mercoledì, agosto 25, 2010
Meaning in Life
Sulla rivista Metapsychology ho pubblicato una recensione del volume Meaning in Life: Why it matters.
giovedì, agosto 19, 2010
Newman e l'abito mentale filosofico: retorica e persona negli Scritti Dublinesi.
E' finalmente pronta la versione italiana del mio libro su Newman. Correte a prenotarla nelle vostre librerie di fiducia.
La versione inglese andrà in stampa la prossima settimana.
Angelo Bottone
JOHN HENRY NEWMAN
E LʼABITO MENTALE FILOSOFICO
Retorica e persona negli Scritti Dublinesi
Prefazione di Mons. Bruno Forte
Collana "La dialettica''
pp. 206 - € 15,00
ISBN 978-88-382-4122-2
Le riflessioni formulate da John Henry Newman durante la sua permanenza a Dublino (1851-1859) sono qui considerate per la prima volta nella loro totalità e nel loro pieno significato, nel tentativo di dimostrare come la loro unità non sia solo meramente cronologica ma anche concettuale.
Lʼanalisi dei volumi, degli articoli e dei sermoni, oltre a ricostruire lo sfondo storico e le ragioni che portarono alla decisione di erigere una Università cattolica in Irlanda, consente unʼoriginale comparazione del pensiero di Newman con quello di tre autorevoli figure discusse negli Scritti Dublinesi:
Aristotele, Cicerone e Locke; lʼinfluenza del primo viene presentata in una nuova luce e accostata alla retorica ciceroniana e allʼutilitarismo di Locke e dei suoi seguaci.
Vengono inoltre analizzate le differenti dimensioni della persona umana che si evincono dagli Scritti, il concetto di unità della conoscenza e di abito mentale filosofico, offrendo così unʼampia considerazione critica sulla relazione tra moralità e sapere, sulla difesa della conoscenza liberale, sulla dimensione artistica e morale dellʼessere umano, in opposizione a tendenze dellʼetica moderna quali lʼutilitarismo, il deontologismo e il sentimentalismo. Non manca unʼinteressante riflessione sullʼattualità delle questioni sollevate dagli Scritti Dublinesi con riferimento allʼinquieto evolversi del mondo universitario e ad alcuni grandi autori del pensiero contemporaneo.
La versione inglese andrà in stampa la prossima settimana.
Angelo Bottone
JOHN HENRY NEWMAN
E LʼABITO MENTALE FILOSOFICO
Retorica e persona negli Scritti Dublinesi
Prefazione di Mons. Bruno Forte
Collana "La dialettica''
pp. 206 - € 15,00
ISBN 978-88-382-4122-2
Le riflessioni formulate da John Henry Newman durante la sua permanenza a Dublino (1851-1859) sono qui considerate per la prima volta nella loro totalità e nel loro pieno significato, nel tentativo di dimostrare come la loro unità non sia solo meramente cronologica ma anche concettuale.
Lʼanalisi dei volumi, degli articoli e dei sermoni, oltre a ricostruire lo sfondo storico e le ragioni che portarono alla decisione di erigere una Università cattolica in Irlanda, consente unʼoriginale comparazione del pensiero di Newman con quello di tre autorevoli figure discusse negli Scritti Dublinesi:
Aristotele, Cicerone e Locke; lʼinfluenza del primo viene presentata in una nuova luce e accostata alla retorica ciceroniana e allʼutilitarismo di Locke e dei suoi seguaci.
Vengono inoltre analizzate le differenti dimensioni della persona umana che si evincono dagli Scritti, il concetto di unità della conoscenza e di abito mentale filosofico, offrendo così unʼampia considerazione critica sulla relazione tra moralità e sapere, sulla difesa della conoscenza liberale, sulla dimensione artistica e morale dellʼessere umano, in opposizione a tendenze dellʼetica moderna quali lʼutilitarismo, il deontologismo e il sentimentalismo. Non manca unʼinteressante riflessione sullʼattualità delle questioni sollevate dagli Scritti Dublinesi con riferimento allʼinquieto evolversi del mondo universitario e ad alcuni grandi autori del pensiero contemporaneo.
mercoledì, agosto 18, 2010
Newman, mio maestro
Newman, mio maestro
“Un profeta tra fede e libertà”. Così Cossiga, cattolico liberale, ricordava il grande cardinale inglese
Pubblichiamo l’articolo del presidente emerito della Repubblica apparso l’anno scorso sulla rivista Vita e Pensiero.
Parlare di John Henry Newman, leggere le sue opere, capirne fino in fondo il pensiero non è cosa semplice, anzi è cosa difficile assai. Lo è non solo perché il suo dire è il frutto di una vasta e profonda cultura, ma perché egli è un pensatore del tutto originale. Egli è stato un poeta, un novelliere, un drammaturgo, uno dei più preziosi, per così dire, utenti della lingua inglese. Egli, che fu un grande e originale filosofo e un grande e originale teologo, rifiutò però sempre la qualifica vuoi di filosofo che di teologo. John Henry Newman è un pensatore difficile perché è un inglese, un inglese nel senso più profondo del termine, un eminent victorian, un eminente vittoriano, come lo consacrò in un celebre libro, Eminent Victorians, lo storico inglese Giles Lytton Strachey. I suoi riferimenti teologici non furono, né da anglicano né da cattolico, i teologi scolastici; non furono quindi né un Tommaso d’Aquino, né un Duns Scoto, ma i grandi Padri della Chiesa, sia orientali che latini, e tra questi naturalmente Agostino d’Ippona.
Il suo riferimento filosofico non fu la Philosophia Perennis, ma un vescovo anglicano appartenente ai Caroline Divines (i teologi anglicani del XVII secolo), Joseph Butler, e in particolare il libro “Della analogia della religione naturale”, volume che – gli strani casi della vita! – mi fu regalato da Aldo Moro per un mio onomastico; quel Joseph Butler che influenzò pensatori di lingua inglese come David Hume, Thomas Reid e Adam Smith, non del tutto estranei non dico alla cultura, ma anche al pensiero religioso di Newman.
