Non posso dire che “in pieno XXI secolo, siamo tornati indietro”, in
quanto non ho l’orologio della storia in tasca, non sono esattamente uno
storicista (né sono sicuro di esserlo mai stato) e, se apprezzo molto
il progresso (nel senso scientifico e tecnologico), non credo affatto
che tale concetto sia trasferibile alla società e all’etica nel loro
complesso. Quindi non dirò che, in tanti campi e fra l’altro in quello
del confronto di civiltà diverse, “siamo tornati indietro”, o che in
passato “eravamo più avanti”: sono giudizi oziosi e inutili ancor prima
di essere idioti. Ogni fase della nostra civiltà ha la sua cifra e i
suoi valori: possiamo anche divertirci a confrontarli, se vogliamo, ma è
tempo perso. Se c’è una cosa che l’antropologia culturale ci ha
insegnato è che ciascuna cultura dev’essere giudicata non nel confronto
con le altre (confronto che storicamente in realtà avviene, con esiti
vari: tra i quali talvolta può esserci anche lo “scontro”, che comunque
non è mai totale né definitivo né assoluto), bensì
iuxta sua propria principia. Il
che non è “relativismo”, termine negli ultimi tempi passato dal
linguaggio propriamente etico-filosofico a quello politico-demagogico e
con risultati quanto meno ridicoli: è “relatività”.
Ma, a proposito del confronto – poniamo tra secolo XII e secolo XXI
–, sentite questa storia, a qual che ne sappiamo vera, accaduta otto
secoli fa.
L’imperatore Federico II, in occasione della sua crociata, visitò nel
1229 Gerusalemme, ospite del sultano ayyubide d’Egitto al-Malik
al-Kamil nipote del Saladino. In quell’occasione si stabilì un trattato
che dovrebb’essere ancor oggi esemplare, se Dio una volta di più non
avesse ohimè tolto la ragione a coloro che Egli ha deciso di perdere. Si
decise difatti che Gerusalemme dovesse divenire “città aperta”, libera
da fortificazioni e da presidi militari, pur restando in una regione che
il sultano d’Egitto allora con sicurezza controllava, e che tutti gli
adepti delle tre religioni scaturite dal ceppo di Abramo vi avessero
libero e sereno accesso come pellegrini, in pace e in mutuo rispetto.
Tale regime durò circa quindici anni: poi, nel 1244, l’incursione di un
massiccio gruppo di genti che dal Kwarezm era stato costretto (le solite
Vőlkerwanderungen, esito del terremoto
causato tra Asia centrale ed Europa orientale dalle conquiste di Genghiz
Khan e dei suoi eredi) a spostarsi attraverso la Persia e a cercar
asilo in terra musulmana, sommerse anche la Città Santa, sottoponendola a
un massacro e a un saccheggio forse meno deleterio di altri, comunque
pesante: in seguito a ciò, Gerusalemme tornò sotto gli ayyubidi
d’Egitto, che del resto di lì a poco avrebbero dovuto affrontare prima
la crociata di san Luigi, quindi il colpo di stato dei loro
“servi-guerrieri”, i mamelucchi, il sultanato dei quali sarebbe restato
in piedi fino al 1517 circa per esser poi sostituito da quello ottomano
d’Istanbul.
Ma torniamo al 1229 e a Federico II. Un cronista arabo che gli
specialisti giudicano attendibile narra di come, dopo aver passato una
notte in città (è presumibile ma non certo che fosse ospitato nella
fortezza detta “di Erode” che sovrastava la porta occidentale, la “Porta
di Giaffa”), si svegliasse contrariato. Mandò a chiamare il
qadi, vale
a dire il capo dei giurisperiti cittadini, al quale evidentemente
spettava l’onere dell’ordine pubblico, e gli chiese perché, quella
notte, non avesse udito la voce del muezzin che chiama i fedeli a
interrompere il sonno per la preghiera notturna, una delle cinque
canonicamente previste. Il
qadi rispose di aver disposto
l’interruzione di quella pratica per consentirgli di riposare sereno e
perché riteneva che la voce d’una religione a lui estranea lo
disturbasse. Federico replicò che uno dei suoi desideri più vivi,
venendo a Gerusalemme, sarebbe stato proprio quello di ascoltare il
richiamo del muezzin nella notte; e aggiunse che se il
qadi avesse
voluto venir a rendergli visita a Palermo egli lo avrebbe accolto con
gioia, ma non per questo avrebbe disposto mai che le campane tacessero
nelle ore canoniche per non disturbare la sua sensibilità.
