L’Occidente, civile perché cristiano
Dopo avere scalato nel 2004 la classifica dei libri più venduti negli Stati Uniti con una guida politicamente scorretta alla storia americana, lo storico Thomas E. Woods jr. offre una nuova prova di coraggio intellettuale pubblicando un studio, How the Catholic Church Built Western Civilization (Regnery, Washington 2005), che capovolge molte delle idee correnti sulla storia del cattolicesimo. Nel libro, aggiornato con gli ultimi risultati della ricerca accademica, Woods dimostra in maniera convincente, elencando una impressionante serie di esempi, come la Chiesa cattolica non si sia limitata a dare un contribuito alla formazione della civiltà occidentale, ma l’abbia interamente costruita dalle fondamenta.
Uno dei miti più consolidati che Woods si propone di smontare è quello della presunta ostilità della Chiesa nei confronti della scienza, complice soprattutto il caso Galileo Galilei. Una vicenda, peraltro, che andrebbe decisamente ridimensionata, non solo perché lo scienziato pisano non subì in pratica alcuna punizione, ma anche perché si tratta dell’unico contrasto tra le gerarchie ecclesiastiche e uno scienziato che i detrattori del cattolicesimo sono in grado di citare.
La scienza, per esempio
Uno sguardo d’insieme all’intera storia della Chiesa rivela infatti una realtà ben diversa. Negli ultimi cinquant’anni, quasi tutti gli storici della scienza, compresi A.C. Crombie, David Lindberg, Edward Grant, Stanley L. Jaki, Thomas Goldstein e J.L. Heilbron, sono giunti alla conclusione che, senza l’apporto spirituale e materiale del cattolicesimo, l’Occidente non avrebbe conosciuto alcuna rivoluzione scientifica. L’idea di un universo creato da Dio e ordinato secondo leggi razionali si è infatti rivelata fondamentale per lo sviluppo della scienza. Nelle civiltà fondate su tradizioni religiose diverse in cui la divinità si confonde con la natura (come per esempio nell’animismo o nel panteismo orientale), l’idea che il mondo fisico sia assoggettato a leggi fisse e prevedibili è inconcepibile; per questo motivo il metodo scientifico ha dunque incontrato grosse difficoltà ad affermarsi. Lo stesso è accaduto nella tradizione islamica, la quale condanna i tentativi di scoprire le regolarità naturali come bestemmie che limitano la volontà libera e arbitraria di Allah.
Anche sul piano concreto è difficile trovare un’istituzione che abbia dato più incoraggiamento alla scienza della Chiesa cattolica. La grande maggioranza degli scienziati europei furono uomini di Chiesa: per esempio, padre Nicola Steno è riconosciuto come il padre della geologia; padre Atanasio Kircher è il fondatore dell’egittologia; padre Giambattista Riccioli è stato il primo a misurare il grado di accelerazione di un corpo in caduta libera; il geniale padre Ruggero Boscovich viene considerato il padre della teoria atomica; i gesuiti hanno dominato a tal punto lo studio dei terremoti che la sismologia venne chiamata “la scienza gesuitica”; per non parlare del contributo incalcolabile dato all’astronomia, tanto che 35 crateri sulla luna prendono il nome da scienziati o matematici gesuiti.
I monaci, benedetti praticoni
Basterebbe inoltre addentrarsi nei sistemi d’insegnamento dell’università medioevale, un’altra gloriosa invenzione del mondo cattolico, per escludere l’idea che la vita intellettuale dell’epoca fosse soffocata dalla superstizione o dall’autoritarismo ecclesiastico. Nelle università medioevali, la cui autonomia venne spesso difesa dai papi, fiorì invece la più ampia libertà di ricerca intellettuale. Era pratica comune che il maestro proponesse una questione da risolvere agli studenti, i quali dovevano confrontarsi tra loro dibattendone razionalmente tutte le possibili sfaccettature. Per ricevere la laurea uno studente doveva inoltre dimostrare di saper “determinare” (cioè risolvere) da solo una questione. Questa enfasi che le università medioevali davano allo studio della logica, osserva Woods, è rivelatrice di una civiltà che mirava a comprendere, dimostrare e persuadere, non certo a imporre o a censurare. Solo da questo metodo di studio poteva svilupparsi una filosofia razionale, rigorosa e sistematica come la cosiddetta scolastica.
Gli uomini di Chiesa eccelsero del resto non solo a livello teorico, ma anche nelle applicazioni pratiche. I monasteri medioevali, particolarmente quelli benedettini, furono dei centri di avanguardia tecnologica, e il loro contributo alla civiltà occidentale è a dir poco immenso. Tra i tanti loro meriti, i monaci eccelsero nel tramandare la cultura antica copiando i testi classici; preservarono l’alfabetizzazione nell’Europa invasa dai barbari; da pionieri aprirono all’agricoltura vaste lande e foreste; introdussero nuove colture, nuovi alimenti e nuove bevande; costruirono i mulini ad acqua, perfezionarono la metallurgia e introdussero in Europa un livello di meccanizzazione sconosciuto a tutte le civiltà antiche. Si presero poi cura del paesaggio, riparando gli argini dei fiumi, i ponti e le strade; s’impegnarono nel soccorso ai viandanti e ai naufraghi, e alleviarono la condizione dei bisognosi con numerose iniziative di carità.
Non va dimenticata, infatti, l’origine cattolica di tutte le opere assistenziali che esistono ancora oggi, a partire dagli ospedali.
Nell’antichità, i poveri e i malati venivano generalmente trattati con disprezzo, ed era assente l’idea di fare del bene al prossimo senza ricevere qualcosa in cambio. I gesti di liberalità verso i poveri erano in genere compiuti da personaggi eminenti in cerca di fama e di benevolenza, e venivano praticati in maniera indiscriminata senza guardare alle effettive necessità dei destinatari. L’impegno della Chiesa verso i bisognosi fu invece un fenomeno completamente nuovo, nello spirito e nelle dimensioni: nessun re o imperatore sarebbe mai stato in grado di mantenere, sfamare e curare tante persone come invece avveniva quotidianamente nelle istituzioni caritatevoli della Chiesa.
Questi atteggiamenti nascevano infatti da una nuova morale che, grazie alla predicazione della Chiesa, aveva gradualmente soppiantato le brutalità dei costumi barbarici. I principi etici fondamentali che ancora oggi prevalgono in Occidente derivano proprio dall’idea cristiana della sacralità della vita umana, che discende a propria volta dalla concezione teologica dell’unicità e del valore di ogni persona in virtù della sua anima immortale. Fu dunque merito delle energiche prese di posizione della Chiesa se vennero abolite quelle pratiche antiche che mostravano disprezzo sommo per la vita umana, quali l’infanticidio e i giochi gladiatori. La Chiesa condannò inoltre la schiavitù, i duelli, il suicidio, l’aborto, la promiscuità, le perversioni sessuali e l’infedeltà coniugale. Se il cristianesimo delle origini attrasse tantissime donne, ricorda Woods, si deve anche al fatto che la Chiesa aveva santificato il matrimonio e proibito il divorzio, che nelle società antiche era generalmente permesso solo agli uomini. La donna trovò quindi negl’insegnamenti della Chiesa una protezione della propria autonomia e questo spiega l’alto numero di donne che hanno raggiunto la santità. In quali altre parti del mondo, fuori dal cattolicesimo, le donne avrebbero potuto liberamente fondare e gestire comunità religiose autorganizzate, scuole, conventi, collegi, ospedali e orfanotrofi?
E liberismo a go-go
Queste elevate idee morali diffuse dal cattolicesimo si riverberarono nel campo giuridico, influenzando in maniera decisiva. La concezione tipicamente occidentale, secondo cui gli uomini possiedono alcuni diritti naturali per il solo fatto di esistere, non nasce affatto nel Seicento con John Locke o nel Settecento con gl’illuministi. Riprendendo gli importanti studi recenti di Brian Tierney, Woods ricorda che l’idea dei diritti naturali nasce fra i giuristi della Chiesa dei secoli XII e XIII, i canonisti medioevali. Partendo da questa elaborazione giusnaturalista, i pensatori cattolici hanno posto anche le fondamenta del diritto che regola i rapporti tra le diverse nazioni, compresa la teoria della guerra giusta. In particolare, il diritto internazionale nasce nel Cinquecento con il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria, che prese le difese dei diritti naturali degli indios contro le usurpazioni dei conquistadores.
E non è tutto, perché gli uomini di Chiesa hanno dato grandi contributi anche al pensiero economico moderno. Avvalendosi degli studi di Joseph Schumpeter, Murray N. Rothbard e Alejandro A. Chafuen, Woods ricorda che già nel Medioevo i francescani Giovanni Olivi e san Bernardino da Siena, e poi i tardoscolastici cinquecenteschi della scuola di Salamanca, anticiparono la rivoluzione marginalista di fine Ottocento concependo una compiuta teoria del valore soggettivo, di gran lunga più sofisticata della erronea teoria del valore-lavoro diffusa diversi secoli dopo da Adam Smith e dagli economisti britannici, influenzati probabilmente dalla teologia calvinista.
Come sarebbe oggi l’Europa se nella letteratura, nell’arte, nell’architettura, nella scienza, nella morale, nel diritto e nell’economia dell’Occidente fosse mancata l’impronta della Chiesa cattolica? Si tratta di un interrogativo imbarazzante, che gli uomini occidentali di oggi, secolarizzati e desiderosi di sbarazzarsi delle proprie radici cristiane, preferiscono rimuovere.