Il pensiero di John Henry Newman era ben conosciuto a padri e periti conciliari: e tra questi anche al già ben noto teologo tedesco Joseph Ratzinger. Durante il Concilio Vaticano II, ci si riferì a Newman – come a un altro originale filosofo e teologo, Antonio Rosmini – come a un ispiratore e “padre assente” del Concilio. Dire esaustivamente quanto le decisioni conciliari debbano ai suoi insegnamenti esigerebbe un oratore molto, ma molto più ferrato di me, che non ho coltivato né la filosofia né la teologia, ma ho soltanto “razzolato” in esse! In un articolo scritto sull’Osservatore Romano nel 1964, il filosofo cattolico Jean Guitton scriveva: “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico. E’ come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati: così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Mi soffermerò su tre punti.
Le dichiarazioni del Concilio hanno statuito sulla libertà della coscienza e sul primato della coscienza nel campo del pensiero e dell’etica, anche se – come notò in un suo studio il teologo Joseph Ratzinger – non senza qualche ambiguità e indeterminatezza. Il concetto di libertà e di primato della coscienza è al centro del “Decreto sulla libertà religiosa”. Questo concetto è caratteristico del pensiero di Newman che lo espose in modo brillante nella famosa “Lettera al Duca di Norfolk”, nella quale confutò le gravi osservazioni sulla libertà dei sudditi cattolici della Corona di osservare le leggi del Regno e di servire lealmente la Corona stessa, dopo la proclamazione, da parte del Concilio Vaticano I, del dogma dell’infallibilità; dogma contro la sostanza del quale Newman, a differenza del suo grande amico cattolico napoletano-bavarese-inglese, lo storico della libertà, regius professor dell’Università di Cambridge, il cattolico-liberale Lord Acton, non aveva scritto, ma solo si era interrogato pubblicamente sull’opportunità di proclamarlo in quel momento storico (ma subito dopo obbedendo silenziosamente). Lo stesso Papa che lo aveva proclamato, di fronte alla dura reazione del Cancelliere germanico von Bismarck, sentì la necessità di scrivere una lettera ai vescovi tedeschi, in risposta a una lettera che essi gli avevano scritto, chiarendo il contenuto e i limiti dell’infallibilità papale. Proprio nella già citata “Lettera al Duca di Norfolk” Newman conclude il capitolo sulla coscienza con le celebri parole: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa”.
Per spiegare che cosa fosse la coscienza, nel suo saggio appunto a essa dedicato, forse quasi temerariamente e con parole che a suo tempo scandalizzarono molti, specie tra gli ultramontani, affermava: “Sembra […] che vi siano casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. E ancora: la coscienza “non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti”. E addirittura: “La coscienza è l’originario vicario di Cristo”. Ma Newman più oltre aggiunge: “Per timore di non venire fraintesi, debbo ripetere che, quando io parlo di coscienza, intendo quella coscienza intesa nel suo vero significato. Per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema, benché non infallibile, del Papa, essa dev’essere qualcosa ben maggiore di quell’infelice contraffazione che […] viene ora popolarmente intesa”. Newman ricorda anche quella sentenza, propria oltre che di Tommaso d’Aquino anche dei teologi e canonisti della Scuola Salmaticense e dei gesuiti del XVII secolo, secondo cui la coscienza va sempre seguita anche se erronea, e anche se l’errore sia frutto della propria colpa. La coscienza di cui Newman invoca il primato è la “tuta et informata conscientia” dei più certi moralisti, una coscienza che anche se erronea – perché l’uomo non è perfetto e poche sono le così dette “rivelazioni personali” – sia frutto di preghiera, di onesta informazione e di meditazione.
Questo primato della coscienza invocarono non con dichiarazioni, ma con fatti, coloro che non condivisero la conclusione del Concordato tra la Santa Sede e il Terzo Reich e il conseguente ordine impartito attraverso i vescovi ai cattolici tedeschi di sciogliere il Partito del centro cattolico e il Partito cristiano-sociale bavarese. Non si tratterebbe di ingiusto appello al primato della coscienza disattendere l’insegnamento del Papa in materia di aborto, eutanasia, così detti patti di solidarietà sociale, se si ritenesse di approvare leggi civili secondo il criterio del “male minore”, se a esempio, qualora i deputati e senatori cattolici dichiarassero di volere votare contro siffatti provvedimenti e il governo minacciasse per ritorsione di denunziare il Concordato o di abolire l’insegnamento della religione, il giudizio sul “che fare” sarebbe di competenza dei politici per quanto attiene alla credibilità della minaccia, ma del Papa e dei vescovi, per quanto attiene alla ponderazione degli interessi.
Grande influenza ha poi avuto John Henry Newman nell’esaltazione del laicato, e nella definizione della sua posizione e della sua funzione nella Chiesa. Già nel suo famoso saggio sugli ariani o precisamente sull’arianesimo, dottrina cristologica elaborata da Ario e condannata come eresia dal primo Concilio di Nicea – saggio nel quale cominciò a esternare i suoi dubbi sull’adesione di tutta la Chiesa d’Inghilterra ai principi stabiliti dagli antichi Concili –, egli aveva messo in luce come di fronte all’imperatore e alla stessa grande maggioranza dei vescovi che avevano aderito alla dottrina di Ario o che tacevano, furono i laici, i semplici fedeli, che tennero salda la retta fede e rimasero nell’ortodossia e a essa assicurarono la fedeltà della Chiesa. Questa dottrina della funzione del laicato John Henry Newman sviluppò, poi, da cattolico, nel saggio pubblicato nell’ultimo numero del periodico cattolico inglese The Rambler, fondato da Lord Acton e di cui questi gli aveva ceduto la direzione nella speranza di evitare che i vescovi inglesi ne ordinassero la chiusura. Di fronte a monsignor Talbot, che affermava che i laici cattolici dovevano limitarsi ad andare a caccia e a pesca, giocare a cricket, sostentare la Chiesa, organizzare banchetti e fare figli, nel saggio intitolato “Sulla consultazione dei fedeli laici in materia di fede”, egli spiegò come il popolo di Dio, tutto il popolo di Dio e quindi anche i laici, sia soggetto di infallibilità e come quindi sia non soltanto lecito ma doveroso “sentire i laici in materia di fede”. A conferma della sua tesi, egli ricordò come Pio IX, prima di proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione, avesse chiesto ai vescovi non solo cosa essi pensassero, ma cosa pensasse il popolo di Dio. Questo saggio fece precipitare la situazione, perché da alcuni fu considerato eretico o almeno apud haeresim. Già, perché fino a quando – nonostante l’opposizione di un altro convertito, il cardinale Manning, il vescovo ultramontano –, Leone XIII lo fece cardinale, John Henry Newman fu spesso sospettato di eterodossia e molto soffrì non solo pro Ecclesia, ma anche propter Ecclesiam!
