrittori precedenti, Attilio Regolo, l’eroe della fides romana (Pun. II, 343 e 435/C). In questo modo la croce stessa da supplizio ignominioso finisce per essere considerata un segno di vittoria sugli aguzzini e sulla Fortuna, e perde il suo carattere infamante a causa della nobiltà di colui che la subisce. L’altro episodio riguarda un servo del re iberico Tago, crocifisso da Asdrubale (Pun. I, 151): il servo vendica il suo padrone e dopo aver sopportato con fortezza la tortura, chiede la pena stessa del suo signore: «Dominique crucem clamore reposcit» (Pun. II, 181), «richiede ad alta voce la croce del suo signore». Sono quasi le identiche parole che nei racconti apocrifi della passione di san Pietro vengono attribuite all’apostolo.
Ancora Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato alcuni mesi fa sulla Rivista di storia della Chiesa in Italia 1998, analizza la tragedia Hercules Oetaeus attribuita a Seneca ma risalente probabilmente ad uno stoico (certamente pagano) dell’età Flavia e mostra come il mito di Ercole sia stato rimodellato dall’autore con chiari riferimenti alla passione e alla resurrezione di Cristo. La madre è presente sul luogo della passione, il protagonista morente esclama «peractum est», «tutto è compiuto», Ercole prima di spirare invoca il padre, e la madre afferma la sua fede nel risorto.
Gli stoici romani del I secolo dopo Cristo, che subirono negli stessi anni dei cristiani le persecuzioni di Nerone e Domiziano, conobbero dunque e guardarono con simpatia i seguaci di Cristo. Questo spiega sia la simpatia che, a loro volta, scrittori cristiani del II secolo, come Giustino martire e Clemente di Alessandria, ebbero per questi stoici (penso soprattutto a Musonio Rufo, che Giustino chiama «martire inconsapevole di Cristo»), sia gli echi di cristianesimo che si ritrovano nelle loro opere. E spiega anche il concetto paolino di carne presente in Persio e certe espressioni rivelatrici usate da Seneca.
Corteo imperiale, particolare del bassorilievo dell’Ara Pacis Augustae, a Roma
Per saperne di più su queste nuove ipotesi siamo andati ad incontrare la professoressa Marta Sordi, direttore dell’Istituto di storia antica dell’Università Cattolica di Milano, una delle massime esperte del cristianesimo dei primi secoli.
Professoressa, cosa emerge da questi nuovi studi?
MARTA SORDI: Si è spesso sostenuto che il cristianesimo a Roma è stato conosciuto tardi. Secondo l’interpretazione più diffusa di un passo di Svetonio lo stesso imperatore Claudio non aveva nemmeno capito che Gesù era morto in Palestina, ma credeva che fosse presente a Roma. Nel I secolo, insomma, secondo le interpretazioni correnti, nel cuore dell’Impero romano si aveva una concezione vaga, confusa di cosa fosse il cristianesimo. Quello che invece sta emergendo, e che rompe gli schemi prestabiliti, è che non solo già nel I secolo il cristianesimo era conosciuto a Roma da molti, anche intellettuali e appartenenti ai circoli imperiali, ma era visto, almeno in certi ambienti, con simpatia e ammirazione.
Da cosa nasce questo proliferare di scoperte sulla presenza dei cristiani a Roma nel I secolo?
SORDI: A metterle in moto è stata l’identificazione, accettata da alcuni e respinta da altri, di un frammento, il 7Q5, scoperto nelle Grotte di Qumrân in Palestina, con un passo del Vangelo di Marco. Il frammento è databile a prima del 50 d.C. e proviene probabilmente da Roma. Questa identificazione è servita, sia pure soltanto come ipotesi di lavoro, a stimolare la ricerca storiografica. Ha permesso cioè di riesaminare la validità di testimonianze che l’ipercritica nata nell’Ottocento, putroppo ancora attiva oggi quando si tratta di notizie riguardanti il cristianesimo delle origini, aveva accantonato.
Essa conferma, innanzitutto, la notizia che Pietro era venuto a Roma nel 42 d.C., all’inizio del regno di Claudio, e che il Vangelo di Marco era la stesura della sua predicazione fatta dallo stesso Marco su richiesta dei Romani, soprattutto cavalieri e cesariani (i liberti imperiali), che lo avevano ascoltato.
Che testimonianze storiche ci sono della presenza di Pietro a Roma e dell’esistenza di una comunità cristiana nel cuore dell’Impero già negli anni 40 del I secolo?
SORDI: Il fatto che Pietro fosse a Roma in quegli anni è attestato da Clemente di Alessandria e da Papia di Gerapoli, ambedue del II secolo dopo Cristo, e si accorda perfettamente con la conversione, avvenuta nell’anno 42/43 d.C. e raccontata da Tacito nei suoi Annales, a una «superstitio externa» (che è certamente il cristianesimo) della matrona romana Pomponia Grecina, moglie di un generale di Claudio e appartenente a una famiglia vicinissima alla corte imperiale. Paolo nel capitolo 16 della Lettera ai Romani parla poi della presenza di cristiani nella casa di Narcisso, liberto e ministro di Claudio, che era appunto un cesariano. Luca dedica a un cavaliere romano il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Tertulliano parla di un tentativo di Tiberio di riconoscere il cristianesimo già nel 35 d.C. e Giuseppe Flavio ci rivela che subito dopo, nel 36/37 d.C., il legato di Tiberio, Vitellio, a Gerusalemme depose Caifa dal sommo sacerdozio. Lo stesso Vitellio, nel 43 d.C., venne lasciato a Roma da Claudio con pieni poteri durante la spedizione dell’imperatore in Britannia ed era il responsabile del governo al tempo della venuta di Pietro.
Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, Tabernacolo dei linaioli,
Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze
E cosa avete scoperto?
SORDI: La dottoressa Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato su Aevum 1996, ha dimostrato – e io credo con buoni argomenti – che Petronio, nel suo famoso Satyricon scritto nel 64/65 d.C., conosceva e parodiava il racconto di Marco sull’unzione di Betania. Io stessa e il collega Erhard Grzybek, dell’Università di Ginevra, abbiamo sostenuto alcuni mesi fa su una rivista tedesca (Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 1998) che il cosiddetto Editto di Nazareth è di Nerone e cerca di colpire i discepoli di Cristo ancora viventi in Giudea, accettando la versione giudaica sul sepolcro vuoto riferita da Matteo alla fine del suo Vangelo. Petronio stesso, nella sua novella sulla matrona di Efeso, mostra di conoscere il racconto evangelico e di volerne fare, come nel caso precedente, la parodia.
Da questi vostri studi emerge che il cristianesimo, per quanto ben conosciuto, provocò negli ambienti della cultura e del potere romani solo irrisioni e persecuzioni.
SORDI: Non unicamente. Se la conoscenza che del cristianesimo hanno Nerone e Petronio denota ostilità e irrisione, ci sono altre testimonianze, provenienti soprattutto dall’ambiente dell’opposizione stoica a Nerone e Domiziano, che rivelano invece ammirazione e simpatia. Un’iscrizione di Ostia del I secolo, pubblicata in CIL XIV, 566, prova che esistevano effettivamente cristiani, devoti a Pietro e a Paolo, nella casa di Seneca, e la stessa Ramelli, in un articolo comparso su Vetera Christianorum 1997, avanza l’ipotesi che l’epistolario fra Seneca e Paolo, tolta la lettera dell’incendio del 64 d.C. che Girolamo non conosceva e che si rivela un’aggiunta più tarda, potrebbe essere autentico. Laura Cotta Ramosino poi, in un articolo che sta per essere pubblicato su Aevum 1999, mette in evidenza come il poeta Silio Italico – che scriveva sotto i Flavi ma che aveva rivestito il consolato sotto Nerone nel 68 d.C. – nel suo poema epico, Punica, rinnova la tradizione letteraria introducendo in due casi il supplizio della croce con un significato del tutto diverso da quello tradizionale.
La morte in croce era considerata dai Romani un supplizio infamante, di cui vergognarsi. Non è così?
SORDI: Sì, proprio così. Ma Silio Italico fa addirittura morire sulla croce, diversamente da tutti gli scrittori precedenti, Attilio Regolo, l’eroe della fides romana (Pun. II, 343 e 435/C). In questo modo la croce stessa da supplizio ignominioso finisce per essere considerata un segno di vittoria sugli aguzzini e sulla Fortuna, e perde il suo carattere infamante a causa della nobiltà di colui che la subisce. L’altro episodio riguarda un servo del re iberico Tago, crocifisso da Asdrubale (Pun. I, 151): il servo vendica il suo padrone e dopo aver sopportato con fortezza la tortura, chiede la pena stessa del suo signore: «Dominique crucem clamore reposcit» (Pun. II, 181), «richiede ad alta voce la croce del suo signore». Sono quasi le identiche parole che nei racconti apocrifi della passione di san Pietro vengono attribuite all’apostolo.
Ancora Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato alcuni mesi fa sulla Rivista di storia della Chiesa in Italia 1998, analizza la tragedia Hercules Oetaeus attribuita a Seneca ma risalente probabilmente ad uno stoico (certamente pagano) dell’età Flavia e mostra come il mito di Ercole sia stato rimodellato dall’autore con chiari riferimenti alla passione e alla resurrezione di Cristo. La madre è presente sul luogo della passione, il protagonista morente esclama «peractum est», «tutto è compiuto», Ercole prima di spirare invoca il padre, e la madre afferma la sua fede nel risorto.
Gli stoici romani del I secolo dopo Cristo, che subirono negli stessi anni dei cristiani le persecuzioni di Nerone e Domiziano, conobbero dunque e guardarono con simpatia i seguaci di Cristo. Questo spiega sia la simpatia che, a loro volta, scrittori cristiani del II secolo, come Giustino martire e Clemente di Alessandria, ebbero per questi stoici (penso soprattutto a Musonio Rufo, che Giustino chiama «martire inconsapevole di Cristo»), sia gli echi di cristianesimo che si ritrovano nelle loro opere. E spiega anche il concetto paolino di carne presente in Persio e certe espressioni rivelatrici usate da Seneca.
sabato, settembre 24, 2016
An Incarnate Economy
We need to consume things in order to live. The reason why the act of consumption, even though necessary, gets a bad reputation is due to its being hitched onto the wagon of consumerist ideology. It is an ideology where consumption, rather than being a means to an end, becomes an end in itself.
But consume we must and discussions of a distributist economy—in the same way that it must not lose sight of the necessity of private property ownership, even as it is to be distributed widely—must not lose sight of the necessity of consumption, even as a means to an end. The question to be asked is, how might consumption might be corrected in a distributist economics, in the same way that Distributism corrects the capitalist tendency to concentrate private property into the hands of a few?