Guglielmo Piombini, Il Domenicale.
lunedì, novembre 28, 2005
sabato, novembre 26, 2005
2005 Polls
Con la fine dell'anno, come di consueto, stilerò le mie personalissime classifiche dei migliori dischi, film, concerti, blog.
M'è venuta però un'idea, vorrei coinvolgere i miei lettori. Visti gli interessi del sottoscritto, direi di limitarci ai blog cattolici. Sì, insomma, diamo un premio ai migliori blog cattolici dell'anno.
Devo ancora capire come si fa a mettere su uno script per esprimere le proprie preferenze, comunque per ora le categorie sono:
Migliore assoluto
Nuovo (nato nel 2005)
Simpatico
Teologia
Politica
Giornalista
Maschile
Femminile
Prete o religioso
Collettivo (almeno due scrittori)
Straniero (non scritto in italiano)
Non cattolico
Accetto suggerimenti e candidature. Potete scrivermi privatamente (bottoneucd-at-yahoo.com) o lasciare un commento.
In una settimana selezionerò 3 blog per ogni categoria e poi aprirò le votazioni. Intanto spargete la voce.
M'è venuta però un'idea, vorrei coinvolgere i miei lettori. Visti gli interessi del sottoscritto, direi di limitarci ai blog cattolici. Sì, insomma, diamo un premio ai migliori blog cattolici dell'anno.
Devo ancora capire come si fa a mettere su uno script per esprimere le proprie preferenze, comunque per ora le categorie sono:
Migliore assoluto
Nuovo (nato nel 2005)
Simpatico
Teologia
Politica
Giornalista
Maschile
Femminile
Prete o religioso
Collettivo (almeno due scrittori)
Straniero (non scritto in italiano)
Non cattolico
Accetto suggerimenti e candidature. Potete scrivermi privatamente (bottoneucd-at-yahoo.com) o lasciare un commento.
In una settimana selezionerò 3 blog per ogni categoria e poi aprirò le votazioni. Intanto spargete la voce.
Newman translations
Il Piccolo Zaccheo ci segnala l'uscita di nuove traduzioni italiane di J. H. Newman.
Il Piccolo Zaccheo, vale la pena ricordarlo, è a mio avviso il migliore blog apparso negli ultimi mesi.
Il Piccolo Zaccheo, vale la pena ricordarlo, è a mio avviso il migliore blog apparso negli ultimi mesi.
venerdì, novembre 25, 2005
Novembre, mese dei morti
Negli ultimi giorni sono venuti a mancare due filosofi e neanche io mi sento tanto bene. :)
Non erano particolarmente famosi ma che in qualche modo mi interessano.
Uno è John W. Yolton, grande esperto di Locke. Nel pezzo della tesi che sto scrivendo lo critico aspramente e quando ho appreso la notizia della dipartita m'è venuto qualche rimorso. Passerà.
L'altro è Louis Pojman, che ha compilato diverse antologie molto usate dagli studenti. La particolarità di Pojman è che ha firmato alcuni dei suoi lavori con uno pseudonimo, facendo finta di essere donna e difendendo posizioni femministe.
Sto pensando anche io di trovarmi uno pseudonimo femminile. :) Suggerimenti?
Non erano particolarmente famosi ma che in qualche modo mi interessano.
Uno è John W. Yolton, grande esperto di Locke. Nel pezzo della tesi che sto scrivendo lo critico aspramente e quando ho appreso la notizia della dipartita m'è venuto qualche rimorso. Passerà.
L'altro è Louis Pojman, che ha compilato diverse antologie molto usate dagli studenti. La particolarità di Pojman è che ha firmato alcuni dei suoi lavori con uno pseudonimo, facendo finta di essere donna e difendendo posizioni femministe.
Sto pensando anche io di trovarmi uno pseudonimo femminile. :) Suggerimenti?
You're History
Siamo stati a Londra, per poche ore. Bob Geldof non si è presentato, in compenso però c'erano un po' di personaggi interessanti. Due su tutti: John Simpson, che ci ha ricordato che il mondo è un po' migliore di qualche decina di anni fa e Satwinder Sehmi, di professione calligrafo! Ovviamente gli ho chiesto un autografo.
Il tutto si è svolto nella cripta di Saint Paul, la cattedrale anglicana, a pochi metri dalla tomba di Winston Churchill.
Il libro, ora che l'ho avuto tra le mani, non è male. Raccoglie una trentina di brevi saggi su temi di impegno civile. Guerra, fame, carestie, genocidi e un po' di political correctness, che non guasta mai. Insomma un classico regalo di Natale. Non penso verrà tradotto in Italia comunque se vi capita fra le mani, magari in un aeroporto internazionale, compratene una copia. La causa è sicuramente giusta. Anzi, se proprio volete sentirvi buoni, lo trovate su Amazon. Non avete scuse.
mercoledì, novembre 23, 2005
Quand la femmine move l'anca ....
Monica ha provato a tradurre un po' di proverbi abruzzesi. Imperdibile!
martedì, novembre 22, 2005
La “Rosa Bianca”: il coraggio della verità
“Dodici anni d’illegalità e di violenza, fondati su un’ideologia allucinante e retti da uomini eticamente abietti e spiritualmente malati”: a parlare così del nazismo è Romano Guardini (Etica, 99), il sacerdote italo-tedesco, filosofo e teologo, che con le sue opere era stato ispiratore delle scelte dei giovani della Rosa Bianca, condannati a morte per la loro opposizione coraggiosa al regime. Non a caso Guardini consacrerà ai temi dell’etica i corsi degli ultimi anni del suo insegnamento universitario a Monaco, quelli della ricostruzione post-bellica (1950-1962), non solo obbedendo alla sua forte sensibilità alla questione del bene, ma anche per rispondere a ciò che gli sembrava un bisogno epocale, tanto più grande, quanto più tragici erano stati gli effetti della violenza prodotta dall’ideologia e dai suoi presupposti morali. Si trattava di assolvere a un debito etico nei confronti dell’intera umanità: la rimozione della tragedia vissuta non poteva bastare a superarne le cause ultime. Ciò che occorreva era riflettere “in modo giusto”, andare alla radice dei processi avvenuti, per motivare con una profonda svolta morale la costruzione del nuovo futuro cui l’Europa stava mirando nel fervore seguito alla tragedia della guerra. La crisi - Guardini ne era ben consapevole - non era solo della cultura tedesca, era anzi in generale europea, ma aveva trovato nel “caso tedesco” la “punta dell’iceberg” del suo dramma: “Un’azione violenta, senza uguali nella storia europea, ha sottomesso l’uomo tedesco alla propria volontà - ma ciò non sarebbe stato possibile, se egli non fosse stato condiscendente nei suoi confronti. Chi davvero può farlo, ha naturalmente il diritto di affermare di fronte a sé e di fronte agli altri di non aver avuto nulla a che fare con questa storia di violenza. Dovrà però provare a se stesso di essere andato abbastanza a fondo nell’esame su se stesso. Il punto decisivo di questo esame non sta infatti nella domanda: ne sono stato espressamente complice, oppure ho ricavato un utile dall’azione di chi operava? - bensì: ho risposto al dovere dell’esistenza personale, così come avrei dovuto fare?” (ib., 841).
Guardini era legittimato a porre queste domande non solo dalla sua straordinaria preparazione culturale, ma anche e in special modo dalla dignità della resistenza morale che aveva opposto al nazismo e che gli era costata la cattedra: esempio purtroppo non comune fra gli accademici tedeschi (e non solo!). Non senza ragione uno dei pochissimi movimenti di opposizione al regime, la “Rosa Bianca” appunto, promosso da uno sparuto gruppo di studenti universitari di Monaco, aveva potuto ispirarsi alle sue idee: e, per l’autorità morale che gli era riconosciuta da tutti, fu chiamato lui a commemorarli a guerra finita dapprima a Tübingen e poi nella stessa Monaco davanti all’intero corpo accademico. Quei giovani - di cui si torna finalmente a parlare proprio a partire dalla Germania grazie al recentissimo film di un giovane regista tedesco, Marc Rothemund, La Rosa Bianca – Sophie Scholl - avevano pagato con la vita l’obbedienza alla verità: proprio perciò essi rappresentano per Guardini la misura di ciò che la barbarie del totalitarismo aveva voluto negare, e cioè la responsabilità etica personale davanti alla trascendenza del bene e la libertà della coscienza. Questa è stata la vera posta in gioco su cui si è giocato il destino del Novecento: ecco perché ciò che è avvenuto non può in alcun modo essere considerato un incidente di percorso nel processo di sviluppo dell’ideologia moderna. Si tratta invece della manifestazione evidente del potenziale devastante di male e di violenza che gli assoluti ideologici sono in grado di produrre, mettendo l’uomo al posto di Dio. Scrive Guardini: “In larga misura l’uomo non capisce più per quale ragione dovrebbe rinunciare, per amore del bene, a cose che gli sembrano utili o farne altre che esigono sacrificio; ne consegue il nichilismo etico: grazie ad esso ... la motivazione etica vera e propria, cioè quella della suprema altezza di senso del bene, svanisce e viene sostituita da quella derivante dalla motivazione legata all’incremento della vita, all’utilità e infine al godimento” (467).