Il terzo per così dire “spazio conciliare” nel quale fu grande l’influenza del pensiero di John Henry Newman – giustamente definito, dopo la sua morte, “un profeta e un genio” – fu quello del ritorno dello studio teologico e della stessa catechesi alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, cui ampiamente si riferirono i padri conciliari: sul ritorno alla Bibbia si sono fatti molti passi avanti (pensiamo all’ultimo Sinodo dei vescovi). L’originale dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, dottrina che non vuole certo contraddire quanto sempre affermato dalla Chiesa (essersi la Rivelazione chiusa e conclusa con la predicazione degli apostoli), ha posto in luce, cosa ormai pacificamente accettata, che la storia, la storia dell’uomo, nella quale si è manifestata la Rivelazione e si svolge la storia della sua salvezza, questa storia con le ricerche e l’esperienza umana dilata e precisa il significato del dogma, ne amplia gli orizzonti, lo sviluppa, insomma. E questo vale anche per l’insegnamento ordinario del Papa e dei vescovi. Così, la storia, la storia della libertà, la storia della libertà dei popoli, ha dato un diverso significato a quanto nell’insegnamento di Pio IX, particolarmente nel “Sillabo”, sembrava – e forse nell’intenzione privata del Papa era davvero – la condanna del concetto di sovranità popolare, la “inaudita pretesa dei governati a scegliersi i propri governanti” – principio della sovranità popolare invero già affermato e teorizzato dai teologi e dai giuristi gesuiti del XVII secolo, tra i quali il sommo padre Francisco Suárez –, dovendo essere interpretato invece nel senso che “la maggioranza dei voti non fa del falso il vero né dell’ingiusto il giusto”.
Così la vittoria dell’Unione antischiavista contro la Confederazione schiavista nella Guerra Civile americana servì a illuminare quei vescovi cattolici del Sud che difendevano la schiavitù dei neri, argomentando che la loro cattura in Africa, il loro trasporto nelle Americhe, nazioni cristiane, in quanto utile al loro indottrinamento cristiano e alla loro salvezza eterna, poteva se non giustificare, controbilanciare la loro riduzione in schiavitù al servizio di bianchi. E così la persecuzione degli ebrei culminata con la Shoah modificò radicalmente non solo l’atteggiamento, ma lo stesso pensiero non dico teologico, ma per così dire pratico, di gran parte della Chiesa nei confronti degli ebrei, in particolare per la testimonianza di fede culminata nel martirio di sante come Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, o la testimonianza di vescovi come quello di Münster, il beato Graf von Galen, o di Berlino, Konrad von Preysing. Svolta epocale nel rapporto con l’ebraismo, inoltre, è quella costituita dall’insegnamento e dalla prassi di Giovanni Paolo II che, per primo, visitò una sinagoga in Roma, sua sede episcopale e capitale della cristianità, là ove un tempo i giudei erano stati rinchiusi nel ghetto da Papi precedenti, di cui uno, Pio IX, è stato peraltro da lui stesso proclamato beato, e chiamò coloro che per secoli erano stati definiti nella stessa liturgia del Venerdì Santo come i “deicidi”, addirittura “nostri fratelli maggiori”. Per questo sbaglia chi, abbagliato da sole parvenze, considera il Concilio Vaticano II come un “Concilio di rottura” rispetto agli altri Concili, in particolare il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I, e non invece il “Concilio del rinnovamento nella continuità”, un Concilio che ha annunziato verità, come la collegialità episcopale, che erano già comprese nella Rivelazione, Nuovo Testamento e Tradizione, che si sono venute disvelando nella storia e che sono state per così dire “illuminate” nella storia della Chiesa che è parte, o meglio, comprende la storia per così dire “profana”, la storia della Città dell’uomo, attraverso la ricerca, lo studio, la meditazione, la preghiera e la testimonianza non solo di vescovi e teologi, ma anche dell’intero popolo di Dio. Può certo considerarsi un miracolo intellettuale che John Henry Newman avesse compreso e formulato questa legge di sviluppo della Chiesa nella, attraverso e grazie alla storia, che è sempre, in un Suo misterioso disegno, la storia di Dio.
Per quanto attiene all’ecumenismo, fu sempre John Henry Newman che pose in evidenza, da anglicano e da cattolico, ciò che univa le Chiese cristiane, pur non sottacendo cosa le divideva. Nel suo “Tract 90”, l’ultimo dei famosi “Tracts for The Times” – la collezione di saggi anonimi pubblicata dai grandi autori del Movimento di Oxford per combattere l’ispirazione liberaleggiante e protestante di parte della Chiesa d’Inghilterra, della quale essi volevano esaltare invece i tratti di cattolicità e di apostolicità –, Newman, per avvicinare le Chiese di Canterbury e di York alla Chiesa di Roma, tentò di dare un’interpretazione dei famosi Trentanove Articoli di Fede della Chiesa d’Inghilterra che fosse conforme all’insegnamento del Concilio di Trento: venne subito la condanna prima da parte del vescovo anglicano di Oxford e poi di tutti i vescovi della Chiesa d’Inghilterra, e fu la fine sia dei Tracts sia del Movimento di Oxford, e l’inizio di quel cammino che doveva portare nella Chiesa cattolica romana l’allievo del Trinity College, il fellow e tutor dell’Oriel College e parroco della Chiesa universitaria anglicana di Saint Mary the Virgin e della Chiesa di Littlemore – piccolo centro nel quale egli poi si ritirò per tre anni con alcuni suoi amici per studiare, meditare e pregare –; e tra poco, infine, alla sua proclamazione come beato.
