venerdì, agosto 19, 2005

50 anni dalla morte di De Gasperi

Estraneo ai movimenti De Gasperi resta un unico

Antonio AirÒ

Nel giugno del 1919, a Bologna, Alcide De Gasperi era acclamato presidente del primo congresso del Partito Popolare italiano, sorto appena qualche mese prima (a gennaio). In questa scelta c'era indubbiamente il riconoscimento per chi, deputato al Parlamento di Vienna, durante la Grande Guerra aveva difeso l'identità nazionale del suo "popolo" trentino e che ora, a pieno titolo, entrava nelle file del movimento cattolico organizzato. C'era anche la consapevolezza che la "questione romana" non impediva più la partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica. Questa, per De Gasperi era una questione superata da tempo. Lo statista trentino non aveva direttamente vissuto la stagione tumultuosa dell'Opera dei Congressi, dell'intransigentismo cattolico, del "non expedit". Mai il suo cattolicesimo fu riconducibile a questo o quel gruppo o fazione. E in ciò sta forse il segreto della sua capacità di elevarsi sopra le contingenze e di rivolgere lo sguardo oltre le piccolezze e le miserie di tanta politica, anche del suo tempo. Mentre la guerra si rivelava sempre più "inutile strage", il mosaico di lingue, popoli, religioni costitutivo dell'impero austro-ungarico aveva fatto maturare in lui la convinzione che l'importanza decisiva della difesa delle identità nazionali e locali, i cui caratteri non andavano però confusi col nazionalismo fascista - cui sempre si oppose - doveva accompagnarsi alla costruzione di un'Europa unita e solida, politicamente e non solo economicamente.
Vi è una straordinaria coerenza di comportamento tra il De Gasperi leader della Democrazia cristiana, vincitore delle elezioni politiche del 1948, e il De Gasperi statista, presidente del Consiglio dal dicembre 1945 al giugno 1953 in una continuità non rotta da crisi di governo causate da diatribe tra i partiti della coalizione e tra gli stessi gruppi interni della Dc. Una coerenza c he non si comprende se si dimentica che la lezione del grande trentino non sta tanto nelle scelte fondamentali (dalla riforma agraria, alla Cassa del Mezzogiorno, all'avvio della riforma tributaria…) compiute negli anni di quel "centrismo" spesso vituperato e solo oggi rivalutato, e nemmeno nel costante riferimento alla vocazione occidentale ed europea, che ha segnato il suo impegno fin dalla firma del trattato di pace, approdando poi alla costituzione della Comunità economica del carbone e dell'acciaio e alla Comunità europea di difesa. In De Gasperi risaltava soprattutto l'esercizio di una moralità che permeava senza ombre i comportamenti sia pubblici che privati. Gli premeva, disposto anche all'impopolarità, alzare la qualità della democrazia italiana senza mettere a rischio la libertà conquistata a caro prezzo e senza mortificare, nonostante le asprezze dei contrasti ideologici, il confronto tra le diverse componenti politiche del Paese. Perciò si batté - senza successo - per dare maggiore stabilità al nostro sistema democratico anche attraverso una modifica della legge elettorale volta ad assicurare una maggioranza di governo più solida; una misura che se varata avrebbe contribuito ad evitare il rialzarsi di steccati laicisti e frenato l'affermarsi di tentazioni massimalistiche. Continuò fino alla fine a ritenere il processo di unità europeo un obiettivo irrinunciabile. "Guai se il nostro sforzo dovesse fallire" aveva scritto pochi giorni prima di morire a Fanfani, suo successore alla guida della Dc. Ma il 19 agosto di cinquantuno anni fa il suo cammino si è interrotto. Dimostrando però come in politica si deve e si può essere cristiani integrali, davvero "liberi e forti".

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