The suggestion here is that the corrective in distributist economics might be found in the resources of the Catholicism embraced by the early pillars of distributist economics, such as Chesterton and Hilaire Belloc. More specifically, it is suggested that Christian dogma of the Incarnation, far from being merely a “religious” doctrine, also has something to say about the realm of things. Even more specifically, the Incarnation is what anchors an affirmation of the realm of things, a healthy materialism that is in stark contrast to the pseudo-materialism of consumer capitalism.
First, it is necessary to explain the notion that consumer capitalism is only pseudo-materialistic. After all, we are so used to calling the culture we live in, which drips with the artifacts of consumer-capitalism, materialistic. Our malls and screens are flooded with sales pitches to acquire yet another mug, car, shirt or ticket that we do not need, calling our attention to the framed image put before us as the gateway to our happiness. It almost seems that we are being called to form attachments to the material thing being presented, making the prefix of “pseudo” somewhat curious.
This prefix, however, may not be so out of place when one understands everyday conceptions of materialism to mean an obsessive attachment to any particular thing, which is borne out of a desire for that particular thing. Thus, it becomes important to highlight materialism to be a matrix of desire, attachment and things. In his book Being Consumed, DePaul University’s William Cavanaugh argues that such an attachment cannot work when consumerism becomes an end in itself, since the acquisition of the thing would fulfill the desire for that thing, and thus ending the acquisitive desire. In consumer capitalism, profit maximisation only works if desire is kept alive, and not stopped short when that desire is completed. This can only work, Cavanaugh says, if desire is not a-ttached to things, but rather de-tached from them. In Cavanaugh’s words, consumer capitalism is one where “our relationship with products tend to be short-lived”.(35) Rather than a materialism where desires are satisfied by material goods, consumers under consumer capitalism are “characterised by a constant dissatisfaction with material goods” (35). Desire is thus not fulfilled but “temporarily halted” and there is generated a hope the next purchase will calm the storm of desire. Thus, “consumerism is not so much about having more as it is about having something else” (35). When consumerism becomes an end in itself, desire is moved from the desire of concrete things, and becomes abstracted to a desire for desire itself.
This abstraction of desire is not just in the realm of shopping, but also in the realm of finance, especially in investment flows which are the lifeblood of supply-side economic regimes. The use of the term “blood” to describe money is apt, for investment flows are pure liquidity that do not bind to any particular thing being invested in. The University of Nottingham’s Philip Goodchild, who wrote the highly compelling Theology of Money, suggests as much. “Money”, he says, “holds liquidity in virtue of its capacity to circulate through all markets”, connecting the “network of markets” and committing to none (154); moving only where profit may be abstracted from the assets investing in and siphoning out of local economies whatever surplus is generated, resulting in an overall drain on any local economy of material wealth or vitality. This effect is exacerbated further, Goodchild reminds us, as financial circuits get tighter and tighter with increasing concentrations of liquid wealth into fewer and fewer hands.
If consumerism is an end in itself and is oriented towards the detachment from things and the abstraction of value from things, the economy that is produced can be said to be Gnostic, insofar as Gnosticism treats the material as a shackle that one must be liberated from. It is also Gnostic insofar as it insists that it is only a select few that are worthy to benefit from this abstraction from the material, and it is Gnostic insofar as it is a repudiation of any goodness of the material realm in and of itself (for goodness can only be measured by the generation of surplus in an economy of consumption as an end).
By contrast, the Doctrine of the Incarnation stands as a bulwark against the vampiric effects of abstraction and, contra the Gnostics, it does so in its affirmation of particular things as good. However, the Incarnation goes further than just furnish a vague endorsement of the goodness of “stuff”. The Incarnation affirms that, in the particular of human matter, lies the universality of the divine. Every movement of that human body— every step, touch, gesture—expresses in full the movements of the life within the godhead. The reality the godhead expresses—and the salvation the godhead brings—is therefore not to be found by unplugging oneself from the world of things, but is precisely within the world of things. These visible signs of invisible realities are what Catholicism calls “sacraments”.
Where sacramentality might translate into the realm of the economic is in the treatment of commodities. The Gnostic economy enjoins an exploitative, non-committal relationship with things as disposable vehicles of an ephemeral thrill, for when what matters is the thrill, things are usually glossed over. By contrast, the Incarnate, sacramental economy, in affirming the ability of things to relay something truly eternal and even mysterious, should enjoin a commitment to the realm of things as they slowly unveil to us glimmers of the transcendent. This slow unveiling of mystery in the realm of things can challenge the throwaway culture upon which consumerism thrives. This commitment to the world of things should also lead to a change of the terms of our interaction with the things we consume. We may always need to consume in order to live, but an incarnate economics can potentially alter the way we think about what life is about. Rather than doing so to lead a life of thrill seeking, we can engage our commodities as gateways through which one can lead a life searching for a deeper, lasting joy.
Moreover, because it is the human body that communicates divine realities, an incarnate economics will implicate our relationship not only with the consumed, but also the body that does the consuming. Because we are not persons that happen to have bodies, but are persons because we have bodies, our solicitude should also extend to the welfare of the persons implicated in every pattern of consumption, which also means the persons implicated in the patterns of production. The doctrine of the Incarnation is not incidental to distributist economic practice, but is central to personalism around which patterns of economics, production, financing and consumption are grounded.
The post An Incarnate Economy appeared first on The Distributist Review.