Alla base della crisi della modernità - esplosa in piena evidenza nella parabola tragica dell’ideologia in tutte le sue espressioni, di destra come di sinistra - sta insomma la perdita del senso della verità e il conseguente oblio del valore infinito della persona e della sua libertà. Per uscire dalla crisi non c’è per Guardini che una sola via: aprire gli occhi di fronte alla verità, precisamente come hanno fatto Sophie Scholl e i giovani della Rosa Bianca. Bisogna uscire dall’io, guardare coraggiosamente fuori di sé, obbedire alla verità, misurarsi con l’altro prossimo e immediato e con l’Altro trascendente e sovrano. E bisogna farlo – nonostante ogni umanissima paura e incertezza – anche a costo della vita, come quei giovani che in pieno trionfo della belva nazista osarono diffondere fra i loro colleghi, nell’atrio dell’edificio universitario oggi a loro intitolato (dove io stesso ho avuto l’onore di parlare di etica e verità a partire da Cristo!), volantini ciclostilati su cui era scritto senza mezzi termini o giri di parole: “Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler è una menzogna…”. Un esempio che – fatte le debite analogie – deve valere per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Anche per noi, oggi, in un’Italia che tutti vorremmo migliore.
Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
Guardini era legittimato a porre queste domande non solo dalla sua straordinaria preparazione culturale, ma anche e in special modo dalla dignità della resistenza morale che aveva opposto al nazismo e che gli era costata la cattedra: esempio purtroppo non comune fra gli accademici tedeschi (e non solo!). Non senza ragione uno dei pochissimi movimenti di opposizione al regime, la “Rosa Bianca” appunto, promosso da uno sparuto gruppo di studenti universitari di Monaco, aveva potuto ispirarsi alle sue idee: e, per l’autorità morale che gli era riconosciuta da tutti, fu chiamato lui a commemorarli a guerra finita dapprima a Tübingen e poi nella stessa Monaco davanti all’intero corpo accademico. Quei giovani - di cui si torna finalmente a parlare proprio a partire dalla Germania grazie al recentissimo film di un giovane regista tedesco, Marc Rothemund, La Rosa Bianca – Sophie Scholl - avevano pagato con la vita l’obbedienza alla verità: proprio perciò essi rappresentano per Guardini la misura di ciò che la barbarie del totalitarismo aveva voluto negare, e cioè la responsabilità etica personale davanti alla trascendenza del bene e la libertà della coscienza. Questa è stata la vera posta in gioco su cui si è giocato il destino del Novecento: ecco perché ciò che è avvenuto non può in alcun modo essere considerato un incidente di percorso nel processo di sviluppo dell’ideologia moderna. Si tratta invece della manifestazione evidente del potenziale devastante di male e di violenza che gli assoluti ideologici sono in grado di produrre, mettendo l’uomo al posto di Dio. Scrive Guardini: “In larga misura l’uomo non capisce più per quale ragione dovrebbe rinunciare, per amore del bene, a cose che gli sembrano utili o farne altre che esigono sacrificio; ne consegue il nichilismo etico: grazie ad esso ... la motivazione etica vera e propria, cioè quella della suprema altezza di senso del bene, svanisce e viene sostituita da quella derivante dalla motivazione legata all’incremento della vita, all’utilità e infine al godimento” (467).
Alla base della crisi della modernità - esplosa in piena evidenza nella parabola tragica dell’ideologia in tutte le sue espressioni, di destra come di sinistra - sta insomma la perdita del senso della verità e il conseguente oblio del valore infinito della persona e della sua libertà. Per uscire dalla crisi non c’è per Guardini che una sola via: aprire gli occhi di fronte alla verità, precisamente come hanno fatto Sophie Scholl e i giovani della Rosa Bianca. Bisogna uscire dall’io, guardare coraggiosamente fuori di sé, obbedire alla verità, misurarsi con l’altro prossimo e immediato e con l’Altro trascendente e sovrano. E bisogna farlo – nonostante ogni umanissima paura e incertezza – anche a costo della vita, come quei giovani che in pieno trionfo della belva nazista osarono diffondere fra i loro colleghi, nell’atrio dell’edificio universitario oggi a loro intitolato (dove io stesso ho avuto l’onore di parlare di etica e verità a partire da Cristo!), volantini ciclostilati su cui era scritto senza mezzi termini o giri di parole: “Ogni parola che esce dalla bocca di Hitler è una menzogna…”. Un esempio che – fatte le debite analogie – deve valere per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Anche per noi, oggi, in un’Italia che tutti vorremmo migliore.
Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto
Da che parte sta l'ipocrisia
Consultorio pubblico, ore 9. «Sono incinta ma vorrei abortire. Cosa devo fare?». L'impiegata non alza neppure il volto dalle scartoffie in cui è immersa, porge un foglio e biascica: «Compili questo modulo e poi entri nel secondo ufficio a destra, per fissare l'appuntamento». Semplice, no? Lo scorso anno questo dialogo paradossale e assurdo nella sua tragica stringatezza, si è ripetuto, con tutte le varianti del caso, per almeno un terzo dei 136mila 700 aborti registrati dall'Istat. Quelle situazioni in cui una donna, indotta da cause le più diverse, ma spesso anche da smarrimento e preoccupazione per il futuro, si è decisa a varcare le fatidiche porte del consultorio, per avere un burocratico via libera ad interrompere la maternità che si portava dentro. Una scelta comunque drammatica, e su questo convergono ormai tutti.
Ma perché l'esito di quell'ingresso al consultorio dev'essere scontato? Forse che quella struttura non è avamposto a servizio e a tutela della donna e della vita che questa porta in sé? Pretesa, questa, né esagerata, né buonista, né confessionale. Lo spiega in maniera inequivocabile l'articolo 2 della famosa legge 194 del 1978 sull'interruzione di gravidanza, una legge - per capirsi - che a tutti gli effetti è della Repubblica italiana. Ebbene se il lessico può prestare il fianco a critiche, la sostanza non lascia spazio a fraintendimenti: «I consultori... possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
Dunque, chiedere nei consultori la presenza di volontari capaci per attitudine e sensibilità di affiancare, con ogni rispetto, la donna in difficoltà a causa di una gravidanza non desiderata, aiutandola a valutare anche le alternative possibili all'aborto, non è una richiesta oltranzista ma semplice e doverosa applicazione del dettato della "194". Eppure, dopo l'annuncio del ministro della Sanità Storace, si è assistito ad una inattesa levata di scudi ideologica da parte di taluni settori della società civile e politica, pronti a stracciarsi le vesti alla sola ipotesi che venga offerta alla libertà della donna una concreta possibilità di scegliere liberamente e liberamente poter anche accogliere la vita. Valore supremo, istanza etica che non dovrebbe avere colore politico, la vita è anche fondamento di una legge che da quasi trent'anni risulta sostanzialmente inapplicata, almeno nella sua parte preventiva. Ecco perché, se nessuno pretende di scardinare la "194", allo stesso modo nessuno può imporre un'applicazione eternamente viziata della stessa legge. Nessuno può impedire quello che la legge chiede, ossia che venga data un'efficace tutela sociale della maternità. In questa prospettiva la presenza dei volontari per la vita nei consultori pubblici, cioè laddove l'aborto viene richiesto e praticato, dovrebbe più che segnare un traguardo ristabilire un corretto punto di partenza. In questi decenni i consultori sono diventati solo presidi sanitari che, anche sotto la spinta di un'egemonia culturale di chiara impostazione abortista, hanno di fatto tradito le loro finalità istitutive. La legge 405 del 1975 li aveva pensati anche come realtà a servizio della famiglia, della maternità e della paternità responsabile. Sono diventati tutt'altro, nonostante tre commissioni nazionali abbiano tentato a più riprese di riqualificarli.
Il nuovo clima di attenzione alla vita scaturito dal recente dibattito referendario, proprio perché non intende rimuovere la 194, chiede però di attualizz arla nella sua interezza, senza ipocrisie e senza omissioni omertose. Arricchire i consultori con una presenza pluralista, in cui la cultura della vita abbia a sua volta piena cittadinanza, dovrebbe essere interesse non solo di tutti coloro che si pongono l'obiettivo di evitare alle donne in difficoltà il trauma dell'aborto - indelebile per comune sentire - ma anche di chi guarda con onestà intellettuale un problema di coscienza che interroga le radici stesse dell'esistenza.
Luciano Moia, Avvenire 20 novembre.
Ma perché l'esito di quell'ingresso al consultorio dev'essere scontato? Forse che quella struttura non è avamposto a servizio e a tutela della donna e della vita che questa porta in sé? Pretesa, questa, né esagerata, né buonista, né confessionale. Lo spiega in maniera inequivocabile l'articolo 2 della famosa legge 194 del 1978 sull'interruzione di gravidanza, una legge - per capirsi - che a tutti gli effetti è della Repubblica italiana. Ebbene se il lessico può prestare il fianco a critiche, la sostanza non lascia spazio a fraintendimenti: «I consultori... possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
Dunque, chiedere nei consultori la presenza di volontari capaci per attitudine e sensibilità di affiancare, con ogni rispetto, la donna in difficoltà a causa di una gravidanza non desiderata, aiutandola a valutare anche le alternative possibili all'aborto, non è una richiesta oltranzista ma semplice e doverosa applicazione del dettato della "194". Eppure, dopo l'annuncio del ministro della Sanità Storace, si è assistito ad una inattesa levata di scudi ideologica da parte di taluni settori della società civile e politica, pronti a stracciarsi le vesti alla sola ipotesi che venga offerta alla libertà della donna una concreta possibilità di scegliere liberamente e liberamente poter anche accogliere la vita. Valore supremo, istanza etica che non dovrebbe avere colore politico, la vita è anche fondamento di una legge che da quasi trent'anni risulta sostanzialmente inapplicata, almeno nella sua parte preventiva. Ecco perché, se nessuno pretende di scardinare la "194", allo stesso modo nessuno può imporre un'applicazione eternamente viziata della stessa legge. Nessuno può impedire quello che la legge chiede, ossia che venga data un'efficace tutela sociale della maternità. In questa prospettiva la presenza dei volontari per la vita nei consultori pubblici, cioè laddove l'aborto viene richiesto e praticato, dovrebbe più che segnare un traguardo ristabilire un corretto punto di partenza. In questi decenni i consultori sono diventati solo presidi sanitari che, anche sotto la spinta di un'egemonia culturale di chiara impostazione abortista, hanno di fatto tradito le loro finalità istitutive. La legge 405 del 1975 li aveva pensati anche come realtà a servizio della famiglia, della maternità e della paternità responsabile. Sono diventati tutt'altro, nonostante tre commissioni nazionali abbiano tentato a più riprese di riqualificarli.