Ora, non pretendo certo che politici e magari anche docenti italiani
del XXI secolo siano più intelligenti e lungimiranti di Federico II e
del
qadi di Gerusalemme; e accetto volentieri anche il fatto
che Matteo Salvini sia interessato ad ascoltare l’appello notturno alla
preghiera musulmana più o meno come io sarei interessato ad ascoltare un
DVD dei discorsi di Umberto Bossi a Pontida. Siccome siamo sotto Natale
e in questo periodo bisogna essere buoni, non dirò quel che penso a
proposito della recente, ennesima, penosa polemica riguardante il
presepio (lo dico alla toscana: lo so che sarebbe più corretto dire
“presepe”), il rispetto dovuto agli appartenenti a religioni diverse
dalla cristiana e/o a confessioni differenti dalla cattolica, le
esternazioni dell’attuale ministro degli Interni – in un momento nel
quale è vittima di un evidente delirio di onnipotenza, disturbato
tuttavia dalle prospettive di un futuro che lo costringerà a metterle da
canto – a proposito della “tradizione” e della “Chiesa di estrema
sinistra” e il delirio di qualche prete che, nel penoso tentativo di
ostacolarne la resistibile ascesa, chiede ai fedeli di non fare il
presepio semplicemente perché lui lo ha raccomandato nel momento stesso
nel quale dispone nei confronti dei migranti provvedimenti che vanno
contro i princìpi della carità cristiana.
Credo che la sempre più sparuta schiera degli italiani di qualunque
idea politica ma non ancora privi di un minimo di cultura e di buon
senso si renda conto anche da questa pietosa polemica di quanto sia
sempre più umiliante il livello al quale sta scendendo la vita politica
di oggi, con le relative polemiche. Mi limito a ricordare quel che al
riguardo disse una volta papa Giovanni Paolo II (e non mi risulta che
papa Francesco lo abbia mai esplicitamente o implicitamente
contraddetto): il miglior modo di rispettare e perfino di onorare le
tradizioni altrui consiste nel rafforzare i legami con la propria. Ciò
vale, quanto meno, per chi a tale tradizione non abbia rinunziato: ma se
in qualche modo l’ha dimenticata o rinnegata, è molto difficile che
possa strumentalmente resuscitarla per contrapporla a quelle altrui.
Gramsci e Mussolini avevano capito benissimo che se c’è qualcosa che
teneva insieme gli italiani e che costituiva la loro autentica e
profonda identità, quella era la fede cattolica evidentemente incarnata
dall’autorità e dalle tradizioni liturgiche della Chiesa di Roma. Ciò,
d’altronde, appartiene alle
mémoires d’Outretombe: quello che
non erano riusciti a fare né il massonismo risorgimentale, né le varie
forme dell’anticlericalismo-anticristianesimo-ateismo politico e
filosofico dell’Otto-Novecento, sono riusciti egregiamente a farlo più o
meno sette decenni di crescente corsa unilaterale ad denaro e al
benessere, di disprezzo strisciante e indiscriminato del passato, di
mode esterofile diffuse e incontrollate, di cultura indiscriminata di
tutti i diritti possibili (della donna, del bambino, degli animali,
dell’ambiente, della natura eccetera) senza riguardo alcuno per i
correlativi doveri; di “cultura” (diciamo così) del “vietato-vietare” e
del “corpo-è-mio-e-lo-gestisco-io”). E ora che, con l’avvento della
società multiculturale o di qualcosa che le somiglia, ci troviamo a
confrontarci con dei poveracci che mancano di tutto ma che a loro volta
hanno quanto meno (ma, non illudetevi: la stanno perdendo anche loro)
una qualche identità culturale, è illusorio sperar di poter recuperare
tempo e occasioni perduti inalberando crocifissi e presepi nelle scuole.