John Henry Newman è stato il grande ispiratore dell’ecumenismo. Da teologo anglicano egli fu un sostenitore della cosiddetta Via Media, una terza via tra protestantesimo luterano e calvinista e cattolicesimo romano; ma in questa sua visione egli pensava di creare un ponte di dialogo tra le varie confessioni cristiane. E anche quando scrisse il Tract 90 pensava di gettare un ponte tra la “sua Chiesa”, la Chiesa d’Inghilterra, e quella che cominciava a sentire parimenti “sua”, la Chiesa cattolica di Roma: Chiese che riteneva già unite dai caratteri dell’universalità e dell’apostolicità. Ma Newman, che anche quando entrò nella Chiesa cattolica fu ordinato in essa sacerdote e poi ne divenne cardinale, mantenne un grande affetto per la sua prima Chiesa e in particolare per i suoi antichi amici del Movimento di Oxford, certo sempre sperando nel ristabilimento della comunione di Canterbury e di York con Roma, sempre ritenne che dialogo e confronto dovessero avvenire in vista di una futura “unità nella verità”, che per dialogare e confrontarsi occorresse essere consapevoli, chiari e fermi nella propria identità. John Henry Newman è certo nel Paradiso e gode dell’imperturbabilità di chi vive nell’eternità, ma se potesse avere le passioni di un vivente nell’effimero, oggi si dorrebbe assai dell’evoluzione non solo liberal ma libertineggiante della Chiesa d’Inghilterra che lui ha tanto amato. Ho sempre ritenuto che l’ecumenismo e il dialogo ecumenico siano fatti più che della ricerca di concordanze teologiche e giuridico-canoniche, da un comune impegno di servire il prossimo, e il più prossimo di tutti, il povero e l’affamato, con opere di carità spirituale e materiale; e ho sempre ritenuto che l’unità sarà frutto della preghiera, della carità e della santità e che a essa, più che i teologi, abbiano dato e possano dare un prezioso contributo i martiri e i testimoni delle confessioni cattolica, anglicana, luterana e ortodossa: dai campi di concentramento nazisti all’Uganda, ai gulag sovietici, dai pastori protestanti ai sacerdoti cattolici ai pope russi. Anche per questo il mio augurio è che John Henry Newman possa con la sua beatificazione testimoniare pubblicamente della sua carità e della sua santità impegnando tutti i cristiani con la loro carità e testimonianza a lavorare perché Nostro Signore Gesù Cristo doni anche nel tempo a tutti i cristiani l’unità nella Sua unica, santa e apostolica Chiesa.
di Francesco Cossiga
© - FOGLIO QUOTIDIANO
“Un profeta tra fede e libertà”. Così Cossiga, cattolico liberale, ricordava il grande cardinale inglese
Pubblichiamo l’articolo del presidente emerito della Repubblica apparso l’anno scorso sulla rivista Vita e Pensiero.
Parlare di John Henry Newman, leggere le sue opere, capirne fino in fondo il pensiero non è cosa semplice, anzi è cosa difficile assai. Lo è non solo perché il suo dire è il frutto di una vasta e profonda cultura, ma perché egli è un pensatore del tutto originale. Egli è stato un poeta, un novelliere, un drammaturgo, uno dei più preziosi, per così dire, utenti della lingua inglese. Egli, che fu un grande e originale filosofo e un grande e originale teologo, rifiutò però sempre la qualifica vuoi di filosofo che di teologo. John Henry Newman è un pensatore difficile perché è un inglese, un inglese nel senso più profondo del termine, un eminent victorian, un eminente vittoriano, come lo consacrò in un celebre libro, Eminent Victorians, lo storico inglese Giles Lytton Strachey. I suoi riferimenti teologici non furono, né da anglicano né da cattolico, i teologi scolastici; non furono quindi né un Tommaso d’Aquino, né un Duns Scoto, ma i grandi Padri della Chiesa, sia orientali che latini, e tra questi naturalmente Agostino d’Ippona.
Il suo riferimento filosofico non fu la Philosophia Perennis, ma un vescovo anglicano appartenente ai Caroline Divines (i teologi anglicani del XVII secolo), Joseph Butler, e in particolare il libro “Della analogia della religione naturale”, volume che – gli strani casi della vita! – mi fu regalato da Aldo Moro per un mio onomastico; quel Joseph Butler che influenzò pensatori di lingua inglese come David Hume, Thomas Reid e Adam Smith, non del tutto estranei non dico alla cultura, ma anche al pensiero religioso di Newman.
Il pensiero di John Henry Newman era ben conosciuto a padri e periti conciliari: e tra questi anche al già ben noto teologo tedesco Joseph Ratzinger. Durante il Concilio Vaticano II, ci si riferì a Newman – come a un altro originale filosofo e teologo, Antonio Rosmini – come a un ispiratore e “padre assente” del Concilio. Dire esaustivamente quanto le decisioni conciliari debbano ai suoi insegnamenti esigerebbe un oratore molto, ma molto più ferrato di me, che non ho coltivato né la filosofia né la teologia, ma ho soltanto “razzolato” in esse! In un articolo scritto sull’Osservatore Romano nel 1964, il filosofo cattolico Jean Guitton scriveva: “I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico. E’ come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati: così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman”.
Mi soffermerò su tre punti.
Le dichiarazioni del Concilio hanno statuito sulla libertà della coscienza e sul primato della coscienza nel campo del pensiero e dell’etica, anche se – come notò in un suo studio il teologo Joseph Ratzinger – non senza qualche ambiguità e indeterminatezza. Il concetto di libertà e di primato della coscienza è al centro del “Decreto sulla libertà religiosa”. Questo concetto è caratteristico del pensiero di Newman che lo espose in modo brillante nella famosa “Lettera al Duca di Norfolk”, nella quale confutò le gravi osservazioni sulla libertà dei sudditi cattolici della Corona di osservare le leggi del Regno e di servire lealmente la Corona stessa, dopo la proclamazione, da parte del Concilio Vaticano I, del dogma dell’infallibilità; dogma contro la sostanza del quale Newman, a differenza del suo grande amico cattolico napoletano-bavarese-inglese, lo storico della libertà, regius professor dell’Università di Cambridge, il cattolico-liberale Lord Acton, non aveva scritto, ma solo si era interrogato pubblicamente sull’opportunità di proclamarlo in quel momento storico (ma subito dopo obbedendo silenziosamente). Lo stesso Papa che lo aveva proclamato, di fronte alla dura reazione del Cancelliere germanico von Bismarck, sentì la necessità di scrivere una lettera ai vescovi tedeschi, in risposta a una lettera che essi gli avevano scritto, chiarendo il contenuto e i limiti dell’infallibilità papale. Proprio nella già citata “Lettera al Duca di Norfolk” Newman conclude il capitolo sulla coscienza con le celebri parole: “Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia prima alla coscienza, poi al Papa”.