Il nuovo clima di attenzione alla vita scaturito dal recente dibattito referendario, proprio perché non intende rimuovere la 194, chiede però di attualizz arla nella sua interezza, senza ipocrisie e senza omissioni omertose. Arricchire i consultori con una presenza pluralista, in cui la cultura della vita abbia a sua volta piena cittadinanza, dovrebbe essere interesse non solo di tutti coloro che si pongono l'obiettivo di evitare alle donne in difficoltà il trauma dell'aborto - indelebile per comune sentire - ma anche di chi guarda con onestà intellettuale un problema di coscienza che interroga le radici stesse dell'esistenza.
Luciano Moia, Avvenire 20 novembre.
lunedì, novembre 21, 2005
Updates
Dopo uno iato dovuto ai mille impegni, torno su questi schermi come si conviene.
Cosa mi è successo ultimamente?
Allora, la prima conferenza di Atlantis è andata benissimo. Oltre 40 presenti, quando l'anno scorso la media era una quindicina. E, cosa più importante, c'erano molti studenti.
Ho un computer nuovo, anzi non tanto nuovo visto che è di seconda mano. Affianca questo che, viste le premesse, prima o poi morirà improvvisamente.
Oggi inizia l'ultima settmana di lezioni del semestre. Poi una settimana di pausa per studiare e poi esami. Mi hanno chiesto di fare l'esaminatore quindi mi toccherà correggere circa 150 scritti, più una sessantina di elaborati dei miei alunni del tutorato. La materia è sempre quella: Filosofia Antica Orientale e Occidentale.
Ricordate la research fellowship a Glasgow?
Io ci ho provato ma è andata male. Niente paura, mentre aspetto una risposta da Carlow, preparo le domande per Liverpool (senza speranza) e per Leeds
Mercoledì sarò a Londra in occasione della presentazione di You're History: How People Make the Difference, che dovrebbe essere la risposta degli accademici alle sollecitazioni del Live 8. Uno degli autori è il fratello della mia girlfriend. Bob Geldof ci sarà sicuramente ma si aspettano altri personaggi famosi. Vi terrò aggiornati.
Cosa mi è successo ultimamente?
Allora, la prima conferenza di Atlantis è andata benissimo. Oltre 40 presenti, quando l'anno scorso la media era una quindicina. E, cosa più importante, c'erano molti studenti.
Ho un computer nuovo, anzi non tanto nuovo visto che è di seconda mano. Affianca questo che, viste le premesse, prima o poi morirà improvvisamente.
Oggi inizia l'ultima settmana di lezioni del semestre. Poi una settimana di pausa per studiare e poi esami. Mi hanno chiesto di fare l'esaminatore quindi mi toccherà correggere circa 150 scritti, più una sessantina di elaborati dei miei alunni del tutorato. La materia è sempre quella: Filosofia Antica Orientale e Occidentale.
Ricordate la research fellowship a Glasgow?
Io ci ho provato ma è andata male. Niente paura, mentre aspetto una risposta da Carlow, preparo le domande per Liverpool (senza speranza) e per Leeds
Mercoledì sarò a Londra in occasione della presentazione di You're History: How People Make the Difference, che dovrebbe essere la risposta degli accademici alle sollecitazioni del Live 8. Uno degli autori è il fratello della mia girlfriend. Bob Geldof ci sarà sicuramente ma si aspettano altri personaggi famosi. Vi terrò aggiornati.
domenica, novembre 20, 2005
W Xto RE
Oggi solennità di Cristo Re.
Un pensiero di San Josemaría Escrivá
Celebriamo oggi la festa di Cristo Re e senza sconfinare dal mio ambito di sacerdote vi dico che se qualcuno intendesse il regno di Cristo come un programma politico non avrebbe approfondito la finalità soprannaturale della fede e non sarebbe lontano dal gravare le coscienze con oneri che non sono quelli di Gesù, perché il suo giogo è dolce e il suo carico leggero. Amiamo veramente tutti gli uomini. E amiamo soprattutto Cristo. Allora non potremo far altro che amare la legittima libertà degli altri, in una pacifica e rispettosa convivenza.
E’ Gesù che passa, 184
Dall'Angelus di oggi
Fin dall’annuncio della sua nascita, il Figlio unigenito del Padre, nato dalla Vergine Maria, viene definito "re", nel senso messianico, cioè erede del trono di Davide, secondo le promesse dei profeti, per un regno che non avrà fine (cfr Lc 1,32-33). La regalità di Cristo rimase del tutto nascosta, fino ai suoi trent’anni, trascorsi in un’esistenza ordinaria a Nazaret. Poi, durante la vita pubblica, Gesù inaugurò il nuovo Regno, che "non è di questo mondo" (Gv 18,36), ed alla fine lo realizzò pienamente con la sua morte e risurrezione. Apparendo risorto agli Apostoli disse: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18): questo potere scaturisce dall’amore, che Dio ha manifestato in pienezza nel sacrificio del suo Figlio. Il Regno di Cristo è dono offerto agli uomini di ogni tempo, perché chiunque crede nel Verbo incarnato "non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Per questo, proprio nell’ultimo Libro della Bibbia, l’Apocalisse, Egli proclama: "Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine" (Ap 22,13).
"Cristo alfa e omega", così si intitola il paragrafo che conclude la prima parte della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, promulgata 40 anni or sono. In quella bella pagina, che riprende alcune parole del Servo di Dio Papa Paolo VI, leggiamo: "Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni". E così prosegue: "Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10)" (GS, n. 45). Alla luce della centralità di Cristo, la Gaudium et spes interpreta la condizione dell’uomo contemporaneo, la sua vocazione e dignità, come pure gli ambiti della sua vita: la famiglia, la cultura, l’economia, la politica, la comunità internazionale. E’ questa la missione della Chiesa ieri, oggi e sempre: annunciare e testimoniare Cristo, perché l’uomo, ogni uomo possa realizzare pienamente la sua vocazione.
Buon onomastico a wXre.
Un pensiero di San Josemaría Escrivá
Celebriamo oggi la festa di Cristo Re e senza sconfinare dal mio ambito di sacerdote vi dico che se qualcuno intendesse il regno di Cristo come un programma politico non avrebbe approfondito la finalità soprannaturale della fede e non sarebbe lontano dal gravare le coscienze con oneri che non sono quelli di Gesù, perché il suo giogo è dolce e il suo carico leggero. Amiamo veramente tutti gli uomini. E amiamo soprattutto Cristo. Allora non potremo far altro che amare la legittima libertà degli altri, in una pacifica e rispettosa convivenza.
E’ Gesù che passa, 184
Dall'Angelus di oggi
Fin dall’annuncio della sua nascita, il Figlio unigenito del Padre, nato dalla Vergine Maria, viene definito "re", nel senso messianico, cioè erede del trono di Davide, secondo le promesse dei profeti, per un regno che non avrà fine (cfr Lc 1,32-33). La regalità di Cristo rimase del tutto nascosta, fino ai suoi trent’anni, trascorsi in un’esistenza ordinaria a Nazaret. Poi, durante la vita pubblica, Gesù inaugurò il nuovo Regno, che "non è di questo mondo" (Gv 18,36), ed alla fine lo realizzò pienamente con la sua morte e risurrezione. Apparendo risorto agli Apostoli disse: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18): questo potere scaturisce dall’amore, che Dio ha manifestato in pienezza nel sacrificio del suo Figlio. Il Regno di Cristo è dono offerto agli uomini di ogni tempo, perché chiunque crede nel Verbo incarnato "non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Per questo, proprio nell’ultimo Libro della Bibbia, l’Apocalisse, Egli proclama: "Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine" (Ap 22,13).
"Cristo alfa e omega", così si intitola il paragrafo che conclude la prima parte della Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, promulgata 40 anni or sono. In quella bella pagina, che riprende alcune parole del Servo di Dio Papa Paolo VI, leggiamo: "Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni". E così prosegue: "Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: «ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10)" (GS, n. 45). Alla luce della centralità di Cristo, la Gaudium et spes interpreta la condizione dell’uomo contemporaneo, la sua vocazione e dignità, come pure gli ambiti della sua vita: la famiglia, la cultura, l’economia, la politica, la comunità internazionale. E’ questa la missione della Chiesa ieri, oggi e sempre: annunciare e testimoniare Cristo, perché l’uomo, ogni uomo possa realizzare pienamente la sua vocazione.
Buon onomastico a wXre.
giovedì, novembre 17, 2005
Tempo
Il temporaneo silenzio di queste pagine va imputato esclusivamente alla mancanza di tempo e di energia.
sabato, novembre 12, 2005
The academy is a curious place. Time moves more slowly and more swiftly there. Times moves more slowly because more time is visible. Professors know figures long dead more intimately than they know their neighbors or their families. They and their students read ruins, hieroglyphics, layered rocks, dark matter, and old books. They read the alien and the enemy. Christian saints illuminate the gospel by the light of the pagan Aristotle. Time is larger for them, and so it sometimes seems to move more slowly. But those who sit in the company of the dead, who read forgotten books, who have seen the worlds come and go in their minds' eyes, my see things before they happen. They have seen those once regarded as wild-eyed radicals become conservative icon of another day. They have seen yyesterday's conservatives become the vanguard of a later revolution. They see patterns, and so they can predict, sometimes, where changes will come - before it has begun, before those who think they make the changes have conceived them. Time move more slowly for them, but they can move more swiftly through time: into the past and into the future.