Il pluralismo di una società, come si usa dire, “laica”, vuole che
credenti e non-credenti si confrontino: apertamente, lealmente, e senza
sotterfugi. Chi auspica il crocifisso e il presepio nelle scuole e
magari in tutti i pubblici uffici (io sono tra questi), cominci con
l’assicurarsi che entrambi ci sono in casa sua, quindi passi a
persuadere i suoi concittadini che quei due oggetti sono una garanzia di
civiltà che è indispensabile mantenere. Il cristiano di oggi – e spero
che se ne rendano conto lucidamente anche gli amici di “Nigrizia” e di
“Famiglia cristiana” – non deve mai perdere di vista il fatto che,
ormai, viviamo in una società “occidentale” in larga parte atea o
agnostica, comunque decristianizzata; e che il nostro dovere di
cristiano-cattolici è il testimoniare la fede vivendo nel proprio mondo
come in territorio di missione,
in partibus infidelium. Quanto
ai non-cristiani convinti che il cristianesimo, come tutte le altre
religioni, vada spazzato via dalla società come il residuo (non importa
se glorioso o infame) di un passato ormai definitivamente tale, e che in
omaggio alle loro convinzioni lottano contro il crocifisso e/o il
presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, facciano la santissima
cortesia di chiamare le cose con il loro nome, come fino a non troppi
anni fa usavano del resto più o meno fare: oggi, per portar avanti il
loro disegno “laicistico” e più propriamente antireligioso, si sono
inventati che crocifisso e/o presepio potrebbero turbare le menti dei
bambini musulmani che frequentano le nostre scuole e offendere le loro
famiglie.
Per chiarire in pochi punti quel che personalmente ritengo e che
posso testimoniare dati i miei ormai oltre quindici lustri di esistenza,
dei quali circa tredici (fin da quando, ragazzino, mi appassionavo ai
racconti salgariani sui “tigrotti di Mompracem” e al cinema andavo matto
per le avventure del
Ladro di Baghdad) spesi in un modo o
nell’altro in compagnia dell’Islam, ecco quanto mi sento di dichiarare
molto semplicemente in questi giorni di Avvento:
- Come cattolico, auspicherei beninteso un mondo pieno di chiese; ma come cattolico del XXI secolo, ben conscio dell’iter della
mia e delle altrui culture anche perché il mio mestiere sta
nell’occuparsi dell’una e un po’ anche delle altre, non mi dà alcun
fastidio che ci sia chi va a pregare in sinagoga, o in moschea, o in
templi buddhisti o induisti o jainisti o sikh o bahai o shintoisti o
animisti di sorta; come non mi danno alcun fastidio né quelli che si
riuniscono a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e
dell’umanitarismo nelle logge massoniche, né quelli che non ritengono di
aver bisogno di nulla di tutto ciò. Non sarei nemmeno contrario in
linea di principio ai luoghi di culto satanisti, se fossi certo che in
essi nulla d’illecito e di contrario alla legge viene commesso. Non
posso tacere che leggermente sui nervi mi danno le famigliuole che alla
domenica, invece che alla messa o a visitare un museo o magari
fuoriporta per una sana scampagnata, vanno in ammirata schiera ai Centri
Commerciali per adempiere gli unici riti che conoscono, quelli del
comprare e del desiderar di comprare generi vari di consumo: ma, dal
momento che ciò non è contro le legge – anzi, è molto favorito da leggi
fatte da gente che è “comitato d’affari” delle lobbies che da
tali riti traggono arricchimento –, subisco tale consuetudine, magari in
paziente e segreta attesa di tempi futuri nei quali una provvidenziale e
benefica tirannia abbia la forza e la lucidità di vietarla.