Per spiegare che cosa fosse la coscienza, nel suo saggio appunto a essa dedicato, forse quasi temerariamente e con parole che a suo tempo scandalizzarono molti, specie tra gli ultramontani, affermava: “Sembra […] che vi siano casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. E ancora: la coscienza “non è un egoismo lungimirante, né il desiderio di essere coerenti con se stessi, bensì la messaggera di Colui, il quale, sia nel mondo della natura sia in quello della grazia, ci parla dietro un velo e ci ammaestra e ci governa per mezzo dei suoi rappresentanti”. E addirittura: “La coscienza è l’originario vicario di Cristo”. Ma Newman più oltre aggiunge: “Per timore di non venire fraintesi, debbo ripetere che, quando io parlo di coscienza, intendo quella coscienza intesa nel suo vero significato. Per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema, benché non infallibile, del Papa, essa dev’essere qualcosa ben maggiore di quell’infelice contraffazione che […] viene ora popolarmente intesa”. Newman ricorda anche quella sentenza, propria oltre che di Tommaso d’Aquino anche dei teologi e canonisti della Scuola Salmaticense e dei gesuiti del XVII secolo, secondo cui la coscienza va sempre seguita anche se erronea, e anche se l’errore sia frutto della propria colpa. La coscienza di cui Newman invoca il primato è la “tuta et informata conscientia” dei più certi moralisti, una coscienza che anche se erronea – perché l’uomo non è perfetto e poche sono le così dette “rivelazioni personali” – sia frutto di preghiera, di onesta informazione e di meditazione.
Questo primato della coscienza invocarono non con dichiarazioni, ma con fatti, coloro che non condivisero la conclusione del Concordato tra la Santa Sede e il Terzo Reich e il conseguente ordine impartito attraverso i vescovi ai cattolici tedeschi di sciogliere il Partito del centro cattolico e il Partito cristiano-sociale bavarese. Non si tratterebbe di ingiusto appello al primato della coscienza disattendere l’insegnamento del Papa in materia di aborto, eutanasia, così detti patti di solidarietà sociale, se si ritenesse di approvare leggi civili secondo il criterio del “male minore”, se a esempio, qualora i deputati e senatori cattolici dichiarassero di volere votare contro siffatti provvedimenti e il governo minacciasse per ritorsione di denunziare il Concordato o di abolire l’insegnamento della religione, il giudizio sul “che fare” sarebbe di competenza dei politici per quanto attiene alla credibilità della minaccia, ma del Papa e dei vescovi, per quanto attiene alla ponderazione degli interessi.
Grande influenza ha poi avuto John Henry Newman nell’esaltazione del laicato, e nella definizione della sua posizione e della sua funzione nella Chiesa. Già nel suo famoso saggio sugli ariani o precisamente sull’arianesimo, dottrina cristologica elaborata da Ario e condannata come eresia dal primo Concilio di Nicea – saggio nel quale cominciò a esternare i suoi dubbi sull’adesione di tutta la Chiesa d’Inghilterra ai principi stabiliti dagli antichi Concili –, egli aveva messo in luce come di fronte all’imperatore e alla stessa grande maggioranza dei vescovi che avevano aderito alla dottrina di Ario o che tacevano, furono i laici, i semplici fedeli, che tennero salda la retta fede e rimasero nell’ortodossia e a essa assicurarono la fedeltà della Chiesa. Questa dottrina della funzione del laicato John Henry Newman sviluppò, poi, da cattolico, nel saggio pubblicato nell’ultimo numero del periodico cattolico inglese The Rambler, fondato da Lord Acton e di cui questi gli aveva ceduto la direzione nella speranza di evitare che i vescovi inglesi ne ordinassero la chiusura. Di fronte a monsignor Talbot, che affermava che i laici cattolici dovevano limitarsi ad andare a caccia e a pesca, giocare a cricket, sostentare la Chiesa, organizzare banchetti e fare figli, nel saggio intitolato “Sulla consultazione dei fedeli laici in materia di fede”, egli spiegò come il popolo di Dio, tutto il popolo di Dio e quindi anche i laici, sia soggetto di infallibilità e come quindi sia non soltanto lecito ma doveroso “sentire i laici in materia di fede”. A conferma della sua tesi, egli ricordò come Pio IX, prima di proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione, avesse chiesto ai vescovi non solo cosa essi pensassero, ma cosa pensasse il popolo di Dio. Questo saggio fece precipitare la situazione, perché da alcuni fu considerato eretico o almeno apud haeresim. Già, perché fino a quando – nonostante l’opposizione di un altro convertito, il cardinale Manning, il vescovo ultramontano –, Leone XIII lo fece cardinale, John Henry Newman fu spesso sospettato di eterodossia e molto soffrì non solo pro Ecclesia, ma anche propter Ecclesiam!