But consume we must and discussions of a distributist economy—in the same way that it must not lose sight of the necessity of private property ownership, even as it is to be distributed widely—must not lose sight of the necessity of consumption, even as a means to an end. The question to be asked is, how might consumption might be corrected in a distributist economics, in the same way that Distributism corrects the capitalist tendency to concentrate private property into the hands of a few?
The suggestion here is that the corrective in distributist economics might be found in the resources of the Catholicism embraced by the early pillars of distributist economics, such as Chesterton and Hilaire Belloc. More specifically, it is suggested that Christian dogma of the Incarnation, far from being merely a “religious” doctrine, also has something to say about the realm of things. Even more specifically, the Incarnation is what anchors an affirmation of the realm of things, a healthy materialism that is in stark contrast to the pseudo-materialism of consumer capitalism.
First, it is necessary to explain the notion that consumer capitalism is only pseudo-materialistic. After all, we are so used to calling the culture we live in, which drips with the artifacts of consumer-capitalism, materialistic. Our malls and screens are flooded with sales pitches to acquire yet another mug, car, shirt or ticket that we do not need, calling our attention to the framed image put before us as the gateway to our happiness. It almost seems that we are being called to form attachments to the material thing being presented, making the prefix of “pseudo” somewhat curious.
This prefix, however, may not be so out of place when one understands everyday conceptions of materialism to mean an obsessive attachment to any particular thing, which is borne out of a desire for that particular thing. Thus, it becomes important to highlight materialism to be a matrix of desire, attachment and things. In his book Being Consumed, DePaul University’s William Cavanaugh argues that such an attachment cannot work when consumerism becomes an end in itself, since the acquisition of the thing would fulfill the desire for that thing, and thus ending the acquisitive desire. In consumer capitalism, profit maximisation only works if desire is kept alive, and not stopped short when that desire is completed. This can only work, Cavanaugh says, if desire is not a-ttached to things, but rather de-tached from them. In Cavanaugh’s words, consumer capitalism is one where “our relationship with products tend to be short-lived”.(35) Rather than a materialism where desires are satisfied by material goods, consumers under consumer capitalism are “characterised by a constant dissatisfaction with material goods” (35). Desire is thus not fulfilled but “temporarily halted” and there is generated a hope the next purchase will calm the storm of desire. Thus, “consumerism is not so much about having more as it is about having something else” (35). When consumerism becomes an end in itself, desire is moved from the desire of concrete things, and becomes abstracted to a desire for desire itself.
This abstraction of desire is not just in the realm of shopping, but also in the realm of finance, especially in investment flows which are the lifeblood of supply-side economic regimes. The use of the term “blood” to describe money is apt, for investment flows are pure liquidity that do not bind to any particular thing being invested in. The University of Nottingham’s Philip Goodchild, who wrote the highly compelling Theology of Money, suggests as much. “Money”, he says, “holds liquidity in virtue of its capacity to circulate through all markets”, connecting the “network of markets” and committing to none (154); moving only where profit may be abstracted from the assets investing in and siphoning out of local economies whatever surplus is generated, resulting in an overall drain on any local economy of material wealth or vitality. This effect is exacerbated further, Goodchild reminds us, as financial circuits get tighter and tighter with increasing concentrations of liquid wealth into fewer and fewer hands.
If consumerism is an end in itself and is oriented towards the detachment from things and the abstraction of value from things, the economy that is produced can be said to be Gnostic, insofar as Gnosticism treats the material as a shackle that one must be liberated from. It is also Gnostic insofar as it insists that it is only a select few that are worthy to benefit from this abstraction from the material, and it is Gnostic insofar as it is a repudiation of any goodness of the material realm in and of itself (for goodness can only be measured by the generation of surplus in an economy of consumption as an end).
By contrast, the Doctrine of the Incarnation stands as a bulwark against the vampiric effects of abstraction and, contra the Gnostics, it does so in its affirmation of particular things as good. However, the Incarnation goes further than just furnish a vague endorsement of the goodness of “stuff”. The Incarnation affirms that, in the particular of human matter, lies the universality of the divine. Every movement of that human body— every step, touch, gesture—expresses in full the movements of the life within the godhead. The reality the godhead expresses—and the salvation the godhead brings—is therefore not to be found by unplugging oneself from the world of things, but is precisely within the world of things. These visible signs of invisible realities are what Catholicism calls “sacraments”.
Where sacramentality might translate into the realm of the economic is in the treatment of commodities. The Gnostic economy enjoins an exploitative, non-committal relationship with things as disposable vehicles of an ephemeral thrill, for when what matters is the thrill, things are usually glossed over. By contrast, the Incarnate, sacramental economy, in affirming the ability of things to relay something truly eternal and even mysterious, should enjoin a commitment to the realm of things as they slowly unveil to us glimmers of the transcendent. This slow unveiling of mystery in the realm of things can challenge the throwaway culture upon which consumerism thrives. This commitment to the world of things should also lead to a change of the terms of our interaction with the things we consume. We may always need to consume in order to live, but an incarnate economics can potentially alter the way we think about what life is about. Rather than doing so to lead a life of thrill seeking, we can engage our commodities as gateways through which one can lead a life searching for a deeper, lasting joy.
Moreover, because it is the human body that communicates divine realities, an incarnate economics will implicate our relationship not only with the consumed, but also the body that does the consuming. Because we are not persons that happen to have bodies, but are persons because we have bodies, our solicitude should also extend to the welfare of the persons implicated in every pattern of consumption, which also means the persons implicated in the patterns of production. The doctrine of the Incarnation is not incidental to distributist economic practice, but is central to personalism around which patterns of economics, production, financing and consumption are grounded.