Anne Norton, Leo Strauss and the Politics of American Empire.
Anne Norton, Leo Strauss and the Politics of American Empire.
mercoledì, novembre 09, 2005
Un nuovo anno di Atlantis
Domani Mette Lebech inaugurerà la nuova serie di conferenze organizzate da Atlantis e dedicate alla tradizione intellettuale cattolica.
Mette Lebech insegna filosofia presso la NUI a Maynooth. Non l'ho ancora incontrata, so solo che è danese, convertita al cattolicesimo. Ci presenterà la figura di SantaEdith Stein, compatrona d'Europa.
Il 1 dicembre avremo Thomas Kelly, il direttore del dipartimento di filosofia di Maynooth, che ci parlerà di Sant'Anselmo d'Aosta o, come preferiscono da queste parti, Anselmo di Canterbury.
A gennaio Gerard Casey, il direttore del mio dipartimento, ci introdurrà alla vita e alle opere di Walker Percy, un personaggio straordinario, molto popolare negli USA ma non da quest'altra parte dell'Atlantico.
Devo ammettere che quando Casey mi ha fatto il suo nome non avevo minima idea di chi fosse Walker Percy (in realtà poi ho scoperto che grazie a lui è stato pubblicato A Confederacy of Dunces)
Percy, in poche parole, era un medico dell'Alabama, convertitosi al cattolicesimo dopo una grave malattia. Ha scritto diversi romanzi filosofici e opere di semiotica.
(Qui e qui un po' di risorse.)
Il suo romanzo più famoso, The Moviegoer, è stato pubblicato in Italia da Marcos y Marcos.
A febbraio sarà la volta di Vincent Twomey direttore dell'Irish Theological Quarterly e autore di The End of Irish Catholicism? Twomey ha studiato con Joseph Ratzinger e ci parlerà, ovviamente, di papa Benedetto XVI.
A marzo, Dony Mac Manus, un giovane scultore dublinese, presenterà la vita e le opere di Bernini.
Finiremo alla grande, ad aprile, con John Waters un giornalista molto noto da queste parti. Editorialista dell'Irish Times, il più importante giornale irlandese, è famoso per il suo stile polemico e anticonformista.
Waters per un periodo è stato il compagno di Sinead O'Connor, dalla quale ha avuto una figlia. Negli ultimi tempi si è riavvicinato alla fede cattolica. Ci parlerà di Vaclav Havel. (Lo so che Havel non è cattolico, infatti io gli avevo proposto De Valera, ma provateci voi a convincere John Waters.)
Insomma, un bel programma, no?
Mette Lebech insegna filosofia presso la NUI a Maynooth. Non l'ho ancora incontrata, so solo che è danese, convertita al cattolicesimo. Ci presenterà la figura di SantaEdith Stein, compatrona d'Europa.
Il 1 dicembre avremo Thomas Kelly, il direttore del dipartimento di filosofia di Maynooth, che ci parlerà di Sant'Anselmo d'Aosta o, come preferiscono da queste parti, Anselmo di Canterbury.
A gennaio Gerard Casey, il direttore del mio dipartimento, ci introdurrà alla vita e alle opere di Walker Percy, un personaggio straordinario, molto popolare negli USA ma non da quest'altra parte dell'Atlantico.
Devo ammettere che quando Casey mi ha fatto il suo nome non avevo minima idea di chi fosse Walker Percy (in realtà poi ho scoperto che grazie a lui è stato pubblicato A Confederacy of Dunces)
Percy, in poche parole, era un medico dell'Alabama, convertitosi al cattolicesimo dopo una grave malattia. Ha scritto diversi romanzi filosofici e opere di semiotica.
(Qui e qui un po' di risorse.)
Il suo romanzo più famoso, The Moviegoer, è stato pubblicato in Italia da Marcos y Marcos.
A febbraio sarà la volta di Vincent Twomey direttore dell'Irish Theological Quarterly e autore di The End of Irish Catholicism? Twomey ha studiato con Joseph Ratzinger e ci parlerà, ovviamente, di papa Benedetto XVI.
A marzo, Dony Mac Manus, un giovane scultore dublinese, presenterà la vita e le opere di Bernini.
Finiremo alla grande, ad aprile, con John Waters un giornalista molto noto da queste parti. Editorialista dell'Irish Times, il più importante giornale irlandese, è famoso per il suo stile polemico e anticonformista.
Waters per un periodo è stato il compagno di Sinead O'Connor, dalla quale ha avuto una figlia. Negli ultimi tempi si è riavvicinato alla fede cattolica. Ci parlerà di Vaclav Havel. (Lo so che Havel non è cattolico, infatti io gli avevo proposto De Valera, ma provateci voi a convincere John Waters.)
Insomma, un bel programma, no?
Per chi brucia Parigi
Parigi brucia e c'è poco da fare gli scongiuri contro la facile profezia di Romano Prodi, quei roghi di periferia lampeggiano per tutti noi abitatori del centro storico dell'occidente. Noi, i nativi. Gli assimilatori. Gli universalisti. I dispensatori di promesse di emancipazione e uguaglianza e di certificati di residenza e di cittadinanza. Tre generazioni sono bastate perché quelle promesse entrassero nel discredito. Promesse mancate, e di più, promesse in origine falsate. Non è questione solo dello scarto, che oggi molti sottolineano, fra il miraggio dell'uguaglianza e la realtà della discriminazione, nei redditi, nel lavoro, nelle condizioni di vita, nella qualità dell'ambiente urbano. Jack Lang ha certamente le sue fondatissime ragioni quando punta l'indice contro la politica «antisociale» di Chirac e contro «la violenza di stato, il disprezzo, l'abbandono, l'insulto verso i deboli» che ha caratterizzato il governo antiegualitario della destra. Ma non è solo questo il punto. Quel governo antisociale e antiegualitario è lo stesso che con la legge sul velo aveva voluto lanciare viceversa un estremo segnale ugualitario, in linea con la tradizione integrazionista della Republique francese. Quel segnale non solo non ha convinto i suoi destinatari, ma sembra ora rimbalzare come un boomerang sui suoi mittenti.
Non avevamo torto a vedere nella vicenda della legge sul velo e nella filosofia che la sosteneva il sintomo eloquente di una situazione esplosiva. Ribadire il progetto dell'integrazione non serve quando esso rivela la sua vocazione più assimilazionista che egualitaria, in una società differenziata che certo domanda più uguaglianza, ma non sopporta più assimilazione. Quelle ragazze che portano il velo, figlie di madri che per diventare brave cittadine francesi l'avevano dismesso, non sono - o non sempre - il segno di una regressione patriarcale: sono - talvolta - il segno di una diversità rivendicata, e perfino reinventata, contro la parola d'ordine dell'integrazionea ssimilatrice. Diventare come noi non è il loro progetto. La cittadinanza occidentale non ha solo mancato le sue promesse: ha perduto il suo fascino. Il paragone con quanto sta accadendo adesso nelle banlieu non sembri azzardato, anche se i casseurs bruciano e distruggono e le ragazze velate no. Al fondo, c'è il nodo di emarginazioni frustrate dalla mancata promessa di uguaglianza, e di diversità culturali rivendicate contro le pretese di assimilazione.
Parigi brucia e il modello integrazionista anche. La barriera ideologica che la commissione Stasi, motivando la legge contro il velo, aveva cercato di innalzare contro il rischio che il comunitarismo multiculturale angloamericano contaminasse lo spirito della Repubblique e ne minasse le fondamenta universalistiche non ha retto. Ma nemmeno il comunitarismo ha retto nel frattempo, franando prima in Olanda con gli omicidi di Fortuyn e Van Gogh, poi in Gran Bretagna con gli attentatori nati e cresciuti nei sobborghi di Londra. Non era vero quello che solo pochi anni fa l'ottimismo europeista sosteneva, che il vecchio continente fosse dotato di anticorpi sicuri per far fronte all'asprezza dei conflitti delle società globali. Il vecchio continente mostra oggi solo la vecchiezza esausta dei modelli della politica moderna. All'universalismo possiamo ottimisticamente pensare che serva solo una energica cura ricostituente. Quello che è certo è che intanto gli serve un bagno di umiltà, una immersione senza sconti nelle faglie che ha aperto, nelle barriere di incomprensione che ha prodotto, nelle discriminazioni che moltiplica. E' facile giudicare il rogo di una macchina una violenza distruttiva fine a se stessa. Più difficile è sapervi leggere il gesto estremo che prende il posto del linguaggio quando la grammatica e la sintassi universaliste non funzionano più.
IDA DOMINIJANNI
Il Manifesto, 8 novembre 2005
Non avevamo torto a vedere nella vicenda della legge sul velo e nella filosofia che la sosteneva il sintomo eloquente di una situazione esplosiva. Ribadire il progetto dell'integrazione non serve quando esso rivela la sua vocazione più assimilazionista che egualitaria, in una società differenziata che certo domanda più uguaglianza, ma non sopporta più assimilazione. Quelle ragazze che portano il velo, figlie di madri che per diventare brave cittadine francesi l'avevano dismesso, non sono - o non sempre - il segno di una regressione patriarcale: sono - talvolta - il segno di una diversità rivendicata, e perfino reinventata, contro la parola d'ordine dell'integrazionea ssimilatrice. Diventare come noi non è il loro progetto. La cittadinanza occidentale non ha solo mancato le sue promesse: ha perduto il suo fascino. Il paragone con quanto sta accadendo adesso nelle banlieu non sembri azzardato, anche se i casseurs bruciano e distruggono e le ragazze velate no. Al fondo, c'è il nodo di emarginazioni frustrate dalla mancata promessa di uguaglianza, e di diversità culturali rivendicate contro le pretese di assimilazione.