Il terzo per così dire “spazio conciliare” nel quale fu grande l’influenza del pensiero di John Henry Newman – giustamente definito, dopo la sua morte, “un profeta e un genio” – fu quello del ritorno dello studio teologico e della stessa catechesi alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, cui ampiamente si riferirono i padri conciliari: sul ritorno alla Bibbia si sono fatti molti passi avanti (pensiamo all’ultimo Sinodo dei vescovi). L’originale dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, dottrina che non vuole certo contraddire quanto sempre affermato dalla Chiesa (essersi la Rivelazione chiusa e conclusa con la predicazione degli apostoli), ha posto in luce, cosa ormai pacificamente accettata, che la storia, la storia dell’uomo, nella quale si è manifestata la Rivelazione e si svolge la storia della sua salvezza, questa storia con le ricerche e l’esperienza umana dilata e precisa il significato del dogma, ne amplia gli orizzonti, lo sviluppa, insomma. E questo vale anche per l’insegnamento ordinario del Papa e dei vescovi. Così, la storia, la storia della libertà, la storia della libertà dei popoli, ha dato un diverso significato a quanto nell’insegnamento di Pio IX, particolarmente nel “Sillabo”, sembrava – e forse nell’intenzione privata del Papa era davvero – la condanna del concetto di sovranità popolare, la “inaudita pretesa dei governati a scegliersi i propri governanti” – principio della sovranità popolare invero già affermato e teorizzato dai teologi e dai giuristi gesuiti del XVII secolo, tra i quali il sommo padre Francisco Suárez –, dovendo essere interpretato invece nel senso che “la maggioranza dei voti non fa del falso il vero né dell’ingiusto il giusto”.
Così la vittoria dell’Unione antischiavista contro la Confederazione schiavista nella Guerra Civile americana servì a illuminare quei vescovi cattolici del Sud che difendevano la schiavitù dei neri, argomentando che la loro cattura in Africa, il loro trasporto nelle Americhe, nazioni cristiane, in quanto utile al loro indottrinamento cristiano e alla loro salvezza eterna, poteva se non giustificare, controbilanciare la loro riduzione in schiavitù al servizio di bianchi. E così la persecuzione degli ebrei culminata con la Shoah modificò radicalmente non solo l’atteggiamento, ma lo stesso pensiero non dico teologico, ma per così dire pratico, di gran parte della Chiesa nei confronti degli ebrei, in particolare per la testimonianza di fede culminata nel martirio di sante come Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, o la testimonianza di vescovi come quello di Münster, il beato Graf von Galen, o di Berlino, Konrad von Preysing. Svolta epocale nel rapporto con l’ebraismo, inoltre, è quella costituita dall’insegnamento e dalla prassi di Giovanni Paolo II che, per primo, visitò una sinagoga in Roma, sua sede episcopale e capitale della cristianità, là ove un tempo i giudei erano stati rinchiusi nel ghetto da Papi precedenti, di cui uno, Pio IX, è stato peraltro da lui stesso proclamato beato, e chiamò coloro che per secoli erano stati definiti nella stessa liturgia del Venerdì Santo come i “deicidi”, addirittura “nostri fratelli maggiori”. Per questo sbaglia chi, abbagliato da sole parvenze, considera il Concilio Vaticano II come un “Concilio di rottura” rispetto agli altri Concili, in particolare il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I, e non invece il “Concilio del rinnovamento nella continuità”, un Concilio che ha annunziato verità, come la collegialità episcopale, che erano già comprese nella Rivelazione, Nuovo Testamento e Tradizione, che si sono venute disvelando nella storia e che sono state per così dire “illuminate” nella storia della Chiesa che è parte, o meglio, comprende la storia per così dire “profana”, la storia della Città dell’uomo, attraverso la ricerca, lo studio, la meditazione, la preghiera e la testimonianza non solo di vescovi e teologi, ma anche dell’intero popolo di Dio. Può certo considerarsi un miracolo intellettuale che John Henry Newman avesse compreso e formulato questa legge di sviluppo della Chiesa nella, attraverso e grazie alla storia, che è sempre, in un Suo misterioso disegno, la storia di Dio.
Per quanto attiene all’ecumenismo, fu sempre John Henry Newman che pose in evidenza, da anglicano e da cattolico, ciò che univa le Chiese cristiane, pur non sottacendo cosa le divideva. Nel suo “Tract 90”, l’ultimo dei famosi “Tracts for The Times” – la collezione di saggi anonimi pubblicata dai grandi autori del Movimento di Oxford per combattere l’ispirazione liberaleggiante e protestante di parte della Chiesa d’Inghilterra, della quale essi volevano esaltare invece i tratti di cattolicità e di apostolicità –, Newman, per avvicinare le Chiese di Canterbury e di York alla Chiesa di Roma, tentò di dare un’interpretazione dei famosi Trentanove Articoli di Fede della Chiesa d’Inghilterra che fosse conforme all’insegnamento del Concilio di Trento: venne subito la condanna prima da parte del vescovo anglicano di Oxford e poi di tutti i vescovi della Chiesa d’Inghilterra, e fu la fine sia dei Tracts sia del Movimento di Oxford, e l’inizio di quel cammino che doveva portare nella Chiesa cattolica romana l’allievo del Trinity College, il fellow e tutor dell’Oriel College e parroco della Chiesa universitaria anglicana di Saint Mary the Virgin e della Chiesa di Littlemore – piccolo centro nel quale egli poi si ritirò per tre anni con alcuni suoi amici per studiare, meditare e pregare –; e tra poco, infine, alla sua proclamazione come beato.
John Henry Newman è stato il grande ispiratore dell’ecumenismo. Da teologo anglicano egli fu un sostenitore della cosiddetta Via Media, una terza via tra protestantesimo luterano e calvinista e cattolicesimo romano; ma in questa sua visione egli pensava di creare un ponte di dialogo tra le varie confessioni cristiane. E anche quando scrisse il Tract 90 pensava di gettare un ponte tra la “sua Chiesa”, la Chiesa d’Inghilterra, e quella che cominciava a sentire parimenti “sua”, la Chiesa cattolica di Roma: Chiese che riteneva già unite dai caratteri dell’universalità e dell’apostolicità. Ma Newman, che anche quando entrò nella Chiesa cattolica fu ordinato in essa sacerdote e poi ne divenne cardinale, mantenne un grande affetto per la sua prima Chiesa e in particolare per i suoi antichi amici del Movimento di Oxford, certo sempre sperando nel ristabilimento della comunione di Canterbury e di York con Roma, sempre ritenne che dialogo e confronto dovessero avvenire in vista di una futura “unità nella verità”, che per dialogare e confrontarsi occorresse essere consapevoli, chiari e fermi nella propria identità. John Henry Newman è certo nel Paradiso e gode dell’imperturbabilità di chi vive nell’eternità, ma se potesse avere le passioni di un vivente nell’effimero, oggi si dorrebbe assai dell’evoluzione non solo liberal ma libertineggiante della Chiesa d’Inghilterra che lui ha tanto amato. Ho sempre ritenuto che l’ecumenismo e il dialogo ecumenico siano fatti più che della ricerca di concordanze teologiche e giuridico-canoniche, da un comune impegno di servire il prossimo, e il più prossimo di tutti, il povero e l’affamato, con opere di carità spirituale e materiale; e ho sempre ritenuto che l’unità sarà frutto della preghiera, della carità e della santità e che a essa, più che i teologi, abbiano dato e possano dare un prezioso contributo i martiri e i testimoni delle confessioni cattolica, anglicana, luterana e ortodossa: dai campi di concentramento nazisti all’Uganda, ai gulag sovietici, dai pastori protestanti ai sacerdoti cattolici ai pope russi. Anche per questo il mio augurio è che John Henry Newman possa con la sua beatificazione testimoniare pubblicamente della sua carità e della sua santità impegnando tutti i cristiani con la loro carità e testimonianza a lavorare perché Nostro Signore Gesù Cristo doni anche nel tempo a tutti i cristiani l’unità nella Sua unica, santa e apostolica Chiesa.