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venerdì, settembre 23, 2016
Così la Manif francese perde il suo ruolo
di Emiliano Fumaneri
Chiunque abbia a cuore la lotta contro i falsi miti del progresso farà bene a tenere sempre lo sguardo puntato in direzione della Francia, l’antica “figlia primogenita” della Chiesa. L’esperienza insegna: è nella «Grande Nazione», il paese più simile al nostro per storia, cultura e organizzazione statale, che spesso trovano anticipo tendenze e orientamenti destinati, presto o tardi, a riprodursi anche in Italia.
È dalla Francia infatti che si è originato nel 2013 un vasto moto di protesta contro la legge Taubira, la norma sul «mariage pour tous» che introduceva le nozze gay in Francia. Sono nate così forme di resistenza pacifica come i Veilleurs Debout (VD) e la Manif Pour Tous (MPT) che hanno portato in piazza milioni di francesi contro la rivoluzione arcobaleno imposta dal governo socialista di Hollande.
Sono i modelli a cui si sono ispirati, anche per l’Italia, le Sentinelle in Piedi, l’omonima Manif Pour Tous e, last but not least, i due grandi Family Day di Piazza San Giovanni e del Circo Massimo organizzati dal Comitato Difendiamo i nostri figli.
Non sarà inutile allora rifarsi ancora all’esempio francese e ripercorre le ultime tappe e gli sviluppi della Manif Pour Tous francese, trasformatasi in partito politico nell’aprile del 2015.
Anzitutto occorre aver presente il quadro politico. Il prossimo anno (23 aprile per il primo turno) in Francia sono previste le elezioni presidenziali. Per tentare di far rientrare i temi della famiglia, della vita e dell’educazione nel dibattito presidenziale, la Manif Pour Tous ha convocato un’altra grande manifestazione a Parigi. La data della mobilitazione è stata fissata al 16 ottobre, sei mesi prima delle elezioni per la presidenza della Repubblica.Lo scenario politico francese, naturalmente, è in forte subbuglio in vista di questo grande appuntamento: lo scialbo François Hollande sta cercando di ricompattare il campo della sinistra – condizione imprescindibile per poter sperare in una rielezione – dando nuovo impulso all’offensiva contro la famiglia. Sono riapparsi così i disegni di legge frenati dalla resistenza popolare del 2014: la legalizzazione della PMA «senza padre», l’adozione per le unioni civili (le coppie unite dal Pacs, col rischio di legittimare l’utero in affitto), la richiesta di statuto per i genitori acquisiti, la legge sulla famiglia del ministro Dominique Bertinotti (che prevedeva, tra le altre cose, di estendere il diritto alla procreazione assistita alle coppie di donne omosessuali).La Manif non rimane a guardare e appare più che mai intenzionata a ritornare in piazza. Allo stesso tempo, per bocca della presidente Ludovine de La Rochère, MPT ha ribadito la sua vocazione originaria che rimane quella di un movimento di lobbying autonomo e indipendente da ogni partito politico, solo decisore della propria strategia e delle proprie azioni. Per questo la Manif rifiuta di entrare in campagna elettorale a sostegno di questo o quel candidato e continua a rivolgersi a tutti i candidati, quali che siano le loro etichette di partito. In compenso MPT indica nel dettaglio ai propri simpatizzanti le posizioni di ciascun candidato su matrimonio, filiazione, famiglia e educazione stabilite sulla base delle loro dichiarazioni pubbliche.
Continua qui.
Chiunque abbia a cuore la lotta contro i falsi miti del progresso farà bene a tenere sempre lo sguardo puntato in direzione della Francia, l’antica “figlia primogenita” della Chiesa. L’esperienza insegna: è nella «Grande Nazione», il paese più simile al nostro per storia, cultura e organizzazione statale, che spesso trovano anticipo tendenze e orientamenti destinati, presto o tardi, a riprodursi anche in Italia.
È dalla Francia infatti che si è originato nel 2013 un vasto moto di protesta contro la legge Taubira, la norma sul «mariage pour tous» che introduceva le nozze gay in Francia. Sono nate così forme di resistenza pacifica come i Veilleurs Debout (VD) e la Manif Pour Tous (MPT) che hanno portato in piazza milioni di francesi contro la rivoluzione arcobaleno imposta dal governo socialista di Hollande.
Sono i modelli a cui si sono ispirati, anche per l’Italia, le Sentinelle in Piedi, l’omonima Manif Pour Tous e, last but not least, i due grandi Family Day di Piazza San Giovanni e del Circo Massimo organizzati dal Comitato Difendiamo i nostri figli.
Non sarà inutile allora rifarsi ancora all’esempio francese e ripercorre le ultime tappe e gli sviluppi della Manif Pour Tous francese, trasformatasi in partito politico nell’aprile del 2015.