- Come cattolico che cerca di conoscere sempre meglio l’Islam e che
frequenta molti amici e conoscenti musulmani, testimonio senza tema di
smentite che non ho mai sentito nemmeno uno di loro che ce l’avesse con
il crocifisso o che si sentisse offeso dal presepio; e mi risulta che
molti imam si sono chiaramente espressi in questo senso. Certo,
può darsi che mi sia imbattuto in ipocriti mentitori: escludo
categoricamente che tutti lo siano. So d’altronde bene che esistono
centri di propaganda “fondamentalista” nei quali si coltiva una
sensibilità diversa, in una gamma che va dalla semplice intolleranza
alle pulsioni e magari ai programmi di tipo terroristico: mi limito, per
quanto ne so, a ritenere che si tratti di una minoranza sparuta per
quanto purtroppo in crescita (come sono in crescita “fondamentalismi” e
in genere atteggiamenti criminosi d’ogni genere: il che è nel tristo
spirito e nella sciagurata logica dei tempi nei quali viviamo, tempi di
continuo dolciastro pacifismo a chiacchiere e di violenza diffusa e
sovente narcogenita violenza, tempi di “stati di coscienza alterata” a
loro volta effetto di generalizzata illegalità e di altrettanto
generalizzate fonti d’illeciti guadagni all’affermarsi dei quali non è
stata né è ancora oggi estranea la cultura per permissivismo diffuso e
l’altrettanto generalizzata rinunzia, da parte almeno delle due ultime
generazioni, a quello che molti ritengono un diritto (e ch’è invece un
sacrosanto dovere) di educare le generazioni future, delle quali esse
portano la responsabilità
- Quanto ai migranti, il dovere umano (e non soltanto cristiano) di ausilio e di ospitalità (ne parlavano già la Bibbia e l’Odissea) è inderogabile: e non ci sono quote d’accoglienza né Italians first che
tengano. Il nostro è un tempo di situazioni eccezionali; o meglio,
l’eccezionalità del nostro tempo (ogni epoca ha avuto le sue) consiste
in questo, ed è semplicemente ridicola prima di essere infame la
distinzione tra “profughi” in fuga da “guerre e dittature” e gente che
fugge alla fame e alla miseria, tanto più che si tratta di una fame e di
una miseria in larga misura determinate dai meccanismi di produzione
della ricchezza che tra secolo scorso e secolo presente sono gestiti dai
“soliti noti”, i veri padroni del mondo, i lorsignori che
periodicamente celebrano i loro riti à la mode nella ridente
cittadina di Davos; così come è semplicemente ridicola oltre che
impossibile la proposta di “rimandarli a casa loro”, dal momento che la
“casa loro” di molti non sappiamo con precisione né possiamo appurare
nemmeno quale sia. Quando uno o una arrivano da noi e sono affamati,
assetati, nudi, ammalati o feriti, il primo irrinunziabile dovere è
accoglierli e curarli: poi si può fare tutto il resto, compreso il
rimandarli indietro nella misura in cui ciò è umanamente possibile; e di
molti di loro, come tutti sanno, noi abbiamo bisogno; mentre
l’esercitare su di loro uno sfruttamento (anche solo il lavoro nero) è
un’infamia che va sradicata col ferro e col fuoco. Ciò non toglie, anzi
esige che si elaborino mezzi e sistemi comunitari affinché l’emergenza
emigranti sia affrontata tenendo presente anche quella della sicurezza e
della stabilità di chi le accoglie. L’una esigenza non elide l’altra:
anzi, si tratta di esigenze complementari. Chi viene accolto, gode di un
principio umanitario irrinunziabile e ineludibile; e deve adeguarsi
alle leggi e alle consuetudini di chi lo accoglie. Come l’unica via di
rispettare le tradizioni e l’identità altrui sta nell’imporre e nel
difendere il rispetto delle proprie, allo stesso modo l’unica
possibilità di esercitare il dovere d’accoglienza sta nell’imporre
rigorosamente la disciplina di chi viene accolto.
- Per quel che riguarda i musulmani, un grande studioso ch’era anche
un vero uomo di Dio, il francescano padre Giulio Basetti Sani, ch’era
allievo di Louis Massignon e che io annovero tra i miei più cari
Maestri, compose una Preghiera per i musulmani, auspicandone
ovviamente la conversione al cristianesimo. Ecco in che modo essa
inizia: “Gesù, Verbo incarnato e Figlio di Maria, noi Ti preghiamo per i
seguaci dell’Islam. Essi Ti riconoscono come ‘Parola di Dio’, come
Profeta dell’Altissimo e vero Messia; essi onorano la Madre Tua come
Vergine purissima che Ti ha concepito per opera dello Spirito Santo”.