Parigi brucia e il modello integrazionista anche. La barriera ideologica che la commissione Stasi, motivando la legge contro il velo, aveva cercato di innalzare contro il rischio che il comunitarismo multiculturale angloamericano contaminasse lo spirito della Repubblique e ne minasse le fondamenta universalistiche non ha retto. Ma nemmeno il comunitarismo ha retto nel frattempo, franando prima in Olanda con gli omicidi di Fortuyn e Van Gogh, poi in Gran Bretagna con gli attentatori nati e cresciuti nei sobborghi di Londra. Non era vero quello che solo pochi anni fa l'ottimismo europeista sosteneva, che il vecchio continente fosse dotato di anticorpi sicuri per far fronte all'asprezza dei conflitti delle società globali. Il vecchio continente mostra oggi solo la vecchiezza esausta dei modelli della politica moderna. All'universalismo possiamo ottimisticamente pensare che serva solo una energica cura ricostituente. Quello che è certo è che intanto gli serve un bagno di umiltà, una immersione senza sconti nelle faglie che ha aperto, nelle barriere di incomprensione che ha prodotto, nelle discriminazioni che moltiplica. E' facile giudicare il rogo di una macchina una violenza distruttiva fine a se stessa. Più difficile è sapervi leggere il gesto estremo che prende il posto del linguaggio quando la grammatica e la sintassi universaliste non funzionano più.
IDA DOMINIJANNI
Il Manifesto, 8 novembre 2005
martedì, novembre 08, 2005
Mistificazioni
Nessuno mette in discussione il diritto di essere atei, e magari di avere pure in antipatia la religione. Figuriamoci. Ma di qui a dire amenità come quella secondo cui “si è religiosi per caso (per esempio, per l’accidente della nascita), ma si diventa illuministi nel senso genuino della parola solo per scelta”, ne corre. Anche perché, in tal modo, si da mostra di un rifiuto intollerante a capire le esperienze altrui che è la negazione di quella tolleranza illuminista di cui si mena vanto. Ma forse è proprio questo l’illuminismo figlio dell’integralismo islamico… Si da invece il caso che c’è chi diventa religioso attraverso un processo di scoperta e di scelta, e chi nasce fanatico integralista (ateo o credente che sia) e resta tale per tutta la vita.
Giorgio Israel, sul suo blog, strapazza magistralmente Giulio Giorello ed epigoni.
Giorgio Israel, sul suo blog, strapazza magistralmente Giulio Giorello ed epigoni.
lunedì, novembre 07, 2005
Swing
Lo so, sto trascurando questo blog ma ho così tante cose da fare!
Questa settimana ho corretto una diecina di elaborati degli alunni del primo anno della classe serale. (Ho otto classi la mattina e una di sera)
Ieri sera ho scoperto che uno di loro ha copiato spudoratamente da internet. Non qualche passaggio ma due pagine intere su tre!!!
Come me ne sono accorto? Sfortunatamente il furbastro ha copiato tutta la pagina web, compresi i link!! Quando ho visto nel bel mezzo dell'elaborato quelli che sembravano testi di link, ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto l'inganno.
Patetico. Ora ci penserà il capo del dipartimento. Da queste parti il plagiarismo è considerato il peggiore dei crimini accademici.
Al di là dei miei impegni di tutor, continuo con la scrittura della tesi, che si avvicina alla fine. L'ultima parte che ho scritto riguarda John Locke.
Inoltre sto scrivendo l'intervento che leggerò a Bruxelles il 10 dicembre. A dire la verità manca un mese e non ho ancora scritto nulla ma ho le idee ben chiare.
Da qualche settimana io e Blathnaid stiamo imparando a ballare lo swing, in particolare il Lindy Hop. (Per avere un'idea di cosa si tratta, ascoltate questo.)
Questo finesettimana faremo addirittura un corso intensivo!
Imparare a ballare sul serio era una delle mie risoluzioni di inizio anno e devo dire che lo swing ha tutte le migliori caratteristiche che cercavo: è divertente, è un buon esercizio fisico, la musica è di ottima qualità (Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Billie Holliday) e, particolare non trascurabile, permettere di conoscere decine di ragazze (i cavalieri scarseggiano). :)
Questa settimana ho corretto una diecina di elaborati degli alunni del primo anno della classe serale. (Ho otto classi la mattina e una di sera)
Ieri sera ho scoperto che uno di loro ha copiato spudoratamente da internet. Non qualche passaggio ma due pagine intere su tre!!!
Come me ne sono accorto? Sfortunatamente il furbastro ha copiato tutta la pagina web, compresi i link!! Quando ho visto nel bel mezzo dell'elaborato quelli che sembravano testi di link, ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto l'inganno.
Patetico. Ora ci penserà il capo del dipartimento. Da queste parti il plagiarismo è considerato il peggiore dei crimini accademici.
Al di là dei miei impegni di tutor, continuo con la scrittura della tesi, che si avvicina alla fine. L'ultima parte che ho scritto riguarda John Locke.
Inoltre sto scrivendo l'intervento che leggerò a Bruxelles il 10 dicembre. A dire la verità manca un mese e non ho ancora scritto nulla ma ho le idee ben chiare.
Da qualche settimana io e Blathnaid stiamo imparando a ballare lo swing, in particolare il Lindy Hop. (Per avere un'idea di cosa si tratta, ascoltate questo.)
Questo finesettimana faremo addirittura un corso intensivo!
Imparare a ballare sul serio era una delle mie risoluzioni di inizio anno e devo dire che lo swing ha tutte le migliori caratteristiche che cercavo: è divertente, è un buon esercizio fisico, la musica è di ottima qualità (Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Billie Holliday) e, particolare non trascurabile, permettere di conoscere decine di ragazze (i cavalieri scarseggiano). :)
Il rap dell'illegalità nelle nostre città
Alle volte il diavolo dell'illegalità si nasconde nei dettagli. Sentite questa: la Federcalcio vorrebbe giocare un amichevole della Nazionale a Firenze, in ricordo di Ferruccio Valcareggi. Ma non può. Non il sindaco, non il governatore, non il consiglio comunale o quelle regionale, non il presidente della Fiorentina negano il permesso, ma i capi dei club ultrà dei tifosi.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
Il Riformista, 7 novembre.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
Il Riformista, 7 novembre.
giovedì, novembre 03, 2005
Arrestato il 'Vanna Marchi' della Kabbalah
TEL AVIV - La polizia israeliana ha arrestato Shaul Youdkevitch , capo del Kabbalah Center d'Israele, sotto una tipica accusa: il rabbino-mago avrebbe estorto molto denaro ad una malata di cancro, convincendola che con quelle donazioni sarebbe guarita.
Il rabbino Youdkevitch non è uno sconosciuto: il suo Kabbalah Center di Tel Aviv (ma ha altre sedi, una delle quali a Las Vegas) è luogo fisso di pellegrinaggio per la cantante Madonna.
La pop star infatti si è «convertita» al kabbalismo di Shaul Youdkevitch, che è a tutti gli effetti il suo guru.
I giornali del settore spettacolo hanno a lungo parlato della visita compiuta da Madonna e dal suo compagno attuale, Guy Ritchie, nel settembre 2004.
La coppia era «scesa» in Israele insieme a 2 mila fedeli del rabbino Youdkevitch «per assorbire le potenti energie che emanano dalla 'terra santa' nel periodo fra Rosh Haganah e Yom Kippur», le due festività rabbiniche (1).
Tra fedeli c'era anche Marla Maples, una fotomodella divenuta famosa in quanto ex moglie del miliardario Donald Trump.
La Maples ha fatto incetta dell'acqua minerale «Kabbalah», che il rabbino Youdkevitch vende a caro prezzo nel suo «centro», e di cui vanta potenti proprietà spirituali.
L'atrio del «centro» ha infatti uno spazio-shopping, dove si possono comprare borsette, bambole di pezza, abiti per bambini, gioielli e persino bicchieri da tequila - tutti adornati con i 72 nomi di Jahvé.
Ciò che li distingue dalle carabattole similari, ma prive di quelle lettere ebraiche «di potenza», e giustifica il prezzo maggiorato.
Il più efficace amuleto venduto in quel luogo è un braccialetto rosso di stoffa: visto attorno al polso non solo di Madonna, ma di Britney Spears e Courtney Love.
In quell'occasione, un esultante rabbino Gideon Ezra, predicatore del Kabbalah Center («Madonna è la nostra migliore pr») ha dichiarato che la sua setta ha 50 sedi nel mondo (Londra e Parigi, Las Vegas e Los Angeles) e 22 milioni di sostenitori.
Il governo israeliano sostiene il «centro», perché spera che l'arrivo di personaggi da copertina assetati di spiritualità ebraica risollevi il turismo religioso, alquanto in ribasso dalla seconda intifada (2).
Madonna ha rilasciato un'intervista al David Intercontinental Hotel.
Costo del biglietto per assistervi: 500 dollari a testa, che Madonna ha destinato alla più nuova iniziativa del gruppo kabbalista: il corso di «spiritualità per bambini».
Di che si tratta?
«Insegniamo ai bambini la legge di causa e di effetto», ha risposto Madonna, «insegniamo loro che ad ogni azione corrisponde una reazione».