Anzitutto occorre aver presente il quadro politico. Il prossimo anno (23 aprile per il primo turno) in Francia sono previste le elezioni presidenziali. Per tentare di far rientrare i temi della famiglia, della vita e dell’educazione nel dibattito presidenziale, la Manif Pour Tous ha convocato un’altra grande manifestazione a Parigi. La data della mobilitazione è stata fissata al 16 ottobre, sei mesi prima delle elezioni per la presidenza della Repubblica.Lo scenario politico francese, naturalmente, è in forte subbuglio in vista di questo grande appuntamento: lo scialbo François Hollande sta cercando di ricompattare il campo della sinistra – condizione imprescindibile per poter sperare in una rielezione – dando nuovo impulso all’offensiva contro la famiglia. Sono riapparsi così i disegni di legge frenati dalla resistenza popolare del 2014: la legalizzazione della PMA «senza padre», l’adozione per le unioni civili (le coppie unite dal Pacs, col rischio di legittimare l’utero in affitto), la richiesta di statuto per i genitori acquisiti, la legge sulla famiglia del ministro Dominique Bertinotti (che prevedeva, tra le altre cose, di estendere il diritto alla procreazione assistita alle coppie di donne omosessuali).La Manif non rimane a guardare e appare più che mai intenzionata a ritornare in piazza. Allo stesso tempo, per bocca della presidente Ludovine de La Rochère, MPT ha ribadito la sua vocazione originaria che rimane quella di un movimento di lobbying autonomo e indipendente da ogni partito politico, solo decisore della propria strategia e delle proprie azioni. Per questo la Manif rifiuta di entrare in campagna elettorale a sostegno di questo o quel candidato e continua a rivolgersi a tutti i candidati, quali che siano le loro etichette di partito. In compenso MPT indica nel dettaglio ai propri simpatizzanti le posizioni di ciascun candidato su matrimonio, filiazione, famiglia e educazione stabilite sulla base delle loro dichiarazioni pubbliche.
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giovedì, settembre 22, 2016
Cosa mi salvò quando morì mia figlia. E dopo
di Fiammetta Portinari per La Croce quotidiano
Il fatto di cronaca recente riguardante l’eutanasia applicata ad un diciassettenne belga ha sollevato un ampio dibattito e questo è doveroso, perché il tema è scottante, critico, cruciale direi. C’è chi ha fatto discorsi generali sulla perdita di umanità di una società che preferisce suggerire la morte rapida ai suoi malati sofferenti piuttosto che occuparsi di curare e lenire il loro dolore. C’è chi ha esaltato la ricchezza che il malato costituisce per chi gli sta accanto, magari raccontando la propria toccante e tragica esperienza.
Dall’altra parte, il solito trito e ritrito argomento: ma chi sei tu per giudicare. Non si può giudicare il dolore di un malato, la sua disperazione o la sua determinazione ad andarsene. Non si può giudicare il dramma dei genitori di un minore terminale e il loro desiderio di porre fine alle sue sofferenze. Ciascuno ha il diritto di decidere per sé e arrangiarsi nella propria sofferenza come meglio crede. In questo dibattito tra sordi, mi inserisco io, con il racconto umile e scalcagnato della mia esperienza.
Io ho accompagnato una figlia al cimitero, dopo esserle stata accanto nel peregrinare ospedaliero, tra interventi, ricoveri e visite. Avevo a casa altre due creature, avevo un lavoro, avevo una vita perfetta prima che mi capitasse tra capo e collo questa disgrazia. Quello che non avevo era una fede decente a sostegno, quindi ero esattamente come la maggioranza delle persone: sola, dispersa e seccata.
La mia bambina aveva bisogno della mia presenza, delle mie cure, del mio amore. E a me costava tanto sacrificare tutto il mio tempo restando seduta su una sedia di fianco ad un letto in ospedale, parlando coi medici, assistendo alle cure inevitabilmente anche un po’ tortura. Non c’era nessuna poesia nel suo pianto flebile e nel mio cuore sfranto, non c’era nessuna aulica benedizione celeste in quella sofferenza innocente e nella mia stizzita impotenza, non c’era niente da imparare dall’incedere lento e inesorabile delle lancette tra un giro visita e l’altro. Io avrei mollato, se avessi potuto. Ma una via di fuga non c’era, semplicemente mettevo un piede davanti all’altro e da mattina si faceva sera, da sera si faceva mattina. Poi mia figlia peggiorò, il destino incedeva più svelto.
All’ultimo arrivo al pronto soccorso i medici mi dissero: «Signora, sua figlia è in pericolo di vita» e restarono allibiti dalla mia faccia impassibile. Ma quello era un lutto che io avevo già elaborato, loro che ne sapevano del futuro che non mi era stato concesso di immaginare? Che ne sapevano delle percentuali di sopravvivenza che ad ogni visita si assottigliavano? Che ne sapevano dei pianti stanchi sul tavolino dell’ospedale, davanti ad un piatto di patate lesse, mentre guardi la flebo scendere lentamente? Poi l’ultima notte in terapia intensiva, di fianco a quel corpicino sofferente che lottava, mentre io cadevo dal sonno, afflosciata sulla poltrona a lato del letto.
Mi ha svegliato di soprassalto il fischio del monitor: cuore fermo. Veloci medico e infermieri mi hanno invitato a uscire, mentre praticavano l’ultimo disperato e inutile tentativo di rianimazione. Venti minuti. Fuori. Vuota. Per la prima volta ho pregato, una preghiera assai poco nobile: Signore, falla morire, oppure fa morire me, che è lo stesso. E intanto guardavo a che piano eravamo, caso mai fosse servito fare un volo. Non servì, perché il medico uscì affranto per annunciarmi che era morta. Io allora piansi, perché non stava bene non piangere. Poi piansi perché mi sentii in colpa, come se l’avessi ammazzata io. Poi piansi perché mi sentivo inutile, perché non avevo più nessuno di cui prendermi cura con tanta assiduità. Poi piansi perché non riuscivo a dare un senso a tutta questa vicenda, un cumulo assurdo di dolore insensato, senza lieto fine. Piansi per giorni e giorni. Poi smisi di piangere e tentai il suicidio.