di Francesco Cossiga
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Happy Birthday, Father!
Happy Birthday, Father!: "
The appeal of the Copernican system did not lie in the precision it permitted for calculating the position of the planets. In this respect it was at best equal to, but did not surpass that of Ptolemy, in spite of the claims of Rheticus to the contrary. Rheticus of course was duty bound to praise both his master's observations 'made with the utmost care' and the results that coincided 'to the utmost degree of exactness with the observations of all scholars.' The fact, however, was that Copernicus' instruments were almost crude, and that no more than twenty-seven of his observations entered into his epoch-making work. The rest of his data were borrowed from the ancients. Being shut in himself, far removed from the main thoroughfares of the world, Copernicus could hardly realize that ocean navigation and the progress of technology were just beginning to force on science a new and hard look at the exactness and reliability of measurements.
Such needs often remain long submerged until suddenly, owing to some unexpected incident, they break to the surface. The impulse that brought the streams of precision and of science forever together was touched off by a partial eclipse of the sun witnessed by fourteen-year-old Tycho Brahe, who was studying rhetoric and philosophy at the University of Copenhagen. That such phenomena as eclipses occurred as predicted had a simply overpowering effect on Tycho's mind. Tycho threw in his lot irrevocably with astronomy. Three years later, already in possession of all available astronomical tables, he found on the night of August 17, 1565, that Jupiter and Saturn were so close as to be hardly distinguishable. To his great shock both the Alphonsine and the Copernican tables were wide of the mark in fixing the date for this event. The former erred by one month, the latter by several days.
For Tycho this represented an intolerable state of affairs. As he had correctly diagnosed matters, the situation could be remedied only if astronomy developed an absolute dedication to the construction of better instruments. In pursuing this end, Tycho had no equal in his day. Before long his rewards came in ample measure. His huge sextant, equipped with a table of figures indicating the errors involved in his observations, played the decisive role in showing the superlunary position of the nova of 1572 and of the comet of 1577. His long list of carefully taken data delivered a mortal blow to Aristotelian cosmology and established Tycho as the foremost astronomer of his time.
[SLJ The Relevance of Physics 240]"
Today, August 17, 2010, marks the 86th anniversary of the birth of Stanley L. Jaki, OSB. In memory of this day, here is a curious excerpt from Father's first book on science and history. It is curious because it mentions his birthday, but also because it gives a striking image of the importance of engineering to science, of having a wider view, of the critical need to be attentive to precision, and many other things. It is well worth your careful attention.
And do not forget to toast SLJ today at dinnertime!
--Dr. Thursday
The appeal of the Copernican system did not lie in the precision it permitted for calculating the position of the planets. In this respect it was at best equal to, but did not surpass that of Ptolemy, in spite of the claims of Rheticus to the contrary. Rheticus of course was duty bound to praise both his master's observations 'made with the utmost care' and the results that coincided 'to the utmost degree of exactness with the observations of all scholars.' The fact, however, was that Copernicus' instruments were almost crude, and that no more than twenty-seven of his observations entered into his epoch-making work. The rest of his data were borrowed from the ancients. Being shut in himself, far removed from the main thoroughfares of the world, Copernicus could hardly realize that ocean navigation and the progress of technology were just beginning to force on science a new and hard look at the exactness and reliability of measurements.
Such needs often remain long submerged until suddenly, owing to some unexpected incident, they break to the surface. The impulse that brought the streams of precision and of science forever together was touched off by a partial eclipse of the sun witnessed by fourteen-year-old Tycho Brahe, who was studying rhetoric and philosophy at the University of Copenhagen. That such phenomena as eclipses occurred as predicted had a simply overpowering effect on Tycho's mind. Tycho threw in his lot irrevocably with astronomy. Three years later, already in possession of all available astronomical tables, he found on the night of August 17, 1565, that Jupiter and Saturn were so close as to be hardly distinguishable. To his great shock both the Alphonsine and the Copernican tables were wide of the mark in fixing the date for this event. The former erred by one month, the latter by several days.
For Tycho this represented an intolerable state of affairs. As he had correctly diagnosed matters, the situation could be remedied only if astronomy developed an absolute dedication to the construction of better instruments. In pursuing this end, Tycho had no equal in his day. Before long his rewards came in ample measure. His huge sextant, equipped with a table of figures indicating the errors involved in his observations, played the decisive role in showing the superlunary position of the nova of 1572 and of the comet of 1577. His long list of carefully taken data delivered a mortal blow to Aristotelian cosmology and established Tycho as the foremost astronomer of his time.
[SLJ The Relevance of Physics 240]"
lunedì, agosto 16, 2010
Jaki on today's feast of the Assumption of Mary
Jaki on today's feast of the Assumption of Mary: "The words 'pray for us sinners...' reveal their appropriateness in most unusual and unforeseen occasions. For the writer of this book one such occasion came as he was sitting in the front pew of the Chiesa de' Fratti in Venice gazing at Titian's 'Assumption,' a masterpiece also by its monumental size. He did as a teacher of his had done in the early thirties in traveling by train from Hungary to Berlin through Dresden. He stopped there, took a cab to the Zwinger, went straight to Raphael's Sistine Madonna, sat before it for two hours, and then rushed back to the train station to continue his journey. I had only half an hour to spend in that Chiesa and wanted to spend all that time in gazing at Titian's masterpiece.