E poi: «i bambini sono puri, sono vicini a Dio».
Madonna si è poi recata in visita alle tombe dei patriarchi e della patriarca Rachele, a Betlemme.
Le tombe, ha spiegato il rabbino-guru Youdkevitch, «Sono vortici di energia. E' noto tra gli studiosi della Kabbalah che quando vai lì, ti ricarichi di energia positiva».
Strano come l'ideologia energetico-spirituale kabbalista proclamata dal rabbino Youdkevitch coincida fin nei dettagli con la mistica di Vanna Marchi.
Anche lei proclamava che «il maestro spirituale Do Nascimiento» era un «vortice di energia positiva».
Che, a pagamento, era in grado di proiettarla sulle clienti e sofferenti. Come Youdkevitch, le somme richieste da Vanna Marchi alle pazienti per «togliere le negatività» che scopriva in esse, erano sempre più esose. Evidentemente, l'identica «spiritualità» ispira le medesime azioni.
Oggi il maestro spirituale Do Nascimiento è latitante nel natio Brasile.
E il grande kabbalista ebreo è detenuto in Israele per estorsione.
Luci spirituali, vortici di energia che si spengono uno dopo l'altro.
Maurizio Blondet
Note
1) «Madonna attends Kabbalah lecture», BBC News, 16 ottobre 2004.
2) Dina Kraft, «The best PR we can have», Jewish Telegraphic Agency, 19 settembre 2004.
La riforma dell'università
Italians
Gentile Severgnini,
vorrei avere un suo parere sulla riforma del mondo universitario approvata qualche giorno fa, che tante proteste ha sollevato. Mi sono laureata 10 anni fa ormai, ma nel leggere i resoconti di questi giorni e i brevi riassunti della riforma, mi viene da pensare, forse ingenuamente, che non sia stato poi così male agire in tal senso. Mi
spiego. Non ho mai apprezzato un sistema che prevedesse la conservazione della cattedra vita natural durante: alcuni professori per abitudine o metodo possono anche essere sempre aggiornati, ma penso che altri si "adagino" forti dell'inamovibilità. Abbiamo poi la ridicola messinscena dei concorsi già definiti in anticipo, dove i partecipanti sanno già se vinceranno o se dovranno presenziare ancora a qualche selezione prima di raggiungere l'obiettivo. Consideriamo anche tutti coloro che desiderosi di far parte di questo mondo si sottopongono ad anticamere lunghissime,
portatrici di frustazioni di vario tipo (attività lavorative gratuite, porta borse di professori o di altri come loro) spesso scaricate sugli studenti al momento dell'esame, magari colpevoli di non avere letto la loro ultima pubblicazione. Nel mondo universitario anglossassone o statunitense, tanto inneggiato negli anni scorsi a scapito delle nostre università, i professori sono a contratto e quindi sono spronati a dare il meglio di loro stessi. Non sarebbe meglio avere un insegnamento di
qualità? Lo pensavo allora, lo penso ancora. E credo che lo pensino anche molti studenti. Del resto l'università non è un obbligo ma una libera decisione, che comporta sacrifici personali ed economici di non poco conto. Quindi meglio un impegno serio che una perdita di tempo.
Anche se posso immaginare chi era a un passo dall'assegnazione di un posto retribuito e teme per il suo futuro.
Giovanna Calzolari, urcacippe@yahoo.it
Cara Giovanna,
non conosco abbastanza la riforma Moratti, e non me la sento di dare un giudizio complessivo. Ma una cosa penso si possa dire. Come ha scritto sul "Sole 24 Ore" Roberto Perotti - professore in Bocconi, uno di cui mi fido - gli accademici italiani non possono limitarsi a dire sempre "no"; questo finisce per avallare un sistema che - come loro sanno bene - non va. L'elenco dei problemi è lungo, e ne abbiamo parlato spesso anche qui: concorsi imbarazzanti, nepotismi sfacciati, posti a vita, scarsa
presenza a lezione, poca disponibilità per gli studenti, e soprattutto umiliazioni a raffica per i giovani accademici (che scappano all'estero, e da lontano si sfogano con "Italians").
A Milano - mi ha raccontato un'amica docente - ci sono professori che usano gli assistenti per fare la spesa e per farsi accompagnare al mattino a fare gli esami del sangue. A San Diego, California mi hanno raccontato di questo barone universitario italiano di medicina (poco inglese, rare pubblicazioni) che si è presentato all'importante congresso e ha detto: "Adesso chiamo il mio ragazzo per metter su il
poster". A quel punto è comparso un 48enne coi capelli grigi e l'aria rassegnata: il "ragazzo" sapeva che le sue ultime speranze di diventare ricercatore erano appese a quei servigi.
Altro punto importante: ho letto diversi resoconti sulle manifestazioni nelle università italiane. Saranno anche un momento sociale importante, non lo metto in dubbio. Ma perché tanti insulti alla Moratti, e pochissime critiche al sistema universitario esistente, di cui gli studenti sono le prime vittime? Credo e spero che si tratti solo d'ingenuità; perché, se i ragazzi italiani sapessero come vanno le cose, sarebbe veramente il colmo.
In sostanza, Giovanna: anch'io, come te, credo che un sistema come quello americano sarebbe utile per sveltire, svegliare e svecchiare l'università italiana. I molti docenti bravi - ne conosco a dozzine - non avrebbe di che temere. Gli altri, invece, dovrebbero preoccuparsi.
Finalmente.
Beppe Severgnini
Gentile Severgnini,
vorrei avere un suo parere sulla riforma del mondo universitario approvata qualche giorno fa, che tante proteste ha sollevato. Mi sono laureata 10 anni fa ormai, ma nel leggere i resoconti di questi giorni e i brevi riassunti della riforma, mi viene da pensare, forse ingenuamente, che non sia stato poi così male agire in tal senso. Mi
spiego. Non ho mai apprezzato un sistema che prevedesse la conservazione della cattedra vita natural durante: alcuni professori per abitudine o metodo possono anche essere sempre aggiornati, ma penso che altri si "adagino" forti dell'inamovibilità. Abbiamo poi la ridicola messinscena dei concorsi già definiti in anticipo, dove i partecipanti sanno già se vinceranno o se dovranno presenziare ancora a qualche selezione prima di raggiungere l'obiettivo. Consideriamo anche tutti coloro che desiderosi di far parte di questo mondo si sottopongono ad anticamere lunghissime,
portatrici di frustazioni di vario tipo (attività lavorative gratuite, porta borse di professori o di altri come loro) spesso scaricate sugli studenti al momento dell'esame, magari colpevoli di non avere letto la loro ultima pubblicazione. Nel mondo universitario anglossassone o statunitense, tanto inneggiato negli anni scorsi a scapito delle nostre università, i professori sono a contratto e quindi sono spronati a dare il meglio di loro stessi. Non sarebbe meglio avere un insegnamento di
qualità? Lo pensavo allora, lo penso ancora. E credo che lo pensino anche molti studenti. Del resto l'università non è un obbligo ma una libera decisione, che comporta sacrifici personali ed economici di non poco conto. Quindi meglio un impegno serio che una perdita di tempo.
Anche se posso immaginare chi era a un passo dall'assegnazione di un posto retribuito e teme per il suo futuro.
Giovanna Calzolari, urcacippe@yahoo.it
Cara Giovanna,
non conosco abbastanza la riforma Moratti, e non me la sento di dare un giudizio complessivo. Ma una cosa penso si possa dire. Come ha scritto sul "Sole 24 Ore" Roberto Perotti - professore in Bocconi, uno di cui mi fido - gli accademici italiani non possono limitarsi a dire sempre "no"; questo finisce per avallare un sistema che - come loro sanno bene - non va. L'elenco dei problemi è lungo, e ne abbiamo parlato spesso anche qui: concorsi imbarazzanti, nepotismi sfacciati, posti a vita, scarsa
presenza a lezione, poca disponibilità per gli studenti, e soprattutto umiliazioni a raffica per i giovani accademici (che scappano all'estero, e da lontano si sfogano con "Italians").
A Milano - mi ha raccontato un'amica docente - ci sono professori che usano gli assistenti per fare la spesa e per farsi accompagnare al mattino a fare gli esami del sangue. A San Diego, California mi hanno raccontato di questo barone universitario italiano di medicina (poco inglese, rare pubblicazioni) che si è presentato all'importante congresso e ha detto: "Adesso chiamo il mio ragazzo per metter su il
poster". A quel punto è comparso un 48enne coi capelli grigi e l'aria rassegnata: il "ragazzo" sapeva che le sue ultime speranze di diventare ricercatore erano appese a quei servigi.
Altro punto importante: ho letto diversi resoconti sulle manifestazioni nelle università italiane. Saranno anche un momento sociale importante, non lo metto in dubbio. Ma perché tanti insulti alla Moratti, e pochissime critiche al sistema universitario esistente, di cui gli studenti sono le prime vittime? Credo e spero che si tratti solo d'ingenuità; perché, se i ragazzi italiani sapessero come vanno le cose, sarebbe veramente il colmo.
In sostanza, Giovanna: anch'io, come te, credo che un sistema come quello americano sarebbe utile per sveltire, svegliare e svecchiare l'università italiana. I molti docenti bravi - ne conosco a dozzine - non avrebbe di che temere. Gli altri, invece, dovrebbero preoccuparsi.
Finalmente.