Per dire che il dolore più grosso mi cadde addosso dopo, quando in teoria tutto doveva lentamente e mestamente evaporare in una luccicante e commovente nuvola di ricordo. E invece no, il dolore era rovente per aver amato poco e male: pur non essendo un’aggravante in senso medico, era senz’altro per me concausa della morte di mia figlia, del suo arrendersi e cedere, alla fine, all’affanno di un cuore malato. In questa storia non avete notato che manca qualcosa? Manca il punto di vista del malato, manca lei, la mia piccolina occhi grandi. Lei che sentiva la mia voce dal corridoio ed esultava nella culla, lei che smetteva di piangere quando la prendevo in braccio, anche se l’ago continuava a perforarle il piede; lei che una volta rise, con un’espressione beata come io non ne avevo mai vista sul volto di nessuno, guardando dietro le mie spalle, guardando chissà chi che io non vedevo, e poi si addormentò come in paradiso. Lei non ci pensava proprio a morire, ma se io avessi pianto di continuo, se io fossi crollata sul pavimento tutti i giorni, certo avrebbe lottato di meno.
Tra un figlio malato e i suoi genitori esiste un legame che va al di là dell’affetto, è un debito di vita, un parassitismo esistenziale reciproco, una simbiosi. Il primo che cede, tira giù tutto, tira giù tutti. E non è un bel cadere. Nel dolore che a volte, maledetto e farabutto, attanaglia una famiglia colpendo il suo membro più piccolo e fragile, non c’è nessuna nobiltà e nemmeno nessuna colpa: capita e basta ed è uno schifo. Ma non ci sono scorciatoie, non ci sono vie facili per uscirne sani, ogni strada è una strettoia spinosa, ogni cura è un calvario, ogni scelta alternativa un grado di giudizio spietato, ogni esame un verdetto. Di queste storie dal finale già certo importa drammaticamente tratteggiare il “come” molto più che il “quando”, perché il figlio malato smetterà di patire ma i genitori no, essi resteranno a far da memoriale ad ogni lacrima versata e ripercorreranno ogni attimo in cerca del sollievo che solo una coscienza retta può dare.
Nella storia di mia figlia non trovo uno spazio per infilare l’eutanasia, è una possibilità che non mi è mancata. Ma se ci fosse stata e i medici mi avessero parlato di lenire sofferenze (le sue, per intendere poi le mie), forse l’avrei presa in considerazione, nel grigiore squallido dell’ospedale, nell’odore insistente di disinfettante, nella stanchezza di una situazione poco sostenibile. Però sinceramente avrei gradito di più un letto accanto alla culla di mia figlia, invece che una poltrona, e magari un pasto decente al posto di riso e patate lesse tutti i giorni. Anche uno psicologo che ti dice “ce la puoi fare” invece di uno che ti prospetta quanto sarebbe bello se tua figlia morisse subito, avrebbe sortito qualche effetto positivo. Per dire che non è vero un fico secco che ciascuno è libero di scegliere: in quei momenti non sei libero, sei distrutto, fragile, bisognoso di tutto, sopra ogni cosa affamato di umanità e conforto.
Agli avvoltoi sciacalli travestiti da angeli della morte che si fanno vicino con espressione accorata per dirti che, se vuoi, può finire tutto con un’iniezione, bisognerebbe far provare la disperazione cieca e incolmabile che divora il cuore di un genitore placcato da un senso di colpa irrazionale e immotivato, figuriamoci poi se ha firmato il modulo che decreta la morte del figlio! E in ultimo, io sono ancora viva solo grazie a Dio, che si è fatto straordinariamente vicino e si è portato via tutto il mio dolore. Non il tempo, non l’auto convincimento che va bene così. Dio. E per un genitore senza Dio che ammazza il figlio sofferente è garantito l’inferno in terra. Di là, non so.
mercoledì, settembre 21, 2016
«Le scuole e i saggi più ermetici non hanno mai avuto la gravità che alberga negli occhi di un neonato di tre mesi. La sua è la gravità dello stupore di fronte all’universo, e questo stupore non è misticismo, bensì buonsenso trascendente. Il fascino dei bambini sta nel fatto che con ognuno di loro tutte le cose vengono rifatte, e l’universo rimesso alla prova. Quando camminiamo per strada e sotto di noi vediamo le deliziose teste bulbose di questi funghi umani, il triplo delle dimensioni che dovrebbero avere in proporzione al loro corpo, dovremmo sempre ricordarci innanzitutto che ognuna di quelle sfere contiene un universo nuovo fiammante, nuovo quanto era nuovo il mondo il settimo giorno della creazione. In ognuna c’è un nuovo sistema di stelle, nuova erba, nuove città, un nuovo mare»
(G.K. Chesterton, L’imputato).
domenica, settembre 18, 2016
I libri da consigliare a Di Maio e Di Battista
Pinochet: chi era costui? Un dittatore. E dove esercitava il suo onesto mestiere? In Cile. Ma Di Maio lo piazza in Venezuela. Con uno svarione memorabile, come neanche i nostri compagni di scuola hanno saputo regalarci ai tempi belli.
