giovedì, giugno 06, 2019

Trecce nere


Trecce nere
di Domenico Ciampoli


Mariuccia di Canzano aveva gli occhi neri e le trecce nere, come le more de’ roveti della Maiella o come i carboni delle fornaci di Sante Iori, il quale ne era innamorato da far delle pazzie. Sante Iori da due anni le correva dietro; pareva un cacciatore che braccheggi la volpe; ma ci perdeva i chiodi delle scarpe e il sudore della fronte. Mariuccia di Canzano non era uccello da panie; e sebbene Ioni gliele tendesse in tutta la boscaglia, non l’aveva mai colta al laccio. Ella non voleva sentirla nominare quella faccia nera di carbonaio; e quando le boscaiole sue compagne la burlavano col figurarsela moglie di lui, le faceva scappar via a furia di sassate. E Sante Iori non se ne dava pace, perché nelle notti lunghe lunghe vegliate intorno alle carbonaie, nei viaggi noiosi con le mule dalla montagna alla città, vedeva sempre quelle trecce nere e quegli occhioni ladri, come se al mondo non ci fosse più nulla da vedere. Sante pensava d’essere stato ammaliato da una strega che volesse bene a Mariuccia, e avrebbe dato le sue tre fornaci, il bosco ceduo e la massaria perché la strega incantasse anche lei, e li facesse vivere insieme innamorati almeno una giornata sola. Ma la strega, a cercarla come la buona ventura, non si trovava, e Sante sentiva in cuore il fuoco stesso delle carbonaie, che Mariuccia accendeva cogli occhi e con le legna. Quand’egli la vedeva sopra in ciglione o giù per un burrato, spiccando fragoloni o raccattando stipe, restava lungamente a guardarla e ne seguiva tutti i movimenti: ora la vedeva dritta come un abete giovinetto, ora carponi, come una capra selvatica; spesso palpitava scorgendola inerpicata ad una rupe, pendente da una radica, tentennante sur un abisso, ed avea paura, una gran paura di vederla precipitare abbasso; e sarebbe corso a sgridarla, a stringerla fra le braccia, s’ella al solo vederlo non l’avesse fuggito, come la lepre dal segugio. Sulle prime non lo fuggiva così, anzi una sera, nella stalla di compare Tanu, dove si ballava il ballo delle treccie , Sante si fece un gran coraggio e le chiese se volesse l’anello della fede. Era meglio dirle di ballare col gobbo scrignuto: da quella sera non si dissero più neppure buon giorno e buona notte: e Sante non poté più scordarla. Quei lunghi capelli, sciolti nel ballo, ondeggianti giù per la vita, simili alla fiumana grossa, egli se li sentiva serpeggiare fra le mani come quella sera, quando, saltellando a cerchio, glieli stringeva; allora un brivido di freddo gli percorreva le carni, egli ansava forte, dilatava le narici e gli occhi, tendeva le braccia nerborute quasi per ischiacciare con una stretta la fanciulla, e si gettava sulla paglia delle carbonaie a divorare lagrime e la rabbia. O perché non lo voleva lei? La faccia tinta ei se la laverebbe, sicuro! Manderebbe anche al diavolo il mestiere. Di denari grazie a Dio ed alle sue braccia, non ne ha più bisogno; e una volta sposi, ci sarebbe da scialarsela da signori. O che vuole di più? Intorno a quelle trecce nere egli legherebbe un nastro turchino e un altro verde e rosso; le cingerebbe alla vita un corpetto di velluto nero ricamato d’oro e d’argento, a’ fianchi una gonna a mille pieghe con pedana a sette colori; le calzerebbe a’ piedi stivalini di pelle lucente, le porrebbe alle mani anelli per ogni dito, le vorrebbe bene... to’, più che alla mamma, più che alla Madonna... Ma una folata di tramontana o la rauca canzone de’ carbonai lo destavano da quelle fantasie, e Sante Iori tornava alle legnaie, alle fornaci per vedere se le faccende andassero di buon passo.

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