[SLJ Twenty Mysteries]
A personal note from Dr. Thursday: If I am ever in Europe, I hope I will remember to do this. There are many things on my list - none of them the usual 'tourist' things, but all of them thrilling in a Catholic or scientific or musical - that is to say, in a Human fashion... And I have so many friends on the eastern side of the Atlantic, too... Ah, well - someday, perhaps, God willing."
[SLJ Twenty Mysteries]
A personal note from Dr. Thursday: If I am ever in Europe, I hope I will remember to do this. There are many things on my list - none of them the usual 'tourist' things, but all of them thrilling in a Catholic or scientific or musical - that is to say, in a Human fashion... And I have so many friends on the eastern side of the Atlantic, too... Ah, well - someday, perhaps, God willing."
venerdì, agosto 13, 2010
martedì, agosto 10, 2010
In Catalogna la vita di un bambino vale meno di una corrida
In Catalogna la vita di un bambino vale meno di una corrida: "
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Da Il Sussidiario
Gianfranco Amato
martedì 3 agosto 2010
Dal primo gennaio 2012 in Catalogna non si potrà più assistere alle corride. Con una storica decisione, il parlamento di quella regione iberica ha cancellato la plurisecolare “fiesta”, tra un mare di infuocate polemiche.
Confesso che la questione non mi ha appassionato più di tanto. Non vi è dubbio che si tratti di un espectáculo de sangre, ove la violenza gioca un ruolo determinante, ma è anche vero che esso discende direttamente dalla tauromachia conosciuta già nel II millennio a.C., ed è indissolubilmente legato alla storia, alla tradizione ed alla cultura mediterranea del popolo ispanico. E, forse, è pure vero che è meglio veder morire un toro nell’arena che in un mattatoio.
Ciò che più mi ha colpito di questa notizia, in realtà, sono state alcune affermazioni rese nella foga dagli abolizionisti. Soprattutto quelle di autorevoli esponenti politici delle istituzionali catalane.
Si è parlato di inaudita barbarie, di incivile brutalità, di disumana efferatezza, di crudeltà sanguinaria. Si è persino arrivati a paragonare - alquanto impropriamente - i poveri tori ai martiri cristiani dati in pasto alle fameliche belve nei circhi romani, durante le persecuzioni.
L’espressione che più ha attirato la mia attenzione, però, è stata quella secondo cui la corrida incarna un’odiosa forma di violenza nei confronti di esseri innocenti e indifesi. Qualcosa non quadra.
La Catalogna, infatti, è la regione che non solo registra uno dei tassi di aborto più elevati d’Europa, ma anche quella in cui tale pratica avviene spesso fuori dai limiti della legalità e con modalità alquanto barbare. Fece scalpore, ad esempio, qualche anno fa, l’episodio degli aborti su feti di sette e otto mesi compiuti con iniezioni letali.
Allora, diversi medici di cliniche barcellonesi furono denunciati alla magistratura, e grazie alle perquisizioni eseguite dalla Guardia Civil nelle cliniche del gruppo Cidemex-Tcb - che portarono all’arreso di sei medici, fra cui il responsabile Carlos Morin -, fu scoperto un verminaio di orrori nella pratica sistematica di aborti illegali su pazienti provenienti da tutta l’Europa.
Oggi il fenomeno dell’aborto è giunto al punto che, per evitare il collasso negli ospedali, l’Assessorato alla Sanità della Catalogna ha deciso di consentire l’assunzione della pillola RU-486 a domicilio, entro la settima settimana di gestazione. La decisione si è imposta a seguito della nuova legge sulla salute sessuale e riproduttiva che ha introdotto l’obbligo di garantire in tutte le strutture sanitarie pubbliche l’interruzione volontaria della gravidanza, finora praticata, nel 98% dei casi, in cliniche private.
Tale obbligo comporterà, stando alle stime ufficiali rilasciate dall’Assessorato alla Sanità e pubblicate da El Periódico de Catalunya, un ulteriore aggravio di 26.000 interventi ginecologici abortivi all’anno, rispetto a quelli attualmente praticati.
Gli ospedali catalani non sono in grado di resistere a un simile tsunami, per cui le autorità sanitarie hanno deciso di consentire la distribuzione, nei quarantadue centri regionali di assistenza sessuale, della pillola RU-486 alle donne che intendono interrompere la gravidanza a domicilio. Dallo scorso 5 luglio si può quindi facilmente reperire, nei quarantadue centri regionali di assistenza sessuale, la “pastilla para abortar”, e procedere all’interruzione fai da te.
L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere l’aborto farmacologico, come ha chiaramente affermato Joaquin Calaf, responsabile del servizio di ginecologia e ostetricia dell’Ospedale Sant Pau di Barcellona, il quale ha parlato di «uno strumento incruento che le donne possono utilizzare in casa e in forma privata».
Come si vede sul concetto di crudeltà, e su cosa possa definirsi cruento o incruento, le autorità pubbliche catalane hanno opinioni molto soggettive. È infatti cruento lo spettacolo in cui si uccide un animale, ma è incruento il micidiale veleno con cui si elimina un essere umano. Joaquin Calaf ci deve poi spiegare perché i tori si possano considerare esseri innocenti e indifesi, mentre i bimbi nel grembo di una madre no.
C’è, invece, una risposta per coloro che hanno esultato all’abolizione della corrida, ritenendo che in questo modo si potrà attenuare o addirittura disinnescare la componente di violenza che caratterizza la società catalana.
La risposta la affido volentieri alle parole pronunciate due anni fa, lontano dalle polemiche sulla corrida, dal Presidente dell’Asociación de Médicos Cristianos de Cataluña, Fernando García-Faria: «È proprio con l’aborto che la violenza si produce al primo stadio della vita e viene poi diffusa in tutta la società». Parole rimaste, purtroppo, inascoltate.
martedì, agosto 03, 2010
Newman omosessuale? No
lunedì, agosto 02, 2010
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