C’è poco da scherzare: se studi da premier, conviene che ti fai una cultura. Magari insieme all’altro aspirante del Movimento Cinquestelle, Di Battista, che ti ha già preceduto da lunga pezza sulla strada delle gaffe. E dei congiuntivi sbagliati.
Si potrebbe cominciare dal giardinaggio, occuparsi della chimica per passare poi all’archeologia. Forse non è il percorso più lineare, ma è quello che seguono quei brav’uomini di Bouvard e Pécuchet, gli eroi involontari dell’ultimo, incompiuto romanzo di Flaubert. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista potrebbero seguirne le orme: magari senza ritirarsi in campagna come loro, perché la carriera politica dei due leader ne risentirebbe, ma con la stessa voracità enciclopedica. Le cose da sapere, infatti, sono tante. Nel frattempo, potrebbe venire loro incontro il dizionario dei luoghi comuni che sempre Flaubert sognava di completare: molto utile per far conversazione in società, tenendosi appunto a quel sano buon senso che insegna le cose che bisogna dire per ben figurare. Come per esempio che il machiavellismo è da esecrare, che Darwin era quello che diceva che gli uomini discendono dalle scimmie e che il filosofo Diderot va citato sempre in coppia con D’Alembert. Cose così, magari appena più aggiornate: coi nomi propri al posto giusto ma sempre nei pressi della familiare banalità quotidiana.
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giovedì, settembre 15, 2016
La ciencia «moderna» nació... en la Edad Media católica, dijo el físico Pierre Duhem: y lo pagó caro
Este miércoles se cumplió el centenario de la muerte de Pierre Duhem (1861-1916), célebre físico francés de arraigada fe católica y por eso marginado en la Francia de la laicista Tercera República. Es autor de La teoría física, una obra capital en la filosofía de la ciencia.
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mercoledì, settembre 07, 2016
Artist Turns Pokémon Into Humans (15+ pics)
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domenica, settembre 04, 2016
sabato, settembre 03, 2016
God and reason
a review of Meister Eckhart: Philosopher of Christianity, by Kurt Flasch, Yale University Press, 344 pp, £25, ISBN: 978-0300204865
a review of Meister Eckhart: Philosopher of Christianity, by Kurt Flasch, Yale University Press, 344 pp, £25, ISBN: 978-0300204865
In traditional accounts of the history of philosophy, Meister Eckhart has usually been presented as a mystic. In opposition to more intellectual schools of the Middle Ages, he was often portrayed as the promoter of an anti-scholastic approach privileging religious experience or as the defender of negative theology, according to which the only meaningful discourse about God is about what He is not.
In this work, Kurt Flasch aims at rebutting what he believes to be misleading interpretations of Eckhart: “There is nothing authentic about the label ‘mystic’ in Eckhart’s case.” Flasch proposes instead to consider him a “philosopher of Christianity”, that is someone who explains Christian beliefs through pure reason.
Flasch devotes an entire chapter of his book to the explanation of what he claims to be a forgotten concept that has been abandoned by theologians and philosophers. A philosophy of Christianity is “an attempt to prove Christian ideas rationally in such a way that believers and unbelievers alike would come to recognize them as true, and not merely as culturally contingent constructs of Christian communities of faith”. He admits that our understanding of reason has not been the same everywhere. Purely rational proofs have changed through time and this approach has been rejected both by those who are Christian, because it would reduce faith to a series of philosophical tenets, and by those who aim to use a completely rational method, because this method would disprove Christian beliefs as illogical or untenable. Flasch instead suggests that this is precisely what Eckhart attempted to do with his works and, even without agreeing with the results, he presents a detailed account of his “philosophy of Christianity”. Before considering what Christianity is, the author discusses what philosophy should be: “the habit to justify one’s statements, to argue most precisely according to a set of common rules”.
The book is an invitation to read Meister Eckhart in his historical context. Eckhart thought of himself as a philosopher but perception of him changed throughout the centuries. He had immediate influence on some of his contemporaries, such as Henry Suso and Johannes Tuler. Nicholas of Cusa studied Eckhart when young but with time, due to the condemnation of the Church, his works became less available and only a distorted version of his thought survived. Nevertheless, he had a strong impact not only on philosophers such as Hegel, Martin Buber or Martin Heidegger but also on writers like Robert Musil and Paul Celan.
There are gaps in his chronology and therefore in our knowledge of him but recent discoveries and studies allow Flasch to present a convincing portrait. The name Meister indicates that he was a magister, a master at Paris in 1302, the highest rank attainable for any academic at the time. Like Albertus Magnus, whom he probably knew personally, and Thomas Aquinas, the most important philosopher of the Middle Ages, he was a member of the Dominican order. In 1303 he was elected provincial of Saxony and then vicar general of Thuringia and Bohemia.
Eckhart lived in turbulent times, both for the church and for the civil power. In his Divine Comedy Dante famously placed all the popes who had reigned in his lifetime in hell. Celestine V had abdicated, Boniface VIII was corrupt, John XII was in exile in Avignon and involved in endless controversies with the antipopes. Interestingly, Eckhart ignored the pope in his works, as both spiritual and political leader. Not only was the church divided; in the final decades of Eckhart’s life two German emperors were simultaneously elected. This was also a period of new intellectual developments. Aristotle’s influence in particular was growing among philosophers and theologians since the discovery and the translation into Latin of his texts, preserved by the Islamic civilisation. Meister Eckhart absorbed and reinterpreted the neo-Aristotelianism he had learned in Paris.
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