sabato, luglio 30, 2005

Ardigò, Zagrebelsky, la Chiesa e gli “atei devoti”

È un vero e proprio dibattito sullo stato della società civile e del sistema politico italiano quello che da diversi mesi si alimenta di tre fenomeni di spicco: la presenza attiva della Chiesa (come gerarchia, come istituzioni e ufficialità cattoliche); l’esistenza di una cultura laica che “non può non dirsi cattolica” (fenomeno non raro nella cultura italiana del Novecento, ma quasi assente nella seconda metà del secolo); e un’opinione pubblica che (secolarizzata quanto si voglia: ma quanto, in realtà, ci sfugge) riserva un rispetto nuovo al paradigma cattolico anche in sede civile.

Questi dati, con la loro singolare sporgenza nella sfera pubblica italiana, hanno indotto un coro, sostanzialmente monocorde, di diagnosi.

In negativo, tali diagnosi si concentrano anzitutto sulla invasività della Chiesa-istituzione e sulla pretesa egemonia di alcune figure ecclesiastiche, ma anche sulla “restaurazione” di una ragione e di una disciplina cattolica entro la Chiesa. Il tutto, si dice, nella latitanza del laicato cattolico. La querelle sulla “Storia del Concilio Vaticano II” contro e in difesa di Giuseppe Alberigo rientra in questo quadro.

La reazione ad evidenze sociali nuove, e certamente impreviste, ha un obiettivo principale, che è politico: contrapporre qualcosa, fosse solo un allarme martellante, alla capacità e qualità di decisione della gerarchia cattolica, temute sia in sede pubblica (si pensi ai richiami allarmati al Concordato) sia in sede religiosa e propriamente intraecclesiale.

Ma meritano egualmente attenzione gli argomenti messi in mostra. Ho di fronte gli interventi di maestri e colleghi, da Achille Ardigò a Pietro Scoppola a Gustavo Zagrebelsky, ma anche le argomentazioni “religiose” con cui su “la Repubblica” altri anticipano o tallonano gli opinionisti più rappresentativi.

Va detto subito: che si possa usare il termine “razionalismo”, come ha fatto ad esempio Achille Ardigò (e stupisce, in una intelligenza tanto rigorosa e “razionale”) di fronte alla evocazione del diritto naturale cristiano e al riaffiorare esplicito della teologia nel magistero cattolico (ora, nell’insegnamento di Benedetto XVI, quasi non fosse stata teologica gran parte della predicazione di papa Karol Wojtyla!), fa temere che in adulti di estrazione cristiana si sia smarrita persino la memoria della propria formazione. E se, come purtroppo avviene, si arriva ad agitare la retorica del Concilio per giustificare questa cancellazione, è giusto parlare non solo di un Concilio tradito, ma di un funzionamento oggettivamente perverso di “momenti” dell’eredità conciliare.

Chiunque, in virtù dell’età e dell’appartenenza cattolica, abbia potuto fare esperienza della formazione intellettuale e religiosa classica degli anni Cinquanta e Sessanta (su cui il Concilio, ed altri fenomeni, avrebbero profondamente inciso, ma più tardi), formazione ancora coerente ed esplicita sul terreno dogmatico, aperta quindi alla ragione, giudicherà la discussione in corso da mesi come l’effetto di una vera e propria opera di dissoluzione operatasi in questi ultimi decenni nell’intelletto cattolico.

Dobbiamo ricordare al maestro Ardigò che né la nostra formazione né l’apporto conciliare furono “mistici”? O all’intelligenza di Zagrebelsky che la fede cristiana non ci fu trasmessa come “grido”, per evocare il titolo di un celebre libro? Questo ricorso all’emozione, alla tensione, alla “mistica”, ancora negli anni Sessanta, sapeva di irrazionalismo e di tarda eredità modernistica: eredità che, ben oltre Pio X, la scienza teologica cristiana del Novecento aveva negato costruttivamente.

