domenica, giugno 15, 2025

Quando si aspetta fuori …

NEROLA, nov. Al chilometro 47 della via Salaria, una belva (ma perché riabilitare certi uomini chiamandoli belve?) approfittando del viandante che chiedeva una mano per riparare la bicicletta, lo conduceva dentro casa e lo trucidava: a colpi di mazza e di coltello, proprio come accade al mattatoio. Poi seppelliva la vittima nell’orto attiguo, presenti in casa la moglie e i figli terrorizzati.

Il primo delitto — racconta la cronaca — avvenne il 5 luglio 1944. Tre uomini si dirigevano da Rieti verso Roma, ciascuno con una bicicletta a motore: erano Giovanni ed Amilcare Marchionni e un loro cognato, ravvicinato Pietro Monni. All’altezza del 47° chilometro della Salaria, il motorino del Monni si guastò. «Andate avanti: vi raggiungerò presto» disse l’avventurato ai due congiunti: e bussò alla casa del Picchioni, che gli offrì ospitalità per la notte. All’alba il mostro puntò il fucile contro la fronte dell’ospite che non si destò più.

L’altra vittima — Alessandro Daddi — un bel giovane pieno di vita, era partito da Roma nel maggio scorso con una bicicletta munita di motorino «cucciolo» per recarsi a Pontigliano a portar medicinali alla madre ammalata. Verso il 47° chilometro bucò e, sprovvisto di mastice, ne chiese alla casa più prossima. Mentre Ernesto Picchioni fingeva di frugare in un cassetto, Daddi si chinava sulla ruota, quando fu colpito violentemente al capo e s’accasciò. Consapevole della sua fine, implorava: «Prendi tutto quel che ho, ma non ammazzarmi!». La risposta fu un colpo di coltello alla gola. Un rantolo seguito da un tonfo; poi silenzio...

Cioè, silenzio tragico quella notte, ché la gazzarra è incominciata dal giorno della cattura della belva (chiamiamola così per riabilitare l’uomo) da parte di gazzettieri specializzati in cronaca nera. Quel che a noi interessa è la povera umanità che ha vissuto fino a ieri nel clima di tragedia: e non tanto la moglie Filomena Lucarelli (che se non dovrà proprio rispondere di correità, appare almeno succube) quanto il figlio quattordicenne Angelo, il quale ci è apparso non sappiamo se più stordito o indifferente, a volte smarrito in una timidezza arida, tal’altra colpito da una forma di ottusità che denuncia il germe dell’atavismo.

Non è infatti necessario risalire troppo per li rami per rintracciarvi un filo di sangue (pare che il nonno dell’Ernesto Picchioni abbia ucciso). Questa scialba figura di fanciullo precoce, che ha visto, che ha sentito, che ha respirato in quel clima, ci fa pensare; muove a pietà e sgomenta più degli altri personaggi, i quali possono facilmente difendersi dai virus maligni, come del resto la Lucarelli ha dimostrato. La tenerissima età dei figli minori è di per sé la difesa migliore. Sarà opportuno invece che su questo figlio primogenito dell’assassino, (che ha nome Angelo!) si eserciti particolarmente la sorveglianza in quel provvidenziale istituto di rieducazione che sta per accoglierlo. Considerazioni? Le ha già fatte — e da par suo — il corsivista dell’organo quotidiano, commentando alcune sintomatiche dichiarazioni del parroco di Nerola, il paese del Picchioni: «Ho amministrato la prima Comunione al due figli maggiori poco tempo fa. Lui li accompagnò fino alla chiesa e li aspettò fuori; quando uscii con i ragazzi, il Picchioni mi salutò e ringraziò».

Ecco il commento nella sua parte essenziale: «All’indomani dei crimini spaventosi di Nerola, all’indomani di quelli terrificanti del mondo, quanti sono e restano fuori di chiesa! Quanti incoerenti come l’assassino, vi accompagnano i figli e li aspettano fuori, ringraziando e salvando anime, in un modo ben sinistro; preparando la miscredenza e la rovina con l’esempio e nel clima d’una società che non crede».

Perfetto; perché è ormai dimostrato che, restando fuori di chiesa, si rischia di coltivare quel tale macabro orto: qui a Nerola e ovunque.

 

Benigno

9 novembre 1947

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