Questo è quel che i veri e buoni musulmani sanno e sentono a proposito
di Gesù di Nazareth: che poi vi siano musulmani che ignorano questa
verità, data l’ormai dilagante ignoranza che riguarda loro non meno che i
laici e in genere la stragrande maggioranza degli abitanti di questo
pianeta, nulla da meravigliarsi o da scandalizzarsi. I non-musulmani,
credenti o agnostici o laici che siano, dovrebbero tener presento questo
rapporto obiettivo tra cristianesimo e Islam.
- Ho ascoltato la prima volta l’appello del muezzin molti decenni or
sono in un piccolo villaggio della Turchia europea: non quello notturno,
bensì quello di mezzogiorno. Non era “a viva voce”, bensì diffuso da un
altoparlante. Mi commosse comunque profondamente. Ancora oggi, quando
mi càpita di tornare a Gerusalemme, aspetto sveglio la preghiera di
mezzanotte: in onore dell’imperatore Federico e della sua gloriosa
memoria.
- Tra le consuetudini che ho adottato e rispetto, ce n’è un’altra che
riguarda l’Islam. Ogni volta che torno a Istanbul dedico un po’ di tempo
alla visita della “Moschea Blu”, quella dinanzi alla piazza
dell’Ippodromo. E ripeto un rito che mi capitò d’inaugurare nel 1973, la
prima volta che vi entrai: mi seggo sui talloni, “alla musulmana”
(finora l’artrosi mi ha consentito di farlo) accanto a una colonna,
sempre quella, estraggo dalla tasca sinistra dei calzoni il rosario di
mia nonna che porto sempre con me e lo recito. Molti, fedeli e turisti,
mi hanno visto in tali circostanze; nessuno mi ha mai interrotto o
distratto dalla mia preghiera: ed è chiaro che sono un cristiano, perché
dal mio rosario pende una piccola croce. Ma una volta, mentre pregavo,
mi si avvicinò un anziano signore modestamente vestito. Era magro,
curvo, si aiutava con un bastone. Lo depose a terra, si sedette sui
talloni come me e mi chiese che cosa facessi: gli risposi che pregavo
Dio e la Vergine Maria alla maniera cristiana ed egli mi chiese
gentilmente di poter vedere la mia corona. La tenne con rispetto e
devozione fra le mani; quindi estrasse dalla tasca sinistra dei suoi
calzoni la sua misbah e mi pregò di riprendere la mia preghiera
mentre egli, sui grani del suo oggetto rituale, recitava i Novantanove
Santi Nomi di Dio. Uscimmo insieme e ci salutammo senza parole, con un
abbraccio.
- Il mio Maestro, padre Giulio Basetti Sani, oltre che dotto
islamologo, era un grande ammiratore dell’Islam: al punto che molti,
anche suoi confratelli, gli rimproveravano quello che secondo loro era
un sentimento eccessivo. Una volta, a un interlocutore che in atto di
sfida gli chiedeva come mai non si fosse decisamente convertito
all’Islam, egli rispose umilmente: “Ma io sono già musulmano!”. In arabo muslim significa
difatti, semplicemente, “intimamente disposto a conformarsi alla
volontà di Dio”. Ho sempre desiderato essere un perfetto musulmano al
pari di padre Giulio.
- A chi chiede una definizione sintetica del Corano, rispondete di recitare il Prologo del Vangelo di Giovanni. La Parola, che per i cristiani è il Dio-Uomo, il Cristo, per i musulmani è il Libro. E il missus, che per i cristiani è Giovanni il Battista, per i musulmani – che pur venerano Giovanni stesso – è Muhammad, rasul Allah, “Messaggero di Dio”.
- A chi chiede di capir bene i rapporti tra cristianesimo e Islam suggerite di leggere la sura X, la sura di Maria.
- Non ci sarà mai assassino del Daesh o di qualunque altra
organizzazione criminale – e tantomeno alcuno dei suoi mandanti, sauditi
o americani che siano – che riuscirà a farmi dimenticare la lezione di
quel vecchio turco nella “Moschea Blu”. Questo è l’Islam. Il resto è
nulla.
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