NEROLA, nov. Al chilometro 47 della via Salaria, una belva (ma perché riabilitare certi uomini chiamandoli belve?) approfittando del viandante che chiedeva una mano per riparare la bicicletta, lo conduceva dentro casa e lo trucidava: a colpi di mazza e di coltello, proprio come accade al mattatoio. Poi seppelliva la vittima nell’orto attiguo, presenti in casa la moglie e i figli terrorizzati.
Il
primo delitto — racconta la cronaca — avvenne il 5 luglio 1944. Tre uomini si
dirigevano da Rieti verso Roma, ciascuno con una bicicletta a motore: erano
Giovanni ed Amilcare Marchionni e un loro cognato, ravvicinato Pietro Monni.
All’altezza del 47° chilometro della Salaria, il motorino del Monni si guastò. «Andate
avanti: vi raggiungerò presto» disse l’avventurato ai due congiunti: e bussò
alla casa del Picchioni, che gli offrì ospitalità per la notte. All’alba il
mostro puntò il fucile contro la fronte dell’ospite che non si destò più.
L’altra
vittima — Alessandro Daddi — un bel giovane pieno di vita, era partito da Roma
nel maggio scorso con una bicicletta munita di motorino «cucciolo» per recarsi
a Pontigliano a portar medicinali alla madre ammalata. Verso il 47° chilometro
bucò e, sprovvisto di mastice, ne chiese alla casa più prossima. Mentre Ernesto
Picchioni fingeva di frugare in un cassetto, Daddi si chinava sulla ruota,
quando fu colpito violentemente al capo e s’accasciò. Consapevole della sua
fine, implorava: «Prendi tutto quel che ho, ma non ammazzarmi!». La risposta fu
un colpo di coltello alla gola. Un rantolo seguito da un tonfo; poi silenzio...
Cioè,
silenzio tragico quella notte, ché la gazzarra è incominciata dal giorno della
cattura della belva (chiamiamola così per riabilitare l’uomo) da parte di
gazzettieri specializzati in cronaca nera. Quel che a noi interessa è la povera
umanità che ha vissuto fino a ieri nel clima di tragedia: e non tanto la moglie
Filomena Lucarelli (che se non dovrà proprio rispondere di correità, appare
almeno succube) quanto il figlio quattordicenne Angelo, il quale ci è apparso
non sappiamo se più stordito o indifferente, a volte smarrito in una timidezza
arida, tal’altra colpito da una forma di ottusità che denuncia il germe
dell’atavismo.
Non
è infatti necessario risalire troppo per li rami per rintracciarvi un filo di
sangue (pare che il nonno dell’Ernesto Picchioni abbia ucciso). Questa scialba
figura di fanciullo precoce, che ha visto, che ha sentito, che ha respirato in
quel clima, ci fa pensare; muove a pietà e sgomenta più degli altri personaggi,
i quali possono facilmente difendersi dai virus maligni, come del resto la
Lucarelli ha dimostrato. La tenerissima età dei figli minori è di per sé la
difesa migliore. Sarà opportuno invece che su questo figlio primogenito
dell’assassino, (che ha nome Angelo!) si eserciti particolarmente la
sorveglianza in quel provvidenziale istituto di rieducazione che sta per
accoglierlo. Considerazioni? Le ha già fatte — e da par suo — il corsivista
dell’organo quotidiano, commentando alcune sintomatiche dichiarazioni del
parroco di Nerola, il paese del Picchioni: «Ho amministrato la prima Comunione
al due figli maggiori poco tempo fa. Lui li accompagnò fino alla chiesa e li
aspettò fuori; quando uscii con i ragazzi, il Picchioni mi salutò e ringraziò».
Ecco
il commento nella sua parte essenziale: «All’indomani dei crimini spaventosi di
Nerola, all’indomani di quelli terrificanti del mondo, quanti sono e restano
fuori di chiesa! Quanti incoerenti come l’assassino, vi accompagnano i figli e
li aspettano fuori, ringraziando e salvando anime, in un modo ben sinistro;
preparando la miscredenza e la rovina con l’esempio e nel clima d’una società
che non crede».
Perfetto;
perché è ormai dimostrato che, restando fuori di chiesa, si rischia di
coltivare quel tale macabro orto: qui a Nerola e ovunque.
Benigno
9
novembre 1947
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