Beppe Severgnini
mercoledì, novembre 02, 2005
martedì, novembre 01, 2005
Percorsi del riconoscimento
Il problema affrontato dall'ultimo libro di Paul Ricoeur, titolato Percorsi del riconoscimento (Raffaello Cortina, pp. 295, € 25) non è stato oggetto specifico di nessuna tra le grandi opere della storia della filosofia, anche se la questione è in grado di mobilitare tutte le risorse di pensiero di cui la filosofia dispone. Essa, infatti, che ha trattato ampiamente il conoscere, non si è misurata finora - almeno in modo programmatico - col ri-conoscere. Nella sua introduzione Fabio Polidori osserva come un ipotetico lettore, che ignorasse la lunga vita e la personalità dell'autore scomparso nel maggio scorso a più di novant'anni, potrebbe prendere questa per l'opera giovanile di uno studioso che si avventuri in campi inesplorati e metta in cantiere problemi aperti a sviluppi inattesi. È una osservazione che sarebbe piaciuta molto a Ricoeur, permettendogli di sentirsi «riconosciuto»: quel che contava - soleva dire - non era tanto ciò che sarebbe stato di lui dopo la morte, quanto il fatto di restare vivo fino a quel giorno. Questo suo ultimo testo si presta, tra l'altro, a essere considerato un invito al filosofare: non una introduzione in senso scolastico, ma proprio un invito, come furono nell'antichità il Protrepticon di Aristotele o l'Hortensius di Cicerone, che destò nel giovane Agostino l'amore per la sapienza. Misurandosi con i problemi legati al ri-conoscere, Ricoeur entra in un campo di grande ricchezza semantica (che comporta una qualche difficoltà di traduzione): alla parola francese reconnaissance, infatti, corrispondono in italiano due parole diverse, anche se di comune radice: riconosc-imento/riconosc-enza, mentre se si passa dal sostantivo al verbo, la differenza fra le due lingue scompare. All'arco dei significati del verbo reconnaitre è dedicata la preliminare indagine lessicale con la quale si apre il libro. Non a caso, perché l'indagine lessicografica prelude alla ricerca filosofica, attingendo nei suoi primi passi al «tesoro della lingua», ma non pregiudica l'autonomia dell'interrogazione filosofica. Non diversamente si era mosso l'autore in Soi-même comme un autre, nelle considerazioni linguistiche che spiegavano il titolo. Così Ricoeur assolve il suo debito alla svolta linguistica del pensiero novecentesco, ma non si chiude nel linguaggio come in una gabbia.
Una tra le sue lezioni di metodo sta nel considerare il linguaggio, essenzialmente, come apertura verso il reale, verso gli altri e verso se stessi: una apertura che presenta sentieri da percorrere col rischio di perdersi, implicando il continuo confronto con ciò che può sviarci e opporsi al nostro andare. Percorsi, appunto, e non teoria, non possesso definitivo del senso. È un cammino che segue il progredire del triplice lavoro consistente nell'identificare le cose, nel riconoscere se stessi nel rapporto con gli altri, e nella dialettica del riconoscimento reciproco, dove il senso attivo del verbo si converte in quello passivo dell'essere riconosciuto, esponendosi alla minaccia del misconoscimento. Nel compiere questo tragitto Ricoeur convoca, per linee essenziali, i grandi autori della storia del pensiero, dai padri fondatori sino ai maestri della fenomenologia contemporanea, passando per quelle che egli chiama (secondo un ordine più logico che cronologico) le tre vette della filosofia del riconoscimento; la vetta kantiana del riconoscimento-ricognizione degli oggetti, la vetta bergsoniana del riconoscimento delle immagini (in Materia e memoria dove vien affrontato il problema attualissimo del rapporto pensiero-cervello), la vetta hegeliana dell'Anerkennung, il riconoscimento reciproco dei soggetti a partire dalla lotta (con la celebre dialettica del padrone e dello schiavo). Nelle pagine di questo ultimo libro di Ricoeur vengono rivisitati i grandi temi del suo pensiero più recente, che lo hanno accompagnato in realtà lungo tutta la vita: l'agire e l'agente, l'uomo capace, la memoria e la promessa. Ma la parte del libro che suscita una eco maggiore è quella in cui emerge con chiarezza la posta in gioco etico-politica dell'intera ricerca: il tema del riconoscimento reciproco affronta la sfida hobbesiana relativa alla concezione moderna della politica fondata sulla valutazione secondo cui l'uomo può sfuggire alla sua natura (quella di farsi lupo rispetto ai suoi simili) solo a condizione di sottomettersi al potere assoluto dello Stato. Ricoeur, consapevole dell'ineluttabilità del conflitto, ciononostante non è disponibile a lasciare alla violenza, alla guerra e al dominio dell'uomo sull'uomo l'ultima parola. E con un uso sapiente delle sue letture lega il tema fenomenologico-hegeliano del riconoscimento a quello del dono, invocando tanto i classici contemporanei quanto il giovane Hegel e insieme a questi gli autori francesi che, a partire da Mauss, hanno scritto sul dono, arrivando fino agli sviluppi della Scuola di Francoforte con Honneth e alla recente riflessione sociologica di autori come Boltanski, Thévenot, Henaff. La logica del dono implica, oltre alla dinamica dello scambio, la gratuità e la generosità, mentre la sua valenza simbolica mette in luce un elemento di festività dell'esistenza. Si profila così, sullo sfondo, la possibilità di un fondamento nonviolento del legame sociale e di uno «stato di pace» quale orizzonte problematico, difficile ma non impossibile. È un tema, questo, che trova il suo sviluppo più coerente nelle riflessioni che il filosofo francese ha dedicato al rapporto tra la traduzione e il riconoscimento, facendo emergere il vincolo che lega ogni nostra ricerca di senso e di identità all'incontro con l'altro, e allo stesso tempo riproponendo la dissimmetria irriducibile fra l'io e l'altro che contraddistingue qualsiasi nostro rapporto. Nello scarto fra reciprocità e dissimmetria l'essere insostituibile che ciascuno di noi è viene preservato dal rischio di perdersi nell'unità fusionale, garantendo che l'intimità non sia mai disgiunta dal rispetto.
DOMENICO JERVOLINO
Il manifesto, 29 ottobre 2005.
Una tra le sue lezioni di metodo sta nel considerare il linguaggio, essenzialmente, come apertura verso il reale, verso gli altri e verso se stessi: una apertura che presenta sentieri da percorrere col rischio di perdersi, implicando il continuo confronto con ciò che può sviarci e opporsi al nostro andare. Percorsi, appunto, e non teoria, non possesso definitivo del senso. È un cammino che segue il progredire del triplice lavoro consistente nell'identificare le cose, nel riconoscere se stessi nel rapporto con gli altri, e nella dialettica del riconoscimento reciproco, dove il senso attivo del verbo si converte in quello passivo dell'essere riconosciuto, esponendosi alla minaccia del misconoscimento. Nel compiere questo tragitto Ricoeur convoca, per linee essenziali, i grandi autori della storia del pensiero, dai padri fondatori sino ai maestri della fenomenologia contemporanea, passando per quelle che egli chiama (secondo un ordine più logico che cronologico) le tre vette della filosofia del riconoscimento; la vetta kantiana del riconoscimento-ricognizione degli oggetti, la vetta bergsoniana del riconoscimento delle immagini (in Materia e memoria dove vien affrontato il problema attualissimo del rapporto pensiero-cervello), la vetta hegeliana dell'Anerkennung, il riconoscimento reciproco dei soggetti a partire dalla lotta (con la celebre dialettica del padrone e dello schiavo). Nelle pagine di questo ultimo libro di Ricoeur vengono rivisitati i grandi temi del suo pensiero più recente, che lo hanno accompagnato in realtà lungo tutta la vita: l'agire e l'agente, l'uomo capace, la memoria e la promessa. Ma la parte del libro che suscita una eco maggiore è quella in cui emerge con chiarezza la posta in gioco etico-politica dell'intera ricerca: il tema del riconoscimento reciproco affronta la sfida hobbesiana relativa alla concezione moderna della politica fondata sulla valutazione secondo cui l'uomo può sfuggire alla sua natura (quella di farsi lupo rispetto ai suoi simili) solo a condizione di sottomettersi al potere assoluto dello Stato. Ricoeur, consapevole dell'ineluttabilità del conflitto, ciononostante non è disponibile a lasciare alla violenza, alla guerra e al dominio dell'uomo sull'uomo l'ultima parola. E con un uso sapiente delle sue letture lega il tema fenomenologico-hegeliano del riconoscimento a quello del dono, invocando tanto i classici contemporanei quanto il giovane Hegel e insieme a questi gli autori francesi che, a partire da Mauss, hanno scritto sul dono, arrivando fino agli sviluppi della Scuola di Francoforte con Honneth e alla recente riflessione sociologica di autori come Boltanski, Thévenot, Henaff. La logica del dono implica, oltre alla dinamica dello scambio, la gratuità e la generosità, mentre la sua valenza simbolica mette in luce un elemento di festività dell'esistenza. Si profila così, sullo sfondo, la possibilità di un fondamento nonviolento del legame sociale e di uno «stato di pace» quale orizzonte problematico, difficile ma non impossibile. È un tema, questo, che trova il suo sviluppo più coerente nelle riflessioni che il filosofo francese ha dedicato al rapporto tra la traduzione e il riconoscimento, facendo emergere il vincolo che lega ogni nostra ricerca di senso e di identità all'incontro con l'altro, e allo stesso tempo riproponendo la dissimmetria irriducibile fra l'io e l'altro che contraddistingue qualsiasi nostro rapporto. Nello scarto fra reciprocità e dissimmetria l'essere insostituibile che ciascuno di noi è viene preservato dal rischio di perdersi nell'unità fusionale, garantendo che l'intimità non sia mai disgiunta dal rispetto.
DOMENICO JERVOLINO
Il manifesto, 29 ottobre 2005.
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