Nei teologi del Concilio non vi è traccia di opposizione tra fede e ragione, tra teologia e mistica, tra mistica e Chiesa. D’altronde, poiché si cita sempre don Giuseppe Dossetti, giova ricordare che una lettura di base per i giovani che entravano al dossettiano Centro di Documentazione di Bologna era “Le Thomisme” di Étienne Gilson, e che la disciplina formativa era teologica e storica, di storia della Chiesa. Dunque “filosofia cristiana” e saperi positivi, razionali, centrati su istituzione e dottrina.

Le riduzioni equivocamente “mistiche” del positivo cristiano sono posteriori. Anche per la cultura cattolica hanno il loro “Sitz im Leben”, la loro posizione vitale, nel trauma culturale della secolarizzazione e dell’egemonia subita, negli erramenti utopici (sono essi che chiedono alla fede il sacrificio dell’intelletto), nell’illusione di conservare un “centro” abbandonando tutto il “resto”.

Eppure, nell’esperienza e giudizio di molti, il primato della spiritualità (riscoperto negli anni Cinquanta contro la “milizia pubblica” della Chiesa di Pio XII) era già insufficiente alla fine degli anni Sessanta. Chi non ebbe allora che “spiritualità”, e magari un esile orizzonte personalista-cristiano, non resse alle crisi iper-mobilitanti degli anni Settanta. Passò alla politica radicale, all’ideologia, o al neomodernismo di comunità e movimenti, o si “invisibilizzò”.

Coloro che ressero, lo fecero nella consapevolezza di un’autoconsistenza cattolica, nei principi, negli obiettivi, nei linguaggi; e furono aiutati dal persistere, sia pure accerchiato, della dottrina e quindi del Logos, nella Chiesa. E, in questo orizzonte, ebbero ancora un ruolo l’idea cristiana della politica, la concezione cristiana dello stato, il diritto naturale cristiano. La cultura cattolica dei meno giovani lo sa, e può solo fingere, oggi, di non ricordare.

Non lo dimentica, invece, la coscienza storica di molti non credenti. Gli “atei devoti” sono un magistrale promemoria per la coscienza cattolica e talora sono stati maestri per i maestri del cattolicesimo. Integrano di fronte al mondo comune, ad extra, la mancanza di una grande apologetica, il vuoto drammatico di quel nostro volerci “mistici”, l’incapacità di certa fede di dare intellettualmente conto di sé e della propria rilevanza per l’uomo storico. Questo oggettivo supplire che viene da intelligenze che, senza il dono della fede, pure si vogliono ad alta voce “cattoliche”, dovrebbe generare negli uomini di fede una tempesta autocritica. Sembra produrre, almeno a livello pubblico, solo cieche polemiche e deprecazione spiritualistica.

È vero: di quella che grandi intelligenze chiamavano l’essenza del cattolicesimo abbiamo cancellato le tracce, sentite come ostacolo alle nostre libertà politiche, etiche, spirituali. Ma abbiamo solo ottenuto nella Chiesa, per un lungo periodo, dei laicati tanto gelosi della loro auto-determinazione ecclesiale, quanto (troppo spesso) ideologicamente eterodipendenti, e indifesi di fronte al progresso della propria irrilevanza.

Non stupisce insomma che Joseph Ratzinger, in quanto teologo, sembri “razionalista” agli involontari protagonisti di quel disfacimento, come io lo giudico. Ma come si può pensare, anche, che quei modelli e quelle soluzioni appaiano ora affidabili?

Simmetricamente, va affermato con forza che la diagnosi dell’attuale carenza di cultura e azione laicale è tanto interessata quanto erronea. I suoi criteri di giudizio appartengono a quel paradigma (indipendenza, invisibilità, irrilevanza) non più praticabile, neppure da chi non riesce a liberarsene. In realtà la costellazione attuale di laicati cristiani ha da tempo il suo mandato, come la sua vitalità e visibilità, nella visibilità stessa della gerarchia, che non eserciterebbe l’attuale decisione e limpidezza d’iniziativa se non si sentisse confermata, a sua volta, da una nuova volontà di realizzazione cattolica, quella che io chiamo un nuova “politicità”.

Pietro